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Una fune sull’abisso
di Vincenzo Andraous  ( vincenzo.andraous@cdg.it )

26 giugno 2007

Inutile nasconderlo, la prigione non riesce a piegarsi a nessuno scopo sociale condivisibile, essa sequestra i bisogni-desideri, e stabilisce quando questi debbono essere soddisfatti, persino decidendo quando e dove sarà possibile realizzarli. È in questa dinamica che la mente finisce in un anfratto remoto, in un angolo dove non è più possibile vedere niente. Penso che fino a quando non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa non dimensione spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince. E' una prova questa, che indica la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato a fare nascere vita né speranza, non rammentando che l'uomo privato della speranza è un uomo già morto. Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro, e allora riconoscere i propri errori è un'impresa ardua. Le analisi sistematiche a questo punto servono poco, per rendere più umano l'inumano: dalla mia ridotta specola sono più propenso a credere che occorre convincersi dal di dentro, della possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volersi un po' bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica... PER CONTINUARE LA LETTURA, CLICCARE SUL TITOLO.



Finché i ragionamenti saranno un’estensione degli atteggiamenti negativi, le rappresentazioni mentali si trasformeranno in eventi negativi. Il carcere è ancora, ancora e ancora quello che ben sappiamo, ma chi vive in quest’agglomerato umano ha il diritto-dovere di ritrovare fiducia in se stesso e negli altri, e ci riuscirà solamente comprendendo che l’intorno non parla, perché noi non parliamo, e peggio non siamo capaci di aprirci. Eppure gli altri sono i mille pezzi che a noi mancano, che a noi sono sempre mancati, e finché noi continueremo a pensare di sopravvivere senza il bisogno dell’altro, nel lungo tempo ci ritornerà questo annichilimento con la stessa intensità e precisione. Ciò che noi diventeremo è ciò che ci siamo incisi nella mente, l’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti si riprodurrà con un fatto concreto. Ecco perché sono dell’idea che finché il carcere, ma meglio dire tutto il consorzio sociale, non si attiverà consapevolmente con il suo interessamento produttivo e non pietistico, e non si predisporrà ad aiutare chi è nell’errore a ritenersi capace di essere in costante e continuo miglioramento, ebbene, questa indifferenza e questo disinteresse collettivo continuerà a seppellire quei "dettagli" che invece servono per migliorarci tutti.

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