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Il mobbing in Italia-parte terza-
di Erminia Acri  ( erminia.acri@lastradaweb.it )

12 novembre 2007

Difendersi dal mobbing (1).



Aiutare le vittime del mobbing: questo è lo scopo dei Centri di Ascolto Antimobbing, presenti in Italia ad iniziativa di sindacati, associazioni nate con la finalità specifica di assistere i lavoratori vittime di mobbing, e, da qualche anno, anche di enti pubblici.

L’aiuto è fornito attraverso un’attività di informazione nei confronti del mobbizzato e di intervento specifico nei singoli casi, ad opera dei responsabili dei Centri, con il supporto di esperti (medici, psicologi, avvocati).



Come orientare la vittima di mobbing?


  • Sostegno psicologico per comprendere le cause del mobbing e stabilire un piano individuale per affrontare adeguatamente la situazione

  • invito a raccogliere tutti i documenti relativi ai danni psicofisici subiti

  • invito a rivolgersi al medico competente e ai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls)

  • invito a fare un resoconto scritto di ogni azione mobbizzante subita (data, ora, luogo, persone presenti e descrizione dei fatti)

  • invito a raccogliere documenti, e-mail, appunti e qualsiasi altro scritto che attesti le azioni mobbizzanti

  • invito a cercate alleati (colleghi disposti a testimoniare: magari tra gli Rsu-rappresentanti sindacali unitari- o tra gli Rls o tra lavoratori in pensione)

  • invito ad effettuare in forma scritta, con raccomandata a.r., ogni richiesta diretta all’azienda

  • invito a consultare un legale per eventuali azioni civili e/o penali

  • invito ad evitare assenze per malattia se non per il tempo strettamente necessario, salvo i casi in cui il mobbizzato sceglie di lasciare quello specifico luogo di lavoro, avendo un’alternativa immediata.



Azioni civili a disposizione del mobbizzato.


Azione contrattuale: il diritto al risarcimento del danno deriva dall’inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi di protezione previsti dall’art. 2087 cod. civ., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, ma anche di tutela della professionalita’ prevista dall’art.2103 cod. civ., che sancisce il divieto di trasferimento del lavoratore, se non per provate ragioni tecniche, organizzative e produttive, e l’obbligo di adibirlo alla mansione per la quale è stato assunto, o alla mansione superiore avendola acquisita.

Nel caso di condotte mobbizzanti lesive della professionalità del lavoratore in violazione dell’art.2103 cod. civ. (trasferimento, demansionamento), oltre al risarcimento dei danni, il lavoratore può rivolgersi al giudice per chiedere il ripristino della precedente posizione di lavoro.

Trattandosi di azione contrattuale, può essere proposta nei confronti del datore di lavoro, persona fisica o ente con personalità giuridica.

Onere della prova. Il lavoratore deve provare l’inadempimento del datore di lavoro agli obblighi derivanti principalmente dall’art. 2087 c.c. e dalle altre norme richiamate, ossia: le azioni illecite poste in essere dal datore di lavoro, il danno subito ed il nesso di causalità tra le condotte mobbizzanti ed il danno – almeno in termini di alta probabilità-. Il lavoratore non deve dimostrare, come invece nella responsabilità aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente. Su quest’ultimo infatti, grava l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno o che il danno non è riconducibile all’inosservanza degli obblighi di protezione delle condizioni di lavoro del dipendente.

L’azione contrattuale si prescrive in dieci anni.


Azione extracontrattuale: le condotte mobbizzanti possono dar luogo ad una responsabilità di tipo extracontrattuale, fondata sul generale divieto del neminem laedere ai sensi dell’art. 2043 cod.civ., che pone l’obbligo del risarcimento del danno a carico di chi, con una condotta dolosa o colposa, cagiona un danno ingiusto ad altri. Tale azione può fondarsi anche sulla violazione dell’obbligo di vigilanza sui propri dipendenti da parte del datore di lavoro, di cui all’art.2049 cod. civ., che pone a carico di quest’ultimo una responsabilità indiretta per il fatto commesso dal proprio dipendente.

Può essere proposta nei confronti del datore di lavoro, che risponde sia per fatto proprio ai sensi dell’art. 2043 cod.civ. sia per i fatti illeciti commessi dagli altri dipendenti, ai sensi dell’art. 2049 cod.civ., e nei confronti degli autori materiali della condotta mobbizzante, diversi dal datore di lavoro che rispondono direttamente ai sensi dell’art. 2043 cod.civ.

