Luci
nel buio
In
questi giorni qualcuno ha scritto: “Penso
che il carcere sia un’invenzione stupida perché non
migliora ma invece peggiora i suoi abitanti, non stimola nessuna
riconciliazione fra vittima e carnefice. Inoltre, dopo tanti anni di
carcere scontato, la pena non ha più nulla a che vedere con il
recupero sociale”.
Quante
volte ho scritto anch’io queste parole, quante volte ho
ribadito che una pena che non si piega ad alcuna utilità e
scopo non farà mai sicurezza, quante volte.
Eccoci
ancora qui a parlare di carcere, di galera, di sotterranei
sub-urbani, di celle e morti ammazzati, di riforme inconcludenti, di
urla e grida per bene silenziate.
Carcere,
carcere, carcere, come se la prigione fosse la soluzione a ogni
sberleffo consegnato alla vita, a ogni umiliazione sgomitata alla
vita, a ogni tragedia per lo più incomprensibile.
Carcere
e sovraffollamento che nuovamente sale come dato esponenziale,
comprime ogni umanità, ribaltandone valori e principi
universali, nell’ inutile consuetudine delle parole deprivate
di sostanza e quindi significato.
Ripensando
a questa sorta di terra di nessuno, dove appunto nessuno vuole
guardare, mi ritorna in mente un testo teatrale che ho scritto e
portato in scena qualche tempo fa: Art. 27 e vecchi merletti.
Nella
scena quarta il protagonista-detenuto parla del penitenziario in
asfissia in maniera anche presuntuosa, affermando che la problematica
devastante del sovraffollamento che rende impraticabile qualsiasi
forma di sopravvivenza, figuriamoci di rieducazione, ma forse è
possibile aggirarla con uno scacco matto in tre mosse.
Come
è dato sapere la popolazione carceraria, attualmente,
s’aggira intorno alle sessantamila unità, suddivisa in
tre parti quasi identiche tra detenuti stranieri, detenuti
tossicodipendenti, detenuti autoctoni criminalità comune. Il
restante dieci per cento è composto da detenuti organici, o un
tempo facenti parte le grosse organizzazioni criminali, per lo più
sottoposti al 41 bis o in regime di alta sicurezza-sorveglianza.
Ebbene,
siamo un paese che ogni volta che viene strattonato politicamente da
altri paesi, reagisce affermando che la nostra sovranità e
autorevolezza ci aiuta sempre a non demordere; infatti siamo stati
capaci di paralizzare le colonne di migranti in mare e terra,
mettendoci d’accordo con paesi di dubbia democrazia e moralità,
attraverso fiumi di danari e commesse. Abbiamo fermato l’inondazione
inarrestabile di miserie umane, al prezzo di non vedere né
sentire. Dunque se abbiamo nella nostra faretra ’si tanta
autorevolezza e decisionismo, non vedo il perché dei tanti e
troppi detenuti stranieri in carcere, e quindi non stiamo parlando di
profughi tanto meno di rifugiati, né di uomini e donne e
bambini in fuga dall’orrore della guerra, dalla tortura e dagli
ammazzamenti, bensì di persone pregiudicate e reiteratamente
incarcerate per reati contro il patrimonio, per spaccio, per violenze
indicibili sulle persone. Perché non dovremmo usare
quell’autorevolezza e capacità decisionale per
rimandarli nel loro paese di origine a scontare le pene comminate?
Abbiamo
una ampia fetta di detenuti tossicodipendenti, per non parlare di
quella larga parte di persone che potrebbero essere declinate
tranquillamente borderline, peggio, dichiaratamente da doppia
diagnosi.
Sul
nostro territorio da nord a sud ci sono molte comunità di
servizio e terapeutiche che possono essere approntate a ricevere
questi “malati” perché di persone malate si
tratta, la galera non può certo assolvere al loro disagio
sanitario, non solo e non tanto per smetter momentaneamente la
dipendenza fisica, ma soprattutto per costruire una possibilità
di rinascita dignitosa. Checché se ne dica o si tenti di far
passare per buona la dicitura del recupero e della rieducazione,
rimane il fatto che il carcere non insegna né fa apprendere il
valore del rispetto per se stessi e per gli altri.
C’è
un bacino di utenza penitenziaria che non ha come problema primario
l’assoggettamento al crimine, alla dipendenza delle sostanze,
bensì è soggetta a un vero e proprio disagio psichico.
E
siamo arrivati alla percentuale non di poco conto di popolazione
autoctona, cosiddetta criminalità comune, quelli che risultano
essere dati statistici alla mano, di bassa pericolosità
sociale. Che però fanno così rumore da esser percepiti
come i peggiori, infatti sono quelli che entrano nelle nostre per
rubare, mettondo le mani nelle nostre cose più intime.
Da
qualche anno sono responsabile, insieme ai miei colleghi nella
Comunità Casa del Giovane, di un nuovo laboratorio istituito
per ospitare persone imputate di reati minori, in messa alla prova o
in lavoro socialmente utile, che i tribunali avendo ottenuto la
nostra disponibilità, mandano presso le nostre strutture per
far loro svolgere quanto stabilito in sentenza, una pena
risarcitoria-riparativa e dunque non ininfluente/inconcludente.
Mi
chiedo quindi perché non sono indirizzati in percorsi di
pubblica utilità tutti quei detenuti a non elevato indice di
pericolosità, che invece sovraffollano passivamente il carcere
italiano, senza apprendere, l’importanza di una scelta di
cambiamento effettiva, perché connotata da una revisione
critica del proprio vissuto.
Insomma
cambiano cordata i partiti, nascono nuovi movimenti, così che
le idee e gli ideali sommandosi e detraendosi rimangono progetti
impolverati dall’incuria intellettuale.
Praticamente
è storia vecchia: tutto cambia per rimanere esattamente come
è.
Qualcuno
potrebbe licenziare quanto fin qui detto, stabilendo che è una
proposta esageratamente ambiziosa, a tal punto da rasentare l’utopia.
Potrei
tranquillamente obiettare che l’utopista chè è
soltanto tale, finisce con l’essere un illuso nella teoria e un
violento nella pratica, mentre chi si s’accompagna all’utopia
non confonde mai il vicolo cieco con la strada maestra.
In
conclusione sarà bene per ognuno e per ciascuno comprendere
che la libertà non è altro che responsabilità,
di conseguenza la capacità di opporre scelte consone. Infatti
la libertà non è fare tutto quello che voglio come
pensa normalmente un adolescente.
Ecco
che allora per chi si troverà a varcare un portone blindato
del carcere, sarà davvero salutare che quando ritornerà
in seno alla società, abbia raggiunto quella maturità,
che lo porterà a pensare che forse la pena l’ha
scontata, nonostante l’indicibilità di una sofferenza
gratuita e non contemplata in alcun codice penale tanto meno dalla
nostra Costituzione.
Forse
proprio adesso che i piedi sono “fuori” iniziano i conti
con la propria coscienza.
Se
il carcere saprà aiutare ad esser uomini migliori, non
costringendo le persone a sentirsi cose, oggetti, numeri, avremo una
città migliore, ma soprattutto avremo una società
migliore.
Vincenzo
Androus - Counselor,
Tutor Comunità "Casa del Giovane" Pavia
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