Giovanissimi
che prendono a pugni i docenti, che denudano le coetanee e le
violentano, che picchiano a sangue un compagno fino a renderlo più
morto che vivo, un pari età diversamente abile preso a calci,
tutto ciò senza un sussulto di vergogna, emozioni
costantemente in apnea asfissiante. Non si tratta più di solo
bullismo, oggi dovrebbe esser meglio conosciuto il disagio
relazionale, attraverso questa inondazione mediatica travolgente,
quanto inarrestabile.
Eppure
nonostante l’esposizione dirompente, l’impressione che se
ne ricava, è che non c’è sufficiente
consapevolezza della realtà che ci circonda, come se il
moltiplicarsi di accadimenti e letterature più o meno
sgangherate, spingano a una minore comprensione della drammaticità
che ci investe tutti, al punto da condurci lontano dalla sostanza
delle cose, la quale sembra più circondarci e restringerci,
piuttosto che responsabilizzarci di fronte a un presente tutto da
ricostruire, ma non con la paglia delle promesse facili a bruciare,
come ha ben detto qualcuno. Forse è il caso di tentare di
parlare comprensibilmente e correttamente su cosa è possibile
dire a un adolescente imbizzarrito affinché s’arresti e
impari a contare fino a dieci prima di ripartire per una guerra che
spesso non fa prigionieri.
E’
già importante riuscire a guardarlo negli occhi il guerriero
in erba, trovare il tempo necessario per farlo, la pazienza
occorrente per aspettarlo qualche metro prima delle conseguenze che
ci saranno e avranno il fragore della montagna, soprattutto per chi
si ritiene il più furbo, il più forte, il più
scaltro.
Credo
convintamente che ai più giovani occorra spiegare con le
parole della sofferenza ingiustamente imposta, cos’è il
rispetto, questa ambita medaglietta da appuntarsi al petto come fosse
il passaporto per ogni prossima avventura.
Perché
quando si parla con un giovanissimo, si nota il recinto, il luccichio
del filo spinato delle abbreviazioni, degli acronimi, degli
slogans-echi di rimbalzo, lo
stesso linguaggio migra a spintoni dalla grammatica resa fantasma,
qualcosa manca, è fuori posto, assente, una sorta di
mutilazione non immediatamente avvertita.
Ecco che allora diventa un’impresa dialogare e capirci, se non
fa capolino l’urto e il fastidio di un’emozione.
C’è
necessità di spiegare ai ragazzi (come agli adulti), che il
rispetto di cui vanno tanto fieri, di cui vanno a caccia con tanto di
digrignar di denti, è quello tramandato dallo slang che
straripa da una certa filmografia, dalla sub-cultura che dal basso
bussa alle porte della città, messaggio sub-urbano mafioso che
fa tendenza, ma che non preserva dal disfacimento che nel frattempo
interverrà.
E’
impellente raccontare bene e chiaro che quel rispetto che tanti
proseliti fa l’osannare cortometraggi alla gomorra e suburra,
non sta a condizione-dimensione per cui abbiamo considerazione di noi
stessi prima, e degli altri subito appresso, perché sappiamo
di valere qualcosa senza eccellere in presunzione. Quel rispetto
tanto ricercato con il taglio seghettato del coltello, è
sinonimo di prevaricazione, di prepotenza, di violenza usata senza
alcuna conoscenza, quel rispetto è silenzio colpevole, sordità
di un momento che diventa malattia del cuore.
A
quel ragazzino con le mani in tasca e le gambe larghe, con il
tirapugni tra le dita, forse non è più rinviabile lo
spiegargli che meritare rispetto significa guadagnarselo, perché
rispetto e dignità sono facce della stessa medaglia, ma non
rimangono avvinte alla nostra vita qualsiasi comportamento
manterremo, dobbiamo averne cura e attenzione, altrimenti saremo
destinati a perderli entrambi.
Noi
non siamo eroi di cartone, non siamo il centro del mondo a discapito
degli altri, più semplicemente persone normali, dunque non
siamo persone che fanno del sopruso la moneta di scambio con i più
deboli, o che usano gli altri per raggiungere una meta a tutti i
costi.
Forse
è bene rammentare al peggior sordo che non vuole sentire
che:“Un
uomo è rispettabile solo in quanto porta rispetto”.
Vincenzo
Androus - Counselor,
Tutor Comunità "Casa del Giovane" Pavia
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