“Se
stasera sono qui, è perché ti voglio bene...è
perché tu hai bisogno di me, anche se non lo sai” (Luigi
Tenco). Cari Lettori,
dopo aver assistito ad un
interessante ciclo di incontri seminariali riguardanti il
femminicidio (affrontato sul piano sociologico, filosofico, medico,
etc.) ho sentito, forte, il bisogno di pormi dalla parte dell'uomo
della strada che, elementarmente, prova a capirne le origini e le
motivazioni. Senza la pretesa di sostituirsi ai grandi esperti della
materia. E, allora, ho riflettuto sul fatto che, uno dei principali
problemi che attanagliano noi umani, da che Mondo è Mondo,
riguarda il conflitto che nasce ogniqualvolta un nostro interesse
corre il rischio di essere minacciato. E, siccome impariamo ad amare
ciò che consideriamo nostro, ecco che, la sfera di maggiore
sofferenza, diviene l'ambito affettivo. “Mi sono
innamorato di te, perché non avevo niente da fare: il giorno,
volevo qualcuno da incontrare; la notte, volevo qualcuno da
sognare...” (Luigi Tenco). Nel
grande acquario del mio studio, ho avuto un bel pesce denominato
“Scalare”,
così morbosamente attaccato alla mia persona da scatenare
degli isterici attacchi di gelosia se non gli davo le attenzioni che
si aspettava (giocando con lui) fino ad avere (non spesso, per
fortuna sua) delle crisi cardiache con relativa sincope. Molte specie viventi, soprattutto fra i mammiferi...
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...e,
ovviamente, fra coloro che si definiscono “persone”,
creano dissidi violenti, quando vedono disturbati i rapporti
affettivi con l’elemento (o la persona) di riferimento. Il complesso
di Edipo o di Elettra e la competizione senza esclusione di colpi per
l’oggetto del desiderio, sono solo alcune delle possibili variabili.
“Quando sarò capace d’amare,
probabilmente non avrò bisogno, di assassinare in segreto mio
padre né di far l’amore con mia madre in sogno”
(G. Gaber).
Nella
lingua Italiana, per femminicidio, intendiamo: “Qualsiasi
forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di
una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di
perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità
attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla
schiavitù o alla morte”.
Come
spiegato anche su Wikipedia,
il termine in questione connota un neologismo che identifica i
casi di omicidio (doloso o preterintenzionale) in cui, una donna,
viene uccisa da un uomo per motivi basati sul genere.
A
questo punto mi tornano in mente le scene familiari in cui, i
bambini, arrivano a ridurre in schiavitù la propria madre, in
nome dell’Amore. E, ogni volta che, il proprio genitore cerca di
recuperare un minimo di autonomia “di respiro”, la
reazione del “pargolo” è particolarmente astiosa.
Questo,
gli esperti, lo chiamano “Egocentrismo”. Quella
condizione di immaturità, cioè, in cui si schiavizzano
gli altri, con la piena convinzione di aver ragione.
“Quando
sarò capace d’amare, con la mia donna non avrò
nemmeno, la prepotenza e la fragilità, di un uomo bambino”.
Femminicidio:
“Qualsiasi
forma di violenza esercitata sulle donne in nome di una
sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale...”
Ma
come può, il “meno”, comprendere il “più”?
Ciascuno
di noi, infatti (fecondazione assistita a parte), viene
concepito e cresce in un mondo femminile che, fisicamente
(quindi, senza voler mancare di rispetto ad alcuna) può essere
definito come un “contenitore attivo equivalente ad un terreno
di coltura capace di induzione epigenetica, anche se condizionato
dall’esterno”. Cioè, un organismo in grado di fornire
tutto quello che serve (dalle primordiali frequenze di oscillazione
elettromagnetica, all’aria, al cibo...) per far si che, cellule a
forma di mora, diventino un bambino!
