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Il mobbing in Italia-parte quarta-
di Erminia Acri  ( erminia.acri@lastradaweb.it )

19 novembre 2007

Difendersi dal mobbing (2). Lo straining.



Come si fornisce la prova del mobbing?


Il mobbing si manifesta attraverso comportamenti riconducibili a norme giuridiche vigenti (ad es. la dequalificazione professionale del lavoratore che trova specifica tutela nell’art. 2103 del codice civile; le ingiurie, punite dall’art. 594 del codice penale), ma anche attraverso comportamenti atipici, non riconducibili di per sé ad alcuna specifica norma giuridica (ad es. il silenzio dei colleghi al momento dell’entrata nella stanza del lavoratore discriminato o per risposta alle sue domande, l’esclusione della vittima da attività sociali).


Il lavoratore mobbizzato deve ricostruire la vicenda in modo completo per far comprendere al giudice l’esistenza di un disegno persecutorio diretto ad eliminarlo o, comunque, a lederne la personalità e la dignità. A tal fine può utilizzare come strumenti di prova: documenti scritti; registrazioni ambientali (mediante riproduzioni fotografiche, cinematografiche, fonografiche, ed ogni altra riproduzione maccanografica delle situazioni ambientali); testimonianze; prova per presunzioni; consulenza tecnica; mezzi istruttori che il giudice ha il potere di disporre d’ufficio sui fatti allegati dalle parti.


Ove l’accusa di mobbing non risulti provata in giudizio, sussiste il rischio di ricevere possibili querele per diffamazione o di essere licenziati. In proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto giustificato il licenziamento per il “venir meno del rapporto fiduciario fra le parti”. Ecco perchè, prima di instaurare un giudizio, occorre valutare con molta attenzione la reale possibilità di un buon esito della causa in base agli elementi di cui si dispone a sostegno delle proprie pretese.



Il mobbing è reato?


Nel nostro ordinamento non vi sono norme penali che sanzionino atteggiamenti di vessazione morale o di dequalificazione professionale in quanto tali.

Stante la difficoltà di stabilire con precisione le fattispecie concrete degli atti e dei comportamenti attraverso i quali si verificherebbero la violenza e la persecuzione psicologica ai danni dei lavoratori, bisogna valutare il singolo caso accertando la sussistenza degli elementi di altre fattispecie previste dalla legge penale.


Diverse, infatti, sono le fattispecie incriminatici cui si è cercato di ricondurre l’aggressione psicologica subita nell’ambiente lavorativo, principalmente le seguenti:

  • abuso d’ufficio ex art. 323 cod. pen., ove le vessazioni, compiute nell’ambito di un ufficio pubblico, rientrino nel delitto di abuso d’ufficio;

  • lesioni ex art 582-583 cod. pen., se dal mobbing sono derivate lesioni;

  • ingiurie ex art. 594 cod. pen., se l’aggressione si è sostanziata anche in una lesione dell’onore;

  • violenza sessuale ex art. 609 bis cod. pen.


In proposito, la scorsa estate, è stata molto pubblicizzata dai mezzi di comunicazione la sentenza n.33624/2007 della Corte di Cassazione, V sez. penale, sull’assunto che essa abbia inteso escludere in senso assoluto la rilevanza penale dei comportamenti mobbizzanti, mentre, in realtà, si è limitata a precisare che, proprio perchè non esiste, nel nostro ordinamento, una norma che contempli il reato di “mobbing”, la tutela penale può intervenire solo nei casi in cui risultino integrati gli elementi oggettivi e soggettivi di altre fattispecie . Nella vicenda esaminata, un’insegnante di sostegno, dopo reiterate vessazioni, aveva denunciato il dirigente scolastico dell’Istituto presso il quale prestava servizio. A fronte dell’accusa formulata dal pubblico ministero “di lesioni personali volontarie gravi in ragione dell’indebolimento permanente dell’organo della funzione psichica, in sostanza di un comportamento riconducibile nella condotta di mobbing”, la Cassazione ha confermato la sentenza del gup del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ritenendo non sussistenti gli elementi del delitto di lesioni personali, per carenza di prova sia in ordine ai fatti assunti come lesivi dell’integrità psicofisica dell’insegnante interessata, sia in ordine al nesso di causalità, stante la difficoltà di individuare atti a cui collegare la lesione dell’organo della funzione psichica lamentata. Inoltre, la Corte ha precisato che il reato più vicino alla fattispecie conosciuta come “mobbing” è l’illecito previsto dalla disposizione dell’art.572 cod. pen. (maltrattamenti) commesso da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione, non riscontrato, però, in quel caso specifico.



Lo straining.


Il termine straining deriva dal verbo inglese to strain (tendere, sforzare, distorcere stringere, mettere sotto pressione), ed è stato recentemente impiegato dallo psicologo Ege per individuare “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata da una durata costante”. Si tratta di forma di persecuzione attuata “contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante”, da cui deriva per la vittima una condizione particolare di stress con effetti a lungo termine.

La differenza sostanziale rispetto al mobbing è che non si richiede una data frequenza delle azioni ostative, ma è sufficiente anche ad una sola azione discriminante -come il demansionamento – che produca un effetto duraturo.

Questa fattispecie è stata riconosciuta per la prima volta dal Tribunale di Bergamo che, con la sentenza del 20 giugno 2005, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno ad una lavoratrice che era stata dequalificata, in considerazione della “gravità del comportamento posto in essere ... desumibile dalla completa privazione delle mansioni, dalla durata della dequalificazione, dall’anzianità aziendale della lavoratrice e dalle modalità con cui è stato attuato, in maniera plateale quasi a rappresentare un monito per gli altri dipendenti che intendessero esprimere le proprie opinioni riguardo alle decisioni aziendali” con quantificazione del danno nella misura di euro 500,00 per ogni mese di dequalificazione subita -pari a circa l’80% della retribuzione netta della lavoratrice - e di euro 10.655,26 a titolo di risarcimento del danno biologico.



Erminia Acri-Avvocato

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