 Ricordo un paese del Nord, un campo sportivo, tanti ragazzini rincorrere un pallone, scalciare e gridare. A scuola, in classe, per la strada, le solite voci, sempre quelle, come i volti e le mani additare, "ecco arriva il terrone, eccolo è arrivato". Un giorno dopo l'altro, dalle elementari, alle medie, a rimbombare nella testa quella parola "terrone". Uno sgambetto, un goal annullato, un dribbling di troppo e quel ragazzino per terra, sempre sotto, schiacciato dal peso e dalle manate dei compagni, finché un giorno accadde qualcosa di imprevisto: "il terrone" fece una scoperta inaspettata, un incontro che mutò la sua esistenza, tracciò la sua storia e purtroppo quella di tante altre persone. Mentre la squadra compatta avanzava verso l'obiettivo da atterrare, il terrone afferrò una pietra ai bordi del campetto, senza pensarci due volte e la calò con forza sulla testa del primo ragazzino che gli stava venendo addosso. Il plotone d'assalto si arrestò, le urla cessarono: da quel giorno non ci furono più sberleffi, minacce, offese, né in campo, né in paese, il ragazzino era diventato il pericolo da rispettare, quel gesto aveva trasformato l'ambiente e le persone, a 13 anni era diventato un "protagonista". Così fu con tutte le tragedie che seguirono... PER LEGGERE TUTTO IL TESTO, CLICCARE SUL TITOLO.
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Rammento bene quella rappresentazione adolescenziale, non ci fu apprendistato per il terrone, la discesa al dirupo fu istantanea. A tanti anni di distanza il mondo si è capovolto, è andato in testacoda, si è rinnovato, eppure persistono ancora le identiche dinamiche e pratiche conflittuali, violenze e indifferenze, come se la storia fosse una comparsa anonima che replica se stessa, senza un passato e un presente che collaborano e convivono per disegnare una forma accettabile di futuro. La violenza non fa passi indietro, non si piega alla ritirata, non corre all’angolo della pietà. L’attualità sconvolge i cuori e la ragione, giovanissimi che violentano una compagna di banco, bulli che rapinano e stendono a terra i coetanei impauriti, piccoli devianti che bruciano e lacerano nel tentativo di asservire al loro vuoto esistenziale il più debole e indifeso. La società imbarbarita e abbruttita non ha più capacità educative autorevoli per mettersi a mezzo a una fraintesa adrenalina derivante dal sangue, dal dolore, dalla morte. Ogni giorno il livello di scontro culturale è in aumento, non ci sono più regole, solamente territori da conquistare, a caccia di prede ignare da impallinare "per vedere l’effetto che fa". A tu per tu con la violenza, da quella dei resoconti di ieri e di oggi, che diventano una regia ben orchestrata per quella violenza che sarà senz’altro domani, è una violenza che spesso non incoglie inaspettatamente, è una violenza sotto pelle: c’è, è lì, inebetita dalle immagini, dalle sequenze, dai suoni che la accompagnano: i video, i film, Internet, la tv, sparano e ripropongono la botta alla nuca come una malvagità attraente, il colpo finale come una metafora soddisfacente, la carne a brandelli come una sintesi del vivere quotidiano più normale. La violenza è sempre prodromica di sciagure e devastazioni, soprattutto tra i più giovani, quelli che non sanno o vogliono contare fino a dieci, quelli del tutto e subito, quelli che usano il sasso invece della pazienza e della capacità di chiedere aiuto agli altri, perché ci hanno insegnato a non fidarci di nessuno, a pensare illusoriamente a salvarci da soli. Se ripenso a quel ragazzino, a quella pietra, alla scoperta della violenza, mi viene in mente come a volte il passo sia breve per passare da un comportamento bullistico a quello deviante, entrare a fare parte della sequela degli abbandoni, delle visioni unidimensionali, dei deliri di onnipotenza.
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