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Riflessioni sulla felicità.
di Antonio Rossi  

20 marzo 2010






Oserei dire...


 

Counseling

Felicità. A volte chimera, a volte concretezza. Nonostante denominatori comuni, è uno stato d’animo che ognuno vive in modo del tutto personale. Motivo per cui, è opportuno che la disquisizione sul tema si sviluppi soltanto a grandi linee.

Ciò potrebbe dare adito a tacciare come critica superficiale ed approssimativa un’analisi, talvolta aspra, del tema nel suo insieme. Reazione possibile forse anche perchè, alcune osservazioni, sono così vicine alla realtà da infastidire noi destinatari.

Senza sciocchi tentativi di dispensare il "verbo assoluto", esporrò il mio pensiero in merito. Mai con supponenza, ma con la convinzione sulla validità delle mie idee, generate dopo attente valutazioni sul vissuto che mi circonda, consolidate ed arricchite da nuovi apprendimenti.

Un po’ fuori dagli schemi, gradirei aprire con una definizione, certo più adatta ad una chiosa finale: è un grave errore non attribuire il dovuto valore a situazioni a noi favorevoli venute in essere. Peggio ancora, non apprezzare e dare per scontato tutto ciò che di bello e di buono si ha o si riesce a vivere.

Ai citati, negativi atteggiamenti, spesso se ne somma un altro: talvolta l’esistenza pone davanti una rinuncia, o un desiderio la cui realizzazione è molto improbabile. Allora... "apriti cielo!". Se eventuali intoppi scombinano mire e progetti, è il dramma. Lagnanze ripetute dominano la scena.

Queste poche righe, potrebbero identificarsi come il sunto di un ipotetico manuale intitolato "come alimentare l’infelicità". Interpretare in siffatto modo la vita, infatti, stimola di frequente insoddisfazioni ed amarezze. In estrema sintesi, contribuisce a creare persone infelici.

Se per felicità s’intende la compiuta esperienza di ogni appagamento, nonché un avvenimento conforme ai desideri, occorre per prima cosa far ordine nella nostra mente. L’appagamento di bisogni è un conto, quello di desideri è cosa del tutto diversa, sebbene, in linea di principio, non errata.

I bisogni possono considerarsi comuni a tutti gli esseri umani. I desideri sono innumerevoli, presenti in ognuno di noi e differenti da persona a persona.

Impossibile non riconoscere come fondamentale il godere di un buono stato di salute, avere "un tetto sulla testa", servirsi di pasti regolari che, mentre gratificano il palato, nutrono e fortificano il corpo. Così come bisogni da appagare, per la completezza del benessere, sono da considerare la gioia provata grazie agli affetti più cari (se si ha la fortuna di averli), un lavoro che non solo dà da vivere, ma gratifica, e nutre l’autostima.

Situazioni talmente basilari, da essere in prevalenza o totalmente presenti nella vita di quasi tutti gli uomini (almeno di quelli appartenenti alla porzione di mondo più evoluto, libero dal giogo della povertà e dallo sfruttamento di tirannie varie). Ed è proprio questo il punto. Non importa se ciò che si ha sia sufficiente per una buona qualità di vita. Tutto scontato! Non di rado, delusi per qualcosa di poco significativo, si sbotta in commenti superficiali del tipo "Ho già questo? Beh... ci mancherebbe altro!".

Riferendosi unicamente al ragionamento di cui sopra, si potrebbe pensare che l’appagamento di desideri sia sbagliato e dannoso. Niente di tutto ciò. Limitare l’esistenza al semplice soddisfacimento delle necessità, svuoterebbe la stessa di buona parte di brio e slancio vitale.

Il problema sta nella misura. I latini dicevano "in medio stat virtus", vale a dire "la virtù sta nel mezzo". L’elogio della moderazione, però, è l’esatto opposto del pensiero dominante l’attuale società.

L’acquisizione di beni non indispensabili è ormai considerata, dalla comune tendenza, come essenziale per poter viver bene e risultare soddisfatti e felici.

Così potrebbe anche essere, se non fosse per l’aleggiare di quella opinione diffusa a non contentarsi mai del superfluo ottenuto.

I convinti assertori di questo principio (o presunto tale), lo motivano col migliorare per eccellere, impegnandosi nella realizzazione di progetti stimati come validi, ma spesso inutili e dispendiosi. In un continuo rincorrere situazioni e beni che, una volta raggiunti, fanno già parte del passato. Mai fermarsi! C’è il rischio di farsi superare!

E così, inseguendo obiettivi per imitazione, e incalzati da sfide continue, vola via la maggior parte della vita. La competizione, quasi mai con se stesso (questa sì, costruttiva), induce l’uomo a lavorare moltissimo per tentare di guadagnare altrettanto, e permettersi in numero sempre maggiore quei beni in grado di suscitare invidia e ammirazione nella gente. Che, a sua volta, tenterà la scalata per riuscire in un affannoso sorpasso. Il tutto, all’interno di un deleterio circolo vizioso.

