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Lettera aperta a CARLO AZEGLIO CIAMPI.
di Giuseppe Chiaia  ( peppinochiaia@libero.it )

11 aprile 2004





Castelli, la Grazia e il Presidente.


Sig. PRESIDENTE,

Non so se questo mio scritto - ancorché divulgato mediaticamente - avrà la ventura di pervenire sul Suo scrittoio; pur tuttavia non posso tacere il turbamento suscitatomi dalla invocata grazia per il condannato SOFRI, ingigantita dalla risonanza televisiva e giornalistica, quasi a volere avvolgere, nelle nebbie del tempo, i comportamenti delittuosi che il predetto SOFRI sconta con una giusta pena irroratagli da un univoco giudizio penale, confermato e confortato da ben 6 gradi di giurisdizione, oltre che da una sentenza di revisione processuale decisa dalla suprema Corte.

Nessuno vuole deformare o stravolgere un potere che la nostra Costituzione Le assegna, (anche se ci provano in parecchi) ma è pur vero che questa potestà non può cozzare col principio dell’UGUAGLIANZA tra i cittadini, corroborato, oltre tutto dal motto che campeggia in tutte le aule di giustizia: "La Legge E’ Uguale Per Tutti".

Certamente il Legislatore Costituente ha previsto l’istituto della "Grazia" non per attenuare l’esigenza collettiva della giustizia, ma per consentire un intervento di civiltà democratica che trova il proprio conforto nelle teorie Giusnaturalistiche; infatti, ad esempio, se consideriamo il perdono che la Chiesa offre ai peccatori, questo non viene elargito "graziosamente" ma con il pegno morale che l’interessato promette attraverso la penitenza: "verae fructuoasae poenitentiae" ammonisce il Pontefice, quando impartisce la benedizione e l’assoluzione" Urbi et Orbi".

Il sig. SOFRI, con una sorta di ingiustificata protervia, si rifiuta, invece, di invocare un perdono giudiziario al quale è legata, indissolubilmente, la concessione della grazia; e ciò, perché una sua resipiscenza, in tal senso, varrebbe ad ammettere le sue responsabilità politiche, sociali e penali; inoltre, l’umiltà della sottomissione gli precluderebbe, una volta libero, di inalberare, nuovamente, il vessillo della protesta politica, di propagandare il credo di una certa sinistra giacobina e piazzaiola, di puntare - chissà! - al Parlamento o ad altre cariche elettive di pari valore.

Ma attraverso il suo comportamento appare quasi che nel suo IO non sia mai venuta meno l’idea del giustiziere vendicatore, proprio perché non ha mai richiesto quel perdono ai familiari del Commissario Calabresi che lo avrebbe accomunato al Fra’ Cristoforo di manzoniana memoria.

Chi, oggi, sostiene la libertà di SOFRI con clamorosa teatralità è proprio quel Marco Pannella che, ad ogni piè sospinto, ci tiene a dichiararsi liberale, liberista e libertario, dimenticando che questo trinomio, composto da una medesima radice nominale, perde ogni valore se propugnato per un SOFRI di turno, e suona come violenza liberticida per quanti scontano condanne similari per reati commessi anche all’insegna dell’incultura e dell’ignoranza.

La scuola positivistica del diritto penale, quella del FERRI, o del Lombroso, o del Beccaria, per intenderci, riconduce i comportamenti criminali alla mancanza di elevazione sociale, all’ignoranza scolastica, alla miseria, al degrado generazionale; proprio verso costoro lo Stato di diritto dovrebbe intervenire, attraverso strutture adeguate che valgano a resuscitare quella dignità umana che la Carta dei Diritti dell’Uomo pone come primo dovere della società; che se , invece, i medesimi reati sono commessi da chi, attraverso lo studio e la cultura, ha netto e chiaro il rapporto inconciliabile fra il "FAS" ed il "NEFAS", allora è sacrosanta la punizione che dovrebbe essere ancor più rimarcata valutate le sue capacità, ovvero utilizzando il parametro della cd. "eiusdem condicionis et professionis", che nel diritto penale viene utilizzato, come Lei sa, a valutare il grado della colpa da parte degli organi giudicanti, ai fini della determinazione della pena.

Sig. Presidente, certamente le Sue decisioni sono state sempre improntate al rispetto sacrale della nostra Costituzione, e sono sicuro che, anche per il caso in questione, sarà sorretto dalla Sua illuminata saggezza, atteso, comunque, che la pena dell’ergastolo stride, profondamente, non solo col principio costituzionale che vuole che la pena sia emenda del condannato, ma, primariamente, con la coscienza cristiana, occidentale e democratica del nostro popolo.

Con doverosa e sentita stima dal cittadino Giuseppe Chiaia.

Giuseppe Chiaia

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