La
moderna psicologia perinatale spiega che, di norma, il momento del
parto viene determinato da un inconsapevole accordo fra
mamma e bambino, a seguito del quale, entrano in circolo tutti i
mediatori chimici che daranno il via al meccanismo dell’espulsione.
Almeno
all’inizio della nostra vita extrauterina, ci leghiamo fortemente
alla mamma (riconosciuta per via degli odori e degli umori... ma non
solo) come fonte primigenia di vita e di appartenenza.
Nel
prosieguo, in base alla corretta estrinsecazione o meno dei vari
fattori di attaccamento, molto del carattere materno, condizionerà
le nostre scelte sul piano, soprattutto, del rapporto con il
potenziale compagno (di vita o del momento).
Ogni
volta che ci si trova in difficoltà, l’espressione più
usata è “Oh, Madre mia!”
Vero
è altresì (almeno sotto forma di ipotesi scientifica)
come sostiene il mio amico Luciano
Amato Fargnoli
(e riportato in un testo di Massimo
Recalcati)
che personaggi del calibro di Lacan,
o
Melanie Klein,
hanno
descritto in maniera inquietante il
desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di
uno spaventoso coccodrillo. “In
questa versione la madre, anziché fungere da riparo
dall’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione
terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno
che quello interno”.
L’ipotesi è che nell’inconscio di ogni madre (anche di quella
più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli)
risieda una spinta indomita a fagocitarli.
“Se
stasera sono qui, è perché so perdonare e non voglio
gettar via così il mio amore per te. Per me, venire qui, è
stato come scalare la montagna più alta del mondo...”
(Luigi Tenco)
Probabilmente
possiamo, da figli, considerarci come degli alianti in attesa del
distacco dall’aereo madre che ci ha portato lì, dove ci
giocheremo vita e destino con le correnti ascensionali...
Ma,
se questo distacco non arriva, da una parte vincerà la
frustrazione del sentirsi un fallito, dall’altra, il dolore verrà
lenito dal vantaggio secondario che deriva dalla convinzione ( e
presunzione) che avremo qualcuna sempre al nostro servizio.
Mi
sono innamorato di te, perché non potevo più stare
solo. Il giorno, volevo parlare dei miei sogni; la notte, parlare
d’amore. Mi sono innamorato di te e, adesso, non so neppure io cosa
fare: il giorno, mi pento d’averti incontrato; la notte, ti vengo a
cercare. (Luigi Tenco)
Il
problema è che, a queste condizioni, anche con il nostro
compagno di vita, continueremo ad avere queste pretese, frutto, di
una mancata, adeguata, maturazione.
Ovviamente,
non si pretende in alcun modo di colpevolizzare la figura femminile;
si cercano solo, delle spiegazioni.
In
aggiunta a quanto espresso finora, potrei porre sul piatto delle
riflessione, il fatto che, di norma, più ti leghi, più
crei delle aspettative, derogando dalle quali, la cosa non la prendi
bene. Vale, per qualsiasi rapporto affettivo ed è inversamente
proporzionale al grado di sviluppo della propria identità.
In
conclusione, terrei a ribadire che, con queste brevi riflessioni,
non si è inteso vergare alcuna verità dogmatica. Né,
tanto meno, si è cercato di giustificare in alcun modo,
qualsiasi manifestazione aggressiva e offensiva.
Solo,
come premesso all’inizio, si è tentato di gettare un occhio in
questa particolare dinamica, quella dell’attaccamento affettivo, che
è, al tempo stesso, croce e delizia arrivando a concludere,
come il buon vecchio, Giorgio Gaber che...
Quando
sarò capace d’amare, mi piacerebbe un amore che non avesse
alcun appuntamento col dovere; un amore senza sensi di colpa senza
alcun rimorso, egoista e naturale come un fiume che fa il suo corso.
Senza cattive o buone azioni, senza altre strane deviazioni che, se
anche il fiume le potesse avere, andrebbe sempre al mare...
Così
vorrei amare.
Giorgio
Marchese (Medico
Psicoterapeuta, Counselor) - Direttore "La Strad@"
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