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Riflessioni di un pomeriggio d’ottobre..
di Maria Mazzuca  ( ma-maz@libero.it )

26 ottobre 2017






In cento anni studio!


 

PianetaCounseling

In quest’ultimo periodo mi sto accorgendo sempre di più, rispetto a prima (quando, forse, ne sottovalutavo un po’ l’importanza), di come bisogna essere attenti e accorti quando si interagisce con un interlocutore: quale atteggiamento possedere; di quali parole, verbi, vocaboli, termini, definizioni avvalersi e quali eludere; per quanto tempo tenere la parola.

Inoltre: osservare l’interlocutore per capire se segue ciò che dici, mostrare un temperamento rispondente a ciò che si comunica verbalmente e, soprattutto, imparare a stare un po’ più zitti..

Narro l’episodio dal quale scaturiscono le riflessioni che andrò a fare..

Sono in un ambiente amato e familiare, con me sono altre due persone: una la considero molto intima, l’altra è per me un po’ estranea (non posso dire di conoscerla ma ne ho comunque una buona opinione). Si intavola una normale chiacchierata riguardo un determinato argomento e, ad un certo punto, sorpresa da un’affermazione fatta dalla persona che non conosco bene, intervengo per chiedere spiegazioni.. la chiacchierata diventa in pochi secondi affettuosamente accesa, penso per una serie di incomprensioni da parte mia (dettate da una leggera disattenzione iniziale riguardo il discorso che all’origine stavano affrontando gli altri due attori presenti nel mio stesso ