Luci
nel buio
Sul
carcere c’è sempre più confusione, sempre
maggiore disinformazione, lo scollamento tra dentro e fuori è
davvero allarmante, non consente di auspicare quel cambiamento che
invece non è più rinviabile, se vogliamo che le persone
che escono siano migliori di quando sono entrate.
Occorre
intervenire per delineare nuove assi di coordinamento sociale
finalmente condivise e partecipate, affinché si possa parlare
del carcere e della pena non più solamente con grammatiche
emergenziali o interventi sgrammaticati, ma con un progetto che metta
in condizione di esser riconosciuti nei propri ruoli e come persone:
operatori e detenuti.
In
queste righe c’è il tentativo di formulare un momento di
riflessione, per fare tesoro delle intuizioni e creatività di
ognuno e di ciascuno, per concretizzare la possibilità di
restare ancorati alla reale sostanza delle cose, infatti il carcere
non è assolutamente quello dei films, tanto meno quello della
pancia al bar sport.
Bisognerà
prendere coscienza che c’è da fare i conti con la
persona/e, con i suoi errori, con la giusta punizione, ma anche con
una carcerazione che mantenga inalterati gli scopi costituzionali e
la propria utilità sociale, affinché chi privato della
libertà dentro una cella, possa uscire al termine della
propria condanna, quanto meno nella comprensione di una libertà
ritrovata che sta nell’impegno di una nuova responsabilità.
Ri-progettare
il carcere e la pena, dando particolare rilievo alla componente
educativa, può favorire e accelerare il processo di
cambiamento in atto oltre che dare un spinta propulsiva e innovativa
in termini di concretezza, all’interno del più ampio
contesto delle politiche di Welfare.
Ma
non solo, infatti come accade in una comunità di servizio e
terapeutica come la Casa del Giovane, dove da molti sono impegnato
come operatore, sarà necessario investire sulle
professionalità e conoscenze umane, non soltanto sul cartaceo
delle disposizioni ed i regolamenti interni di un penitenziario,
occorrerà adoperarsi non a mantenere un istituto come un
lazzaretto, ma favorendone la propria autorevolezza di baluardo
della legalità-ri-educativa nel ripristino delle regole da
rispettare, dentro e fuori, quali vere e proprie salvavita.
Soprattutto
diverrà stringente il disporsi ad aiutare chi è
detenuto, non per una pseudo solidarietà accudente e buonista,
ma con l’obiettivo di recuperare strumenti e occasioni per
ritornare in possesso di un equilibrio, soprattutto per
ri-conquistare la propria dignità personale, perché
checchè qualcuno si ostini a ripeterci che veniamo al mondo
con la nostra inossidabile dose di dignità ben allacciata in
vita, lì rimarra’ per sempre, qualunque sarà il
nostro atteggiamento, comportamento, stile di vita, ebbene, posso
assicurare che non c’è panzana più grossa e
deleteria.
La
dignità la si può perdere e come, in maniera
devastante, tragica, addirittura c’è anche di peggio,
la si può rubare, rapinare, anche agli altri, agli innocenti.
Poi ritornarne in possesso diventa davvero difficile, e non sarà
sufficiente la nostra buona volontà, né mettercela
tutta per riuscire a ben camminare, infatti nessuno si salva da solo,
nessuno ha ragione da solo, dovremo esser capaci di chiedere aiuto,
consapevoli che chi chiede aiuto non è persona fragile,
debole, o come molti amano definirlo uno sfigato, ma una persona con
la propria fortezza interiore.
Ebbene
non sarà ancora sufficiente.
Dovremo
impegnarci a fondo per creare le condizioni, l’opportunità
di incontrare qualcuno che ci viene incontro, stende il suo braccio,
stringe forte la nostra mano, sradicandoci letteralmente dal buco
nero profondo in cui siamo caduti.
Io
c’ero per intero in quel buco nero profondo, fino a esser
diventato un pezzo di edilizia penitenziaria, distante,
solitudinarizzato, sprofondato dentro un luogo e uno spazio dove
neppure l’ultima volontà di un perdono veniva
risparmiata.
Se
oggi mi ritrovo a scriverne, a parlarne con i più giovani, con
chi ha pazienza di ascoltare, non lo devo certo a chissà quale
medaglietta appuntata sul petto, non sono maestro di niente, non ho
niente da insegnare a nessuno, per cui sto bene attento a non
incorrere in appropriazioni indebite, di ruoli e competenze che non
mi competono. Devo questa nuova possibilità di risentirmi
parte della vita, a quelle persone di cui prima ho parlato, persone
alte, non per misura fisica, ma per autorevolezza, perché
risultano essere veri e propri esempi da seguire, che lasciano tracce
e orme indelebili, impossibili da non vedere, sentire, ascoltare.
Il
carcere ha il dovere di insegnare, non addomesticare, educare alla
fragilità della privazione della liberta’, accompagnando
chi sta dentro una cella verso la consapevolezza che occorre davvero
la forza del coraggio per cambiare: per prendere convinzione
interiore di un progetto, di vista prospettica, di un percorso, una
strada nuova in cui camminare non più rasenti ai muri, con le
spalle al muro, ma passo dopo passo al centro, in cui abbandonare i
carichi inutili, le zavorre pesanti che ci fanno rallentare il
viaggio, camminare sulle ginocchia, e neppure ce ne accorgiamo: pesi
inutili dei deliri di onnipotenza, di commiserazione.
Il
delirio di onnipotenza, pensare che siamo i più furbi, che la
nostra scaltrezza ci faccia arrivare velocemente a dama, che
attraverso le nostre pratiche violente, illegali, basate sul raggiro,
sulla truffa, sulla prepotenza, sul sopruso, la prevaricazione,
raggiungiamo ogni traguardo, infischiandocene di chi davanti a noi
affaticato, arranca, inciampa, cade. Ù
No,
noi non ci fermiamo a soccorrerlo, ci passiamo sopra pur arrivare o
meglio arraffare quella meta.
Per
tanto tempo ho fatto finta di rispettare gli altri, dunque senza mai
rispettare davvero me stesso, l’ipocrisia che diventa stile di
vita nel riconoscere il ruolo degli altri, soltanto quando quel ruolo
è subalterno, prostrato, supino, al mio.
E
così facendo non soltanto si perde contatto con la realtà,
con la sostanza delle cose, peggio, accade molto peggio, la stessa
vita umana perde il suo valore.
Deliri
di commiserazione per cui tutto ciò che succede, tutto ciò
che accade, tutto ciò che ci piega di lato, non è mai
per colpa mia, no, è tutta colpa di qualcuno altro, è
sempre colpa degli altri, mai per colpa mia.
Eppure,
forse, più semplicemente l’unico vero problema siamo
noi.
La
solidarietà non è manna che cade dal cielo, non è
prodotto che si compra al supermercato, ma strumento vitale che lega
insieme un dopo auspicabile attraverso un durante solidale
costruttivo, ecco dunque la radice profonda su cui poggia l’umanità,
su cui dovrebbe poggiare il carcere, la pena, la riparazione.
Parlare
di carcere è tema aspro, ostico, spesso confinato alla pancia
del bar sport, invece è auspicabile valorizzarne la speranza,
perché soltanto chi rimane disperato n’è privo.
La
speranza è dentro la fatica del passaggio, del tragitto, del
confluire dentro la consapevolezza che occorre ri-partire dal
riconoscimento dell’esigenza di giustizia che sale alta della
sofferenza delle vittime, dei parenti della vittime, degli innocenti,
di quelli che spesso, sempre più spesso, restano privati di
una giustizia giusta.
Con
l’esperienza come somma degli errori, ho compreso che soltanto
da questo riconoscimento possono nascere e svilupparsi nuove
opportunità di riscatto, riconciliazione da parte di chi il
male l’ha commesso.
Unicamente
da questo riconoscimento potrà nascere una possibilità
di riparare al male fatto, in ogni conversione c’è
necessità di riparazione, di sollievo e conforto e giustizia
per chi ingiustamente ha ricevuto il dolore della ferita e della
tragedia.
Anche
là dove l’unica forma di riparazione possibile è
il perdono.
Per
ultimo, scontare quarant’anni di carcere forse non risulterà
sufficiente per un’assenza divenuta presenza costante, però
potrebbe esser una opportunità per accorciarne le distanze.
Vincenzo
Andraous –
Counselor, Tutor Comunità “Casa del
Giovane” (20 giugno 2016)Pavia
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