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LA GRANDE GUERRA.
di Giuseppe Chiaia  ( peppinochiaia@libero.it )

16 ottobre 2004





Gli eventi politici che la precedettero.


I colpi di pistola esplosi dall’irredentista serbo Gravilo PRINCIP contro l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie, in quel mattino d’estate del 28 giugno 1914, a Sarajevo, segnarono l’inizio del grande conflitto che dilaniò l’Europa negli anni 1914/1918.

Né si pensi che quello fu il gesto folle di un gruppo di fanatici, sconosciuti ai più, imprevedibili nelle loro determinazioni e slegati da un contesto storico politico il quale, da tempo, mostrava i segni di una crisi europea che si era sempre più incancrenita fin dai primi anni del secolo XX.

Eppure, questo duplice assassinio si consumava ai danni di un principe che aveva sempre manifestato comprensione e simpatia per la Serbia, considerata, fra tutte le nazioni che componevano il multiforme impero Asburgico , come la più ossequiosa e la più fidata, sia rispetto agli Ungheresi e sia rispetto agli Italiani.

Da sempre, almeno fin dal sorgere dell’impero zarista, ma, certamente, fin dalla caduta dell’impero romano d’Oriente (1453), la questione balcanica, o, meglio, l’aspirazione alla libertà delle nazioni dell’Europa orientale, fu ostacolata da due profonde ragioni: lo scisma della chiesa d’Oriente nei confronti della Roma papale e la necessità di sopravvivenza rispetto all’islamismo, le cui mire espansionistiche cominciarono fin dall’epoca del profeta Maometto, furono proseguite con il tentativo dei Mori in Spagna, si esacerbarono con le sanguinose crociate, tant’è che continuano, ancora, al giorno d’oggi.

Già nel 1912, l’arcipelago degli staterelli balcanici trovò la forza di ribellarsi all’impero ottomano, e così la Serbia e poi la Grecia e la Bulgaria trovarono la forza di scrollarsi del giogo turco; purtroppo, come sempre avviene, sbarazzatisi dai turchi, queste nazioni non riuscirono a trovare un accordo che superasse gli interessi nazionalistici di ciascun popolo, e ciò consentì sia all’Italia e sia all’Austria di constatare un’identità decisionale circa i comuni problemi di politica estera, ambedue temendo il sorgere di uno Stato forte come la Serbia che avrebbe potuto svolgere il ruolo di guida del mondo slavo, a discapito dell’aquila bicipite degli Asburgo, mentre l’Italia, dal canto suo, onde ostacolare l’annessione del Montenegro alla Serbia, in realtà, mirava a preservarsi il dominio marittimo dell’adriatico.

Fu così che venne dato riconoscimento internazionale all’indipendenza dell’Albania, la cui entità territoriale ed etnica aveva perso ogni rilevanza a partire dall’esodo di quel popolo che operò una diaspora guidata dal suo condottiero Skandeberg, trovando ospitalità in varie contrade dell’Italia, per sfuggire alla dominazione turca.

Questi avvenimenti si svolgevano quando il governo italiano era guidato dal IV gabinetto Giolitti, mentre agli esteri dominava la figura del marchese Antonino San Giuliano Paternò-Castello, persona di grande cultura, catanese di nascita, avvocato, uomo politico di grande levatura, ambasciatore a Londra e poi varie volte ministro fino a servire lo Stato come responsabile della politica estera sotto i ministeri Luzzatti, Giolitti e Salandra fino al 1914, anno della sua morte. Convinto assertore della espansione coloniale dell’Italia - onde trovare uno sfogo all’esuberanza demografica delle nostre popolazioni - manifestò, sempre, una aperta ostilità verso la Francia che intralciava le nostre aspirazioni sulla quarta sponda, anche perché riteneva la democrazia transalpina corrotta ed inaffidabile, per cui San Giuliano fu convinto assertore della triplice alleanza con gli imperi centrali, i cui interessi non contrastavano con le finalità annessionistiche nostrane della Tripolitania: purtroppo la morte, quando ancora era sessantaduenne, gli impedì di attuare quel grande progetto politico che avrebbe mutato le sorti dell’Italia e, soprattutto, quelle del nostro mezzogiorno; infatti, poco prima di morire, così scrisse fra le sue memorie: "...l’Italia non può rompere con l’Austria e la Germania se non ha la certezza della vittoria. Ciò non è eroico, ma è saggio e patriottico...".

Quando la mattina del 24 luglio 1914 l’Austria trasmetteva il suo "ultimatum" alla Serbia, con il quale le veniva ordinato la resa a discrezione, San Giuliano quasi si rallegrò perché l’alleanza con l’Austria prevedeva il nostro sostegno militare solo le l’Austria fosse stata attaccata, mentre l’ultimatum ci liberava dall’obbligo di schierare il nostro esercito a fianco degli austriaci.

Questa frenesia bellica, in definitiva, mirava a riconquistare quel prestigio di grande potenza che l’Austria aveva compromesso quando, durante la terza guerra d’indipendenza italiana, si era vista spogliare dalla Prussia delle province tedesche di confine oltre che il dover cedere il Veneto all’Italia; ci mancava poco perché perdesse i domini slavi ad opera della Serbia.

In poco meno di un semestre la Russia mobilitò i suoi eserciti contro l’Austria, la quale chiese aiuto alla Germania che rivolse i suoi cannoni ad est; la Francia, impegnata con l’Inghilterra e la Russia preannunciò lo stato di guerra con la Germania. Fu così che la questione Serbia innescò uno dei più vasti conflitti bellici, nel quale si lasciò agli eserciti la risoluzione di scontri ideologici, oltre che economici e politici.

Né la conclusione di quella sciagurata guerra portò saggezza e consiglio ai responsabili politici europei del tempo, perché i popoli coinvolti in quel massacro, stremati dalla miseria e dal disordine sociale, non riuscirono a generare governanti saggi e responsabili, ma si lasciarono irretire da ideologie nazionaliste fra le quali le più orrende furono il Fascismo ed il Nazismo; e, per non essere da meno, anche dal comunismo stalinista i cui danni si riscontrano, oggi, nel pedaggio di sangue preteso dal massimalismo islamico ceceno, pakistano ed afgano.

L’assassinio di Sarajevo fece e continua a farà spargere, ancora, crisantemi insanguinati!

Giuseppe Chiaia (preside)

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