C’è
nell’aria un sapore strano, sapete, no, non potete saperlo, e
spero tanto, che non lo scoprirete mai, quel sapore di cui sto
parlando.
E’
il sapore del sangue mischiato al carburante, del ferro contorto,
dell’acciaio bruciato.
Un
sapore strano appunto, dove marca il territorio l’assenza
eterna che diventa presenza costante, il fuori posto, qualcosa che
manca all’appello oggi e pure domani.
Ci
si arrabatta a reperire attenuanti generiche prevalenti alle
aggravanti, a osservare poco più in là, qualche metro
da noi, dall’altra parte della strada, della via, a casa tua,
non certamente nella mia. Guardiamo spesso, sempre più spesso
agli altri, lontani, sconosciuti, nel tentativo maldestro di
autoassolverci.
Ogni
volta che ci assale la tragedia, l’inciampo, l’ostacolo
duro come pietra che dura, scaraventandoci sulle ginocchia con la
testa reclinata in avanti, restiamo disperatamente aggrappati alle
nostre medagliette appuntate sul petto, con la convinzione di averla
fatta franca ancora una volta, infantilizzati al punto di agognare il
primo posto alle olimpiadi delle commiserazioni.
Da
giorni si susseguono le dicerie sprovviste di orme, le filmografie da
due cents, i racconti azzoppati, le balle e le verità
contrapposte.
Si
alternano le offese, gli insulti, le spocchie miserabili di chi sa
tutto, di chi sa niente, di chi vorrebbe esser all’altezza di
salvare il mondo, mentre questo mondo tra macerie e detriti, lo potrà
salvare soltanto un Uomo, il nostro amico dei piani alti, a noi non
resta che tentare, ma per davvero, una sorta di ortopedia
esistenziale di tutti giorni, dei gesti quotidiani ripetuti, per
meglio vedere a un palmo dal nostro naso, dove non intendiamo vedere,
figuriamoci se ascoltiamo il cuore.
Una
trasmissione dietro l’altra, dossier, incontri, confronti, dove
ognuno e ciascuno sta ben stravaccato nei salotti buoni, anche in
quelli sgangherati, interloquendo forbitamente sul problema mai
risolto dell’essere, di morale, di etica, di sistemi complessi,
un po’ meno e più comprensibilmente di un adolescente
che ha deciso di mollare improvvisamente la sua vita, badate bene,
non ho detto gli ormeggi, per quanto un quattordicenne sappia cosa
significhi capacità di scelta, responsabilità, dunque
la stessa libertà di sentirsi libero dentro.
Diatribe
manipolanti fino al punto di etichettare una madre senza più
la propria carne in grembo, simile a un bicchiere vuoto capovolto,
come fosse naturale imputarle la scomparsa del proprio figlio.
Giorni
e giorni a giudicare e condannare senza l’ultima volontà
di un perdono, dapprima quella donna, poi chi ha mandato le forze
dell’ordine, infine definendo la droga apparentemente non sia
affatto droga, perché non fa male, anzi fa stare bene, di
più, è assai meno pericolosa di una responsabilità
venuta meno.
Ore
e ore spese a contrapporre ideologicamente il diritto alla tutela
della vita al dovere di rispettarla quella vita, compito che spetta a
ognuno e ciascuno, non solamente delegando allo Stato azioni
salvifiche oppure l’eventuale epitaffio.
Quando
di mezzo c’è un giovane, il suo disagio, il suo
malessere, possiamo metterla giù come meglio ci aggrada,
affibbiando tutte le colpe ai genitori, stabilendo arbitrariamente
che non si tratta di una madre coraggio, che addirittura
l’irresponsabilità ha la sua residenza nella dimora di
quell’adolescente, non nella sua cameretta.
Possiamo
tritare la realtà come meglio vogliamo, svuotare della
sostanza le parole e le stesse responsabilità degli aggettivi
usati come corpi contundenti, rimane quel sapore strano che non ci
consente di fare spallucce, di fare finta di niente, di cavarcela
additando questo e quello, perché a volte, soprattutto in
questo caso, volenti o non volenti, la spiegazione si cela nei
dettagli. E quel dettaglio potrebbe esser domiciliato in una domanda
che sembra non possedere permesso a mostrarsi: ma davvero c’è
qualcuno che è d’accordo a consentire l’uso di
sostanze al proprio figlio?
Vincenzo
Andraous – Counselor
Tutor comunità “Casa del Giovane” Pavia
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