Nel
suo libro "Della guerra", pubblicato postumo nel 1832, il
generale prussiano Karl von Clausewitz, che aveva maturato una lunga
esperienza nel corso delle sanguinose guerre napoleoniche, che furono
le prime guerre dell’era capitalistica contemporanea, elabora e
propone un’analisi seria e approfondita del problema, di cui riesce a
cogliere l’essenza più recondita applicando una logica
tipicamente hegeliana.
Tra
le altre cose, il generale von Clausewitz scrive la celebre frase:
"La guerra non è che la continuazione della politica con
altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto
politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del
procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi";
ed ancora "La guerra è un atto di forza che ha lo scopo
di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà".
Hegel
afferma che "La storia, senza guerre, registra solo pagine
bianche", intendendo dire che le guerre determinano i principali
cambiamenti della storia umana. Sviluppando e capovolgendo la
dialettica hegeliana su basi storico-materialistiche, il pensiero
marxista introduce ulteriori elementi critici ed innovativi nella
valutazione e nella comprensione del fenomeno, riconducendo l’essenza
causale più profonda dei conflitti bellici e sociali
all’economia in quanto motore della storia, che è "storia
di lotta di classe".
Ebbene,
nel corso della storia millenaria dell’umanità, ma soprattutto
nell’epoca contemporanea, segnata e dominata dalle forze soverchianti
e preponderanti del capitalismo e dell’imperialismo economico, le
riflessioni elaborate da von Clausewitz e da Hegel, ma soprattutto
l’analisi critica suggerita dal marxismo, hanno trovato un riscontro
effettivo. Nelle sue fasi cicliche di sviluppo e di espansione, ma
soprattutto nei suoi momenti di crisi e decadenza, il capitalismo ha
generato miseria e sfruttamento, morti, catastrofi e distruzioni,
barbarie e guerra. Da almeno 100 anni il capitalismo è in fase
di decadenza e le crisi esplodono periodicamente.
L’attuale
catastrofe economica è il frutto di cent’anni di decadenza del
sistema capitalista, che si è arenato in una fase storica di
decomposizione avanzata, ormai irreversibile. In passato, per
scongiurare altre depressioni economiche come, ad esempio, quella del
1929 (la grave recessione provocata dal Big Crash: il pesante crollo
della borsa di New York, avvenuto martedì 29 ottobre 1929,
perciò definito il “Martedì nero”), il
sistema capitalistico ha comunque escogitato diverse soluzioni
possibili e praticabili all’interno del sistema stesso, ossia
all’interno dell’orizzonte capitalistico, mediante il
ricorso all’interventismo statale e all’ampliamento della
spesa pubblica. Si pensi, ad esempio, a soluzioni di ispirazione
keynesiana quali il New Deal. Oppure ha intrapreso risposte in chiave
neo-imperialistica per difendere e consolidare lo status quo, cioè
l’ordine padronale esistente.
Le
politiche neo-coloniali e neo-imperialistiche non sono servite solo
per la ricerca di un’area di sbocco per le merci provenienti dai
paesi capitalistici più sviluppati o di un luogo ove reperire
materie prime e risorse energetiche a buon mercato, o manodopera a
basso costo, ma sono state anche un modo efficace per conquistare
zone in cui accrescere il capitale senza dover affrontare la
concorrenza di settore. Parimenti, l’intensificazione della
corsa agli armamenti, la conversione bellica dell’industria,
imposta dalle multinazionali dell’industria pesante,
metalmeccanica, siderurgica, petrolifera, fu la strada scelta dalle
classi dominanti per uscire dalla pesante depressione del ’29,
che ha inevitabilmente condotto ad una nuova, sanguinosa guerra
mondiale (a nulla è servita la tragica lezione della prima
guerra mondiale).
Il
nazifascismo fu un altro tipo di reazione delle classi dirigenti
dell’epoca alla crisi sociale ed economica del primo
dopoguerra, e contribuì ad acuire le tensioni e i conflitti
tra le potenze imperialistiche europee e occidentali, accelerando il
cammino che trascinò i popoli al tragico conflitto mondiale.
Durante i 25 anni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale,
in tutti i paesi maggiormente industrializzati (Italia inclusa) si è
verificato un ciclo di sviluppo e di espansione economica diffusa e
costante, un periodo storico definito col termine di "boom
economico". Ma nel corso degli anni ’70 questa fase di crescita
è stata frenata dalla crisi del dollaro (e del sistema
monetario internazionale, che porterà nel 1971 alla fine degli
accordi di Bretton Woods, con la dichiarazione unilaterale
statunitense di inconvertibilità del dollaro in oro) e dalla
crisi petrolifera esplosa nel 1973 in seguito alla guerra del Kippur
(combattuta tra Egitto/Siria ed Israele), che causò un
innalzamento vertiginoso del prezzo del barile. E veniamo all’attuale
catastrofe economica e sociale.
La
crisi odierna investe l’apparato economico complessivo,
mettendo in discussione l’intero modo di produzione
capitalistico su scala planetaria. Infatti, quella in corso è
una crisi di sovrapproduzione. Ciò significa che negli ultimi
lustri si è determinato un ciclo di sviluppo produttivo e di
accumulazione smisurata di profitti, generati da un eccessivo
sfruttamento dei produttori, cioè degli operai e dei
lavoratori salariati. I quali, a dispetto dei ritmi, degli orari e
degli standard di rendimento produttivo indubbiamente elevati, si
sono progressivamente impoveriti. E ciò è avvenuto in
tutto il mondo, compresa l’Italia, per effetto di un processo
di globalizzazione economico-imperialista che ha generato condizioni
crescenti di miseria e sfruttamento, sottosviluppo e precarietà,
imponendo livelli sempre più bassi del costo del lavoro su
scala internazionale, malgrado gli operai delle fabbriche abbiano
fatto e facciano molto più del loro dovere.
Le
conseguenze immediate sono evidenti a tutti: un drastico calo dei
consumi, destinati a ridursi ulteriormente, alimentando e accrescendo
in tal modo la tendenza recessiva in atto; un incremento esponenziale
della disoccupazione e della precarizzazione, con inevitabili
conseguenze in termini di drammatici costi sociali ed umani, di
ulteriore indebolimento e degrado dei lavoratori del sistema
produttivo e, quindi, un progressivo abbassamento degli acquisti di
beni di consumo. Ciò innescherà un meccanismo vizioso
che auto-alimenterà la recessione, sino al tracollo definitivo
del capitalismo globale, che cadrà irrimediabilmente in
rovina, almeno nelle forme e nei modi conosciuti finora.
A
nulla potrà servire l’assunzione di rimedi inutili e
tardivi, di provvedimenti illusori di pura facciata quali, ad
esempio, l’auto-riduzione dei megastipendi e la limitazione dei
compensi dei supermanager e dei dirigenti di banca, o di misure tese
alla moralizzazione e regolamentazione dei mercati finanziari e
persino alla proibizione dei paradisi fiscali. Misure oltretutto
annunciate enfaticamente, ma che non sono state applicate. Nel caso
odierno, la fuoriuscita dalla crisi è possibile solo
attraverso la fuoriuscita definitiva e totale dal sistema
capitalistico. Naturalmente tale prospettiva, sempre meno teorica e
sempre più concretae realistica, turba non poco i capitalisti
(e i loro servi).
Per
arginare l’esplosione di rivolte, sommosse e conflitti sociali
come quelli a cui stiamo assistendo un pò ovunque nel mondo, i
capitalisti invocheranno l’adozione di altre soluzioni
politiche, magari estreme, di segno apertamente reazionario (stile
nazifascismo in versione aggiornata, per intenderci), e che sul
versante propriamente economico potranno condurre ad una nuova,
pericolosa corsa al riarmo e, di conseguenza, ad uno sbocco
bellicista, ad un lungo periodo di sanguinose guerre globali. È
evidente che non basta appropriarsi dei mezzi produttivi, né
rovesciare il quadro dei rapporti di forza esistenti, ma occorre
trasformare in modo rivoluzionario il sistema di organizzazione
e gestione della produzione stessa. Infatti, le imprese
capitalistiche sono state create per ottenere ingenti profitti
economici privati sui mercati e non per soddisfare le esigenze vitali
e primarie delle persone. È la loro struttura e natura
intrinseca ad essere viziata.
Occorre
quindi riconvertire le aziende verso la produzione di beni di prima
necessità, in modo tale che il valore d’uso riacquisti il suo
antico primato sul valore di scambio, e l’autoconsumo delle unità
produttive costituite sui territori locali, geograficamente limitati
e politicamente autogestiti in termini di democrazia diretta e
partecipativa, prevalga sulle false esigenze consumistiche, sui
bisogni indotti dal mercato capitalistico, annullando la dipendenza e
la subordinazione delle istanze sociali rispetto alle ferree leggi
del profitto privato.
Bisogna
prendere atto che qualsiasi discorso di sinistra che proponga il
sostegno alla ricerca, all’innovazione e allo sviluppo, o chieda di
rafforzare la crescita del PIL nazionale, senza rivendicare o
propugnare la socializzazione della proprietà, alla lunga si
rivelerà una iattura per gli interessi delle classi operaie e
lavoratrici. I sindacati e i partiti di sinistra non devono battersi
per incentivare o rilanciare la competitività delle imprese
economiche private, ma devono dimostrare che malgrado la produttività
il sistema risulta invivibile ed inaccettabile per i lavoratori. In
altri termini, bisogna rimettere seriamente in discussione il
paradigma stesso dello sviluppo. Di per sé il concetto di
"sviluppo" non presuppone affatto un miglioramento del
tenore di vita della gente. Non possiamo più adoperare criteri
quantitativi come il PIL di una nazione o il reddito procapite, per
calcolare il tasso di giustizia e di eguaglianza sociale, di
progresso e democraticità di una comunità.
Lucio
Garofalo
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