Da
qualche tempo un piccolo Paese latinoamericano incastrato tra
l’Argentina e il Brasile è al centro dell’attenzione
mediatica internazionale. L’Uruguay misura circa tre volte la
Svizzera, conta poco più di tre milioni di abitanti, dei quali
un milione e mezzo a Montevideo, la capitale. Le ragioni della sua
notorietà sono riconducibili alla figura anticonformista del
Presidente della Repubblica, José Mujica, responsabile di
progetti innovativi a favore delle famiglie prive di reddito; oppure
per le leggi di approvazione dell’aborto e del matrimonio gay;
o, ancora, per la recente regolarizzazione dell’uso e del
commercio della marijuana.
Durante
il suo discorso alle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 2012, José
Mujica cattura l’attenzione mondiale parlando di felicità
come scopo ultimo dell’Essere Umano.
“Per
essere felici dobbiamo fare ciò che a noi piace”,
dice il Presidente Mujica, “ per fare ciò che a noi
piace bisogna avere tempo”.
Concetti
tanto semplici quanto dimenticati nella nostra società di
consumo... iniziano a fare il giro del mondo e passano di bocca in
bocca; Mujica diventa innovatore del linguaggio politico, rinuncia al
90% del suo stipendio e lo cede al progetto a favore delle famiglie
senzatetto. Dimostra quindi col suo stile di vita ai limiti della
povertà che ciò che racconta è realizzabile.
Questo
è un sunto degli articoli che possiamo leggere su importanti
testate di ogni Paese, da El
País
al Financial
Times,
da Il
Mattino
a Al
Jazeera,
a firma di voci autorevoli, addirittura di premi Nobel come lo
scrittore Mario Vargas Llosa.
La
ragione per cui scriviamo questo
articolo è la necessità di raccontare quanto
riscontrato a Montevideo durante una breve ricerca durata tre mesi,
pur consapevoli che per favorire lo sviluppo dell’economia di
una nazione sarebbe preferibile descrivere i possibili investimenti e
tutto ciò di cui si può ampliamente leggere nei
giornali di cui sopra. Conoscere la parte povera della città,
i cosiddetti cantegriles,
ci ha invece fatto sentire in dovere di dare un quadro più
completo della realtà uruguagia, una realtà per certi
aspetti molto dura, un’economia reduce da anni e anni di
dittatura, un Paese, infine, che lotta per godersi la tanto agognata
democrazia ottenuta solo nel 1985, a seguito delle leggi
sull’impunità che invitavano i cittadini a dimenticare
quanto di atroce era accaduto durante quegli anni e a guardare al
futuro.
Siamo
anche consapevoli che superare ciò che si è vissuto
durante la dittatura non è stato affatto facile e ha lasciato
nello spirito degli uruguaiani una certa quantità di vendette
incompiute. Oggi a Montevideo si cerca di dimenticare, dunque, ma non
senza dare dignità al passato che tre quarti dei cittadini
hanno in comune.
Nel
lato povero della città, nella zona dell’Ippodromo, le
strade non sono asfaltate, non c’è sistema fognario, le
case sono fatte di mattoni e lamiere che d’estate ardono come
padelle sul fuoco e d’inverno si congelano. I bambini che
vivono in questi quartieri, di mattina, non riescono ad alzarsi
perché si svegliano intirizziti dal freddo, e quando verso le
undici il sole incomincia a riscaldarli, finalmente escono a giocare.
Non tutti sanno scrivere, molti sanno a stento parlare, per far
rispettare i loro spazi usano pugni e morsi. L’umidità
raccolta sotto i bassi soffitti durante la notte si trasforma in
gocce ghiacciate che cadono sui loro letti per tutto il giorno, e di
sera sono costretti a coricarsi nelle lenzuola umide. D’estate,
invece, quando le temperature raggiungono quaranta gradi all’ombra,
le lamiere scottano e in quegli stessi letti ci si scioglie in una
pozza di sudore.
Nelle
bidon-ville vivono i cosiddetti selezionatori, che vanno in giro su
carri di legno trainati da muli malnutriti per raccogliere plastica e
carta dal fondo dei bidoni dell’immondizia; vederli mentre si
tuffano nei bidoni non è bello come vedere i ricchi turisti
argentini e brasiliani che si tuffano in acqua a pochi chilometri di
distanza, sulle spiagge di Punta del Este. Montevideo è una
città piena di contraddizioni. La maggior parte degli
uruguaiani non vive a Punta del Este o a Pocitos, ma in condizioni di
vera e propria miseria, vale a dire in condizioni che in Europa non
siamo in grado di immaginare.
Rispetto
ad altre capitali sudamericane, Montevideo è ritenuta una
città sicura, benché la delinquenza, soprattutto quella
minorile, non abbia nulla da invidiare a quella degli altri Paesi.
In
particolare, ricordiamo che la legge vieta di arrestare i minori di
diciotto anni. Ci sono istituti di recupero per i minori, dove per un
omicidio si prevedono tre anni, che diventano due se ci si comporta
bene, e ancora meno se ci si comporta benissimo.
Questi
istituti si chiamano INAU, ce ne sono tre a Montevideo, ognuno
funziona in una maniera diversa. Quello che abbiamo visitato è
una specie di carcere, ci sono le sbarre alle finestre e bisogna
dividere i ragazzi con la forza per non farli sbranare a vicenda. Gli
impiegati hanno dovuto frequentare persino un corso di autodifesa
prima di essere assunti; ce lo rivela Pablo Lopez, uno dei cinque
educatori che gestiscono quasi cento bambini e adolescenti. “In
altri istituti per minori – ci ha raccontato Pablo –
si usano droghe o sonniferi, e i ragazzi passano il giorno
rintontiti nel loro letto”.
Il
tasso di criminalità giovanile è molto alto,
soprattutto perché gli adulti che vogliono rapinare un negozio
o commettere reati anche peggiori usano i ragazzini, per cui si
creano piccole bande di un adulto e tre minori per esempio, in
quartieri pericolosi come Marconi o Casavalle. Pablo ci racconta che
non è facile resistere a lungo nell’INAU, gli educatori
restano al massimo un paio d’anni; lo stesso vale per le
educatrici, se non subiscono prima violenze gravi.
Ci
sarebbero tante cose di cui parlare, basta sedersi in un bar e
osservare le persone, e le loro storie ci arrivano nelle mani senza
fare alcuno sforzo. Montevideo è una città piena di
storie; l’Uruguay è un paese di gente libera, sparsa
nelle immense praterie, gente che non accetta compromessi; ma è
anche un paese di donne sole e povere, abbandonate nei cantegriles,
che si realizzano soltanto rimanendo incinta, gravidanza dopo
gravidanza dopo gravidanza, talvolta con uomini diversi, e a
vent’anni hanno già tre figli; appena il più
grande incomincia a camminare ne vogliono un altro, e poi un altro
ancora, perché, senza, non sarebbero nulla, soltanto povere e
anonime passanti.
Riguardo
alla dittatura militare, c’è un aspetto in particolare
che non possiamo fare a meno di trattare: in un Paese relativamente
piccolo come l’Uruguay si può incontrare la stessa
persona più volte in un giorno; ma cosa succede se questa
persona è la stessa che ti ha violentato vent’anni fa?!
In
un bar di Calle Canelones, sotto l’ombra fresca della parrocchia di
San José, incontriamo la signora Titi, (nome convenzionale,
n.d.r.). Non ci rivela la sua età, ma allo stesso tempo non
nasconde né le rughe né i capelli bianchi, porta una
camicetta gialla con i girasoli, in fondo alla strada in discesa, a
due quadras
dal bar, c’è il mare.
Titi
ci racconta che negli anni Settanta finivano tutti in carcere, chi a
lungo, chi solo per un giorno, “Eravamo
prigionieri politici, anarchici, ribelli, fanatici, eravamo tutti
pazzi perché non avevamo altra scelta
– ci racconta – la
dittatura ti rende pazzo!”
Molte
sue coetanee sono state torturate in quegli anni, fino
all’Ottantacinque. Quello che in Europa non immaginiamo è che
oggi le amiche di Titi sono costrette a incrociare per strada i loro
carnefici, gli stessi che quando erano ragazze hanno abusato di loro
più e più volte, senza giustificazione se non quella
della crudeltà lecita quando eri dell’Intelligenza,
i Servizi Segreti. In generale erano loro quelli specializzati nelle
torture, formati in Panama dai militari francesi. Titi confessa di
odiare i francesi, ha le sue ragioni, non possiamo darle torto. Ci
racconta che al supermercato puoi incontrare l’uomo che ti ha
picchiata quando eri in carcere, puoi incrociarti con lui in
ascensore o vederlo seduto al bar a prendere un caffè e
godersi una pensione molto più consistente della tua, dopo una
brillante carriera militare!
Le
chiediamo come possa sopportare una cosa del genere, Titi ride forte,
a Montevideo tutti ridono forte, e ci risponde: “mi
hijo, qui si è fermato il tempo per la metà di noi,
siamo tutti in attesa che gli orologi riprendano a funzionare”.
“Sui
polsi dei politici ci sono buoni orologi?”
le chiediamo - “Molto
buoni”,
risponde Titi con un sospiro. Il nostro caffè è già
finito, lo abbiamo bevuto bollente perché quando ti abitui al
mate perdi la sensibilità della lingua, Titi ci guarda con la
premura di una madre lasciata tante volte e altrettante volte
ritrovata in giro per il mondo.
Ci
spiega che ricominciare dai brandelli della propria dignità
per diventare di nuovo donna non è stato facile, e che qualche
volta avrebbe voluto uccidere con le proprie mani quell’uomo che ha
riconosciuto nel supermercato o nell’ascensore del suo stesso
palazzo, ma poi, saggiamente, aggiunge: “Non
servirebbe a niente, dopo aver introdotto la cosiddetta legge dei due
diavoli
– una sorta di patto grazie al quale quanto era accaduto
durante la dittatura doveva essere dimenticato per non generare una
nuova guerra fatta di vendette – abbiamo
dovuto rinunciare alla prima metà della nostra vita”.
“Qual
è stato il momento più difficile?” -
le chiediamo - “Quello
in cui ho deciso di raccontarlo ai miei figli”.
La
seconda testimonianza è quella del signor Manuel, vecchio
proprietario di un bar del Barrio Sud. Chiacchieriamo con lui davanti
a una buona Malta, bevanda simile alla birra molto diffusa in Sud
America; alle nostre spalle c’è una grande fotografia di
Alfredo Zitarrosa, famoso cantante montevideano. Parlare con gli
anziani del Barrio Sud ci ha permesso di conoscere il punto di vista
dei cittadini riguardo alle recenti manovre politiche così ben
viste dai Media internazionali. Manuel fa riferimento a ciò
che sui giornali non è stato scritto, naturalmente, e ci
racconta che “il
progetto Un techo para todos, nonché il piano regolatore che
sta permettendo di ridare una casa alle ragazze madri senza alcun
reddito, è stato ben pubblicizzato e ha dato all’Uruguay
la possibilità di distinguersi rispetto agli altri Paesi
sudamericani. Per realizzarlo
– continua Manuel – sono
state scelte diverse imprese edilizie, attraverso un processo simile
alle cosiddette gare d’appalto e, infine, l’intero
progetto è stato ceduto a un’impresa venezuelana per
venti milioni di dollari, venti milioni pagati alla Presidenza
dell’Uruguay per permettere a un altro Paese di costruire nel
dipartimento di Montevideo e Canelones”.
Se
analizziamo la realtà uruguayana dal punto di vista politico,
le contraddizioni saltano subito all’occhio; scopriremmo che, a
seguito di un controllo del conto bancario in dollari del signor
Presidente e degli altri leader dei partiti principali, quello di
Mujica è risultato essere il più cospicuo. Risparmi
messi da parte con la sua attività di floricoltore? Può
darsi, ma a noi non interessa, innanzitutto perché preferiamo
non credere a quello che si racconta nelle strade di Montevideo, e in
secondo luogo perché il nostro approccio, come abbiamo avuto
il piacere di dire a lui in persona, è stato di tipo
filosofico.
Abbiamo
incontrato il signor Manuel mentre rientravamo dal Barrio del Cerro,
un quartiere a venti chilometri dal centro, dove vive il Presidente
Mujica. Volevamo vedere la sua gente per descriverla in queste
pagine: le descrizioni più belle sono quelle che sopravvivono
nel ricordo.
Il
Presidente José Mujica è un uomo sobrio, non ha alcuna
scorta e veste sempre con abiti semplici, talvolta si è
presentato alle riunioni presso la sede della Repubblica in sandali e
con il thermos per il mate sotto il braccio.
“Non
avrebbe senso iniziare ad accumulare denaro adesso, a 79 anni”,
commenta spesso. Ecco perché ha deciso di aiutare i più
bisognosi e, nei limiti che il suo stesso partito, il Frente Amplio,
gli ha concesso, mette in pratica la sua etica di vita dando un
esempio a tutti coloro che sappiano coglierlo.
Dopo
diverse settimane di attesa, grazie all’intercessione della
signora Adriana Gutierrez, addetta alla comunicazione presso il
Ministero della Cultura e dell’Educazione, riusciamo a
incontrare il Presidente, il quale si è ritagliato una pausa
tra una riunione e l’altra. Consapevoli che si tratti di un
evento irripetibile per un autore e un editore pressoché
sconosciuti, ci accontentiamo dei pochi minuti che ci sono concessi*.
Bere un caffè in compagnia di un Presidente della Repubblica
non capita certo tutti i giorni!
Dopo
aver esposto l’idea di realizzare un testo ispirato alla sua
filosofia di vita, con lo scopo di diffonderlo tra i giovani
pensatori delle scuole italiane, e avergli regalato un libro di
Seneca che ha molto apprezzato, stringiamo la mano a un uomo che
merita tutta la nostra ammirazione. Come lui, centinaia di uruguaiani
sono reduci da anni di reclusione, come ci ha raccontato la signora
Titi, ma non tutti hanno avuto la fortuna di potersi prendere una
tale rivincita nei confronti della vita stessa, che, per usare le sue
parole precise, “E’ fatta di riprese; nella vita –
dice José Mujica – ciò che conta è la
capacità di ricominciare dopo essere caduti”.
E
riguardo alla felicità?
Abbiamo
imparato grazie alle parole di quest’uomo semplice che per
essere felici basta molto poco: quanto più ci circondiamo di
beni materiali, tanto più ne saremo schiavi e sarà più
pesante il carico di cianfrusaglie che dovremo portarci addosso.
Un’esperienza, questa di Montevideo, che ci ha insegnato molto
e ci ha ricordato la fortuna che abbiamo avuto a nascere in Italia,
un Paese che, al di là di tutte le critiche che possiamo
sollevare, ci ha permesso di scegliere liberamente quale destino
costruirci.
*In
realtà sono partito da solo, per realizzare un saggio sulla
felicità ispirato alla filosofia del Presidente Mujica, a sua
volta ispirata alle tesi di Seneca e di Erich Fromm; ma mi piace
immaginare che con me ci fossero l’editore Cosimo Lupo e la
filosofa Ada Fiore, i quali mi hanno sostenuto dall’Italia.
Frank Iodice
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