Onere della prova. Il lavoratore deve dimostrare la condotta illecita, il danno, il nesso di causalità tra la condotta ed il danno, nonchè la colpa o il dolo dell’agente.

Prescrizione: si compie in cinque anni salvi i casi in cui il fatto si considerato dalla legge reato.


Azione ripristinatoria: diretta ad ottenere una sentenza che annulli l’atto lesivo (ad es., demansionamento, trasferimento, dimissioni forzate, ecc.) e ripristini la situazione antecedente ad esso.


Azione cautelare: diretta a prevenire, inibire o far cessare la condotta mobbizzante con i provvedimenti d’urgenza necessari per la salvaguardia dell’integrità psicofisica del lavoratore.

Affinché possa essere emesso il provvedimento cautelare, occorre:

  • che la condotta dell’azienda configuri una palese violazione di norme imperative di legge (fumus boni iuris),

  • che il diritto invocato sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile durante il tempo necessario a farlo valere in un giudizio ordinario. Spetta al lavoratore dimostrare gli elementi concreti su cui si fonda il pericolo (periculum in mora).



Giudice competente per materia:


  • per le azioni proposte dal lavoratore contro il datore di lavoro è indiscussa la competenza del Tribunale in funzione di Giudice Unico del Lavoro, sia con riferimento alla responsabilità contrattuale sia con riferimento alla responsabilità extracontrattuale;

  • le azioni promosse dal lavoratore contro superiori e colleghi, secondo la giurisprudenza, rientrano anche tra le controversie di lavoro e sono, perciò di competenza del Tribunale in funzione di Giudice Unico del Lavoro (<<controversie relative a rapporti di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 409 n. 1) c.p.c. debbono intendersi non solo quelle relative ad obblighi caratteristici del rapporto di lavoro, ma anche quelle per le quali la pretesa fatta valere si colleghi direttamente a detto rapporto, nel senso che questo pur non costituendo la causa petendi di tale pretesa si presenti come antecedente e presupposto necessario, non meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale. Pertanto rientra fra le predette controversie ed e’ quindi devoluta alla competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro quella con la quale il lavoratore richiede il risarcimento dei danni per comportamento ingiurioso del proprio datore di lavoro e del superiore gerarchico, deducendo come causa petendi la violazione dell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro e l’abuso del potere disciplinare>>. Sentenza Cassazione Civile Sezione Lavoro, 15 gennaio 1998, n. 308);

  • per le azioni proposte dai congiunti del lavoratore, la giurisprudenza ritiene sussistente la competenza del Giudice del Lavoro ove i congiunti facciano valere in giudizio, in qualità di eredi, situazioni soggettive di cui era titolare il lavoratore (azioni proposte "iure ereditario"). Per le azioni proposte “iure proprio”, ossia come soggetti estranei al rapporto di lavoro, dai congiunti del lavoratore deceduto, anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente ai sensi dell’art. 2087 c.c., si ritiene che sia competente il Giudice Ordinario perché si tratta di un’azione fondata sulla responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., <<rappresentando il rapporto di lavoro la mera occasione della responsabilità oggetto dell’accertamento>> (Cassazione Civile Sezione Lavoro, 4 settembre 1999, n. 9539).



Giudice competente per territorio:


Il lavoratore può adire, alternativamente, il giudice del luogo in cui è sorto il rapporto -ossia dove si è concluso il contratto di lavoro-, o quello del luogo in cui si trova l’azienda o una sua dipendenza nella quale il rapporto ha effettivo svolgimento. Se non è possibile ricorrere ai suddetti fori, la competenza è determinata secondo le regole generali di cui all’art.18 cod.proc.civ., che così dispone: <<Salvo che la legge disponga altrimenti, e’ competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, e, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora. Se il convenuto non ha residenza, ne’ domicilio, ne’ dimora nella Repubblica o se la dimora e’ sconosciuta, e’ competente il giudice del luogo in cui risiede l’attore>> .

Per i rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni, è competente il giudice del luogo in cui ha sede l’Ufficio della stessa presso la quale il dipendente presta o prestava servizio al momento della cessazione del rapporto di lavoro.


Erminia Acri-Avvocato

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