Parto
da una mia impressione soggettiva. Una comunità che non riesce
a sviluppare una normale dialettica democratica, in nessun luogo o
piazza, reale o virtuale, temo sia avvilente. Nelle sedi più
istituzionali i processi sono molto convenzionali e standardizzati,
ma la libertà del confronto pluralista dovrebbe
svolgersi altrove, invece si censurano persino i post su Facebook.
Tutto ciò è assai triste. Temo che chiunque preferisca
la censura commette solo un errore in termini di immagine e strategia
propagandistica. La verità è che, ormai, la
partecipazione ad iniziative pubbliche locali è talmente
circoscritta ad una cerchia minoritaria composta da tecnici,
affaristi, faccendieri e traffichini, da rasentare percentuali
prossime allo zero virgola uno per cento. A malapena vi prendono
parte i soliti mestieranti, quei politicanti da strapazzo che si sono
avidamente impossessati della "cosa pubblica" rendendola
"cosa nostra". La gente è altrove, nei centri
commerciali, non per fare la spesa, visto l’impoverimento generale
del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni. È
sconfortante assistere alla "nobile arte" della Politica,
che dovrebbe promuovere la più elevata forma di socialità
e di aggregazione democratica nella Polis, ridotta ad un miserabile
esercizio esclusivo per gli "addetti ai lavori": furbetti,
professionisti corrotti, carrieristi, arrivisti, opportunisti che
fanno i loro comodi in maniera rivoltante, amplificando il sentimento
di disaffezione e nausea che la società civile nutre verso
un’oscena privatizzazione affaristica della vita pubblica.
Personalmente, nutro un’avversione profonda verso ogni forma di
settarismo e di ottuso integralismo, verso gli impostori che
all’inizio predicano bene (taluni male), ma alla prima occasione
tentatrice razzolano peggio di coloro contro cui avevano inveito o
lanciato anatemi. Ciò non deve impedire di prendere atto di un
sistema talmente marcio che non so se sia possibile non "gettare
via il bambino con l’acqua sporca". Intendo dire che il sistema,
così com’è, non è emendabile, ma va abolito in
toto. È un cancro da estirpare alla radice, altrimenti si
corre il rischio di far rigenerare la metastasi. Come è
accaduto dopo Tangentopoli: in pratica, si è innescato un
meccanismo di "selezione naturale" del ceto politico
dirigente (o, meglio, "digerente") in base al quale
emergono o prevalgono gli esemplari più corrotti, cinici e
spregiudicati. Si persegue una nozione contorta e meschina della
"coerenza", piegata a logiche utilitariste di convenienza
personale. Si fiuta dove soffia il vento e si sale sul "carro
del vincitore". Dopo oltre trent’anni, l’Irpinia si trova ancora
esposta ai ricatti e ai giochi di potere di un vecchio dinosauro (non
ancora estinto) della politica come il grande G. È vero che
trattasi di consultazioni amministrative, ma è altrettanto
vero che sono almeno trent’anni che le candidature alla carica di
sindaco o di consigliere, in molti Comuni irpini, vengono decise a
tavolino dall’Uomo del monte. È un dato storicamente noto ed
acclarato. O vogliamo negare l’evidenza più elementare?
Sarebbe un’offesa alla nostra intelligenza. Sarebbe il tempo che i
cittadini prendano finalmente coscienza del pericolo che incombe
sulle loro teste. È pur vero che, dopo oltre trent’anni di
demitismo, nulla più ci spaventa, ma ora si rischia di
oltrepassare quella soglia politicamente tollerabile. Occorre
ripartire dal dato politico che è sotto gli occhi di tutti.
Non ci si può arrendere od immolare ad un sentimento di
paralisi, di impotenza o rassegnazione fatalista (e qualunquista). I
cittadini, sdegnati dai loro osceni rappresentanti, reagiscono con
crescente disaffezione alla politica. Il risultato è che la
politica diventa un esercizio riservato esclusivamente agli individui
più mediocri, disonesti ed opportunisti, selezionando una
sorta di oligarchia corrotta e facilmente corruttibile da parte dei
centri di potere esenti da ogni controllo esercitato dal basso. Lo
stato di marciume della politica (a livello locale e nazionale) è
tale che ormai non appare più come un’esperienza aperta a
tutti i cittadini, bensì come un affare privato gestito da
comitati ristretti. Tale situazione genera atteggiamenti di
indifferenza ed apatia tra i cittadini verso le vicende politiche,
recepite come estranee al "bene collettivo", mentre il
governo della Polis è subordinato agli interessi di pochi. Ma
la Politica, ricondotta all’antica etimologia del termine, la voce
greca "Polis" (città), dovrebbe costituire uno
strumento di aggregazione e partecipazione corale, un mezzo per
intervenire sulle decisioni che investono l’intera collettività,
una modalità raffinata di socializzazione tra gli individui,
la più nobile ed elevata forma di socialità concessa ai
cittadini. Purtroppo, il "dover essere" (l’ideale) della
politica non coincide affatto con il suo "essere" (la
realtà). Possiamo constatarlo, ogni giorno, nelle dinamiche
politiche "normali" a livello locale e nazionale.
Lucio
Garofalo
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