Le comodità consentono una vita migliore. Il possesso di beni di lusso dà piacere. Ma il rischio che si corre, per ottenerne in abbondanza, sarà quello di imbattersi in un brutto ostacolo: il sovraccarico di stress. Se accumulato a profusione, rende più nervosi, più vulnerabili, più stanchi. Quindi, certamente poco inclini a godere delle agiatezze raggiunte con fatica. Utilizzando una colorita similitudine, è un po’ come se, grazie a smisurati sacrifici, si riuscisse ad imbandire una tavola ricca di ogni ghiottoneria a soddisfazione del palato, pagandone però il prezzo col simultaneo annullamento delle papille gustative. Se così fosse, che senso avrebbe tutto ciò?

Nel frattempo, qualcuno avrà ottenuto di più... e l’ansia di agguantarlo cresce! Non considerando che, per quanti sforzi si facciano, ci sarà sempre qualche persona più brava e capace, o che godrà di beni e situazioni più favorevoli.

Concepire così la vita, porterà ad avere un pessimo rapporto tra energie profuse e vantaggi ottenuti, a scapito delle prime. Intanto, la felicità s’allontana.

Se questi sono i risultati, vuol dire che la nostra mente pensa in modo scorretto. Si parte da elementi giustificabili, come ad esempio il voler una casa comoda e confortevole, una posizione economica che offra tranquillità. Si sconfina, a volte, in un’illogica corsa verso un benessere materiale che logora gli individui.

Vorrei porre l’accento sul trascorrere del tempo, di come sia da considerarsi prezioso. Troppo, per essere sprecato senza rendersi conto della sua importanza.

Si tende a vivere come se si fosse certi di avere due vite: una per fare e produrre, sacrificarsi ed accumulare, gareggiare per superare gli altri ed ostentare. L’altra, per gioire delle cose ottenute. Non è così. La realtà scorre lenta e inesorabile. E, tempo e libertà perduti, non si riavranno indietro.

Libertà. Altro bene inestimabile.

Ottima sintesi sull’argomento può essere considerata una massima di Albert Camus, romanziere, saggista e drammaturgo francese, insignito nel 1957 del premio Nobel per la letteratura: "Sono avaro di quella libertà che sparisce non appena comincia l’eccesso dei beni".

Libertà di agire per il proprio bene, senza danneggiar nessuno, rispettando la propria identità e le leggi sociali. Muovendosi verso le inclinazioni conformi al proprio modo di essere, unico in ogni individuo. Senza tanto subire i condizionamenti imposti dalla società.

Sarei tentato a sostituire la frase precedente con "senza alcun condizionamento da parte della società". L’asserzione, per quanto valida, nei fatti risulta impraticabile. Fuor di dubbio che il condizionamento ambientale mal si combina con uno stato d’animo felice, ma è quasi impossibile evitarlo del tutto. Certo è che, muovere verso la realtà in modo più adeguato e consapevole, aiuta a limitarne i danni.

Si è condizionati, è vero, ma si condiziona pure. Ognuno, con i propri atteggiamenti, finanche involontari, contribuisce nel suo piccolo a determinare quella "pubblica opinione" che, più o meno fedelmente, appare come specchio dei tempi.

Se si vivesse in una collettività più matura, ogni individuo vivrebbe in modo meno pressante la pubblica opinione. Perché egli stesso, a sua volta, non valuterebbe "l’altro" come un avversario da superare e da cui difendersi o, addirittura, un nemico da abbattere. Perché sarebbe il primo a guardare in prevalenza "nel proprio orto", a guardarsi dentro, convogliando le personali energie non contro gli altri, ma per cambiare in meglio se stesso e la sua vita. Perché, così, apprezzerebbe compiutamente ciò che già possiede. Perché, con queste prerogative, sarebbe una persona più serena. Oserei dire, felice.

In fin dei conti, basterebbe un pizzico di saggezza da parte di tutti per migliorare l’attuale tendenza del sentire comune. Con un eccellente, immediato "effetto boomerang".

Spunto finale, non ultimo per importanza, gioire della felicità donata alle persone più care. Sentirsi realizzati nel dispensare una qualsiasi gentilezza o utilità, seppur modesta, al prossimo. Farlo con un sorriso, con una buona parola, che costano niente e danno tanto. A chi riceve, ma anche a chi dà.

Un atteggiamento corretto di vita dovrebbe sì spingere l’individuo ad impiegarsi per ciò che di buono potrebbe fare o dare, in relazione alle proprie forze e capacità. Ma anche a stimarsi per quello che ha già acquisito, ed essere soddisfatto di ciò che possiede.

Si provi ad immaginare, per un attimo, se la maggior parte delle persone riuscisse in questo... Aumento di autostima e gratificazioni, diminuzione di stress e di ansie, di invidie e rancori. In pratica, terreno fertile per realizzare un mondo più a misura d’uomo. Il tutto, senza compiere sforzi titanici. Senza velleitari tentativi di realizzare una società perfetta. Ma, nei limiti dell’umano potere, applicando di più e meglio due elementi fondamentali: buon senso ed equilibrio.

E la felicità, quella vera, quella delle cose semplici e davvero importanti, non sarebbe solo un’illusione.

Non è la conclusione di un sognatore, ma una riesamina obiettiva di ciò che naturalmente accadrebbe se, soltanto se...

 

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