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Il senso di inadeguatezza...
di Giorgio Marchese  ( direttore@lastradaweb.it )

15 aprile 2017



Ne soffrono di più, i giovani o gli adulti?


Il senso di inadeguatezza "colpisce" più i giovani o gli adulti? Una simile situazione, può generare depressione o stati di ansia?


Quando pensiamo a qualcosa, impariamo o proviamo ad imparare qualcosa, ci troviamo in una condizione di difficoltà perchè temiamo di non essere in grado di saperla esprimere compiutamente.

Sono più i giovani o più gli adulti a sentirsi inadeguati?

Quanti adulti (che una volta sono stati giovani "dentro") dichiarano di aver voluto chiudere con lo studio perchè non riuscivano a fare entrare nella propria mente, più alcunché?

E’ una sensazione che parte, inconsapevolmente e presuntuosamente, da un presupposto errato: generare delle preoccupazioni che riguardavano la capacità di esprimere il risultato di una preparazione, senza ancora aver terminato il processo di apprendimento specifico e, quindi, in definitiva, ben prima di poter creare la preparazione che cerchiamo evidenziare!

Probabilmente questo è un elemento che accomuna giovani e adulti, adolescenti e no. Probabilmente non c’è un’età in cui il senso di inadeguatezza non viene generato o percepito. Questo, in fondo, è un augurio perchè, il sentirsi inadeguati è l’unico momento in cui noi percepiamo di dover trovare una soluzione.

Secondo lo Psichiatra Ferdinando Pellegrino l’autoefficacia è la chiave del successo, come spiega nel suo saggio Personalità e autoefficacia: come allenare ragioni ed emozioni. In media, infatti, abbiamo tutti la stessa intelligenza: il problema è che non la utilizziamo tutti allo stesso modo. Il talento non è genetico, ma frutto di una costante applicazione. La valutazione classica del quoziente intellettivo dimostra che quasi la metà delle persone ha lo stesso livello di intelligenza: il 46% va dai 90 ai 109 e soltanto l’1% arriva a livelli tra 120 e 139. Si tratta di valori che, pare, non aumentano né diminuiscono con l’età: ciò che varia, in ogni fase della vita, è semplicemente l’utilizzo che ne facciamo.

Sostiene lo psichiatra Pellegrino: "Spesso l’intelligenza fallisce perché, pur potendo vivere bene, molti scelgono modalità disfunzionali, dal fumo alle droghe, complicandosi l’esistenza e perdendo di vista gli obiettivi fondamentali. In questi casi viene penalizzata la creatività e il talento. L’autoefficacia è un preciso atteggiamento mentale che spinge a dare il meglio di sé in ogni circostanza, unendo gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Accanto alla razionalità, infatti, si devono utilizzare le emozioni; sbaglia chi le considera un ostacolo al progredire della ragione. Il livello di soddisfazione del presente è un indice importante per misurare la salute psicologica. Bisogna, inoltre, rafforzare l’autostima, il che presuppone l’accettazione di se stessi; solo così si affrontano i compiti difficili come sfide da vincere piuttosto che come pericoli da evitare".

Probabilmente, alla lunga, ci stanchiamo perchè, quando ci attiviamo, generiamo stress. Ogni mattina, quando apriamo gli occhi, svegliandoci, connettiamo la parte inconsapevole a quella consapevole, contestualizzandola nel tempo e nello spazio. In pratica, in una frazione di secondo, è come se innescassimo un processo di auto apprendimento che ci consente di ricordare chi siamo e cosa abbiamo fatto fino a quel momento. Maggiore è la nostra "intensità qualitativa", maggiore è il flusso di informazioni che dobbiamo veicolare nella nostra coscienza "spazio temporale".

Giovani, meno giovani...

Più passa il tempo ma, soprattutto, maggiore è il flusso in termini qualitativi di emozioni che si vanno a produrre, più impegno ci vuole per connettersi con ciò che siamo. È vero, il tempo serve per renderci migliori, il prezzo che paghiamo per renderci migliori è la necessità di doverci attivare maggiormente. Forse quando sentiamo di aver raschiato il fondo del barile (il nostro barile), oppure quando il mondo esterno non ci mette nelle migliori condizioni operative, dopo un pò, dopo un bel pò, probabilmente vorremmo non attivarci più, vorremmo prenderci una pausa, vorremmo uscire da questa nostra storia.

E quando qualcuno, ascoltandoci, crederà di trovarsi al cospetto di un depresso, proviamo a rispondergli: "Forse con quello che dico, ti faccio vibrare quelle corde del tuo animo che ti fanno paura. Non preoccuparti perché stiamo entrando in empatia, in sintonia, perché sono cose che provano tutti e che, tutti, avrebbero voluto ascoltare; in fondo noi, conduciamo la nostra esistenza. Ma perché? Che senso ha? Più intensamente viviamo, meno tempo ci resta".

Probabilmente, il senso che possiamo dare a tutto questo, consiste nel cercare di creare delle esperienze che ci facciano riscaldare interiormente per volerne ancora e scoprire cos’altro ci riserva il futuro.


Giorgio Marchese – Medico Psicoterapeuta, Counselor(23 maggio 2016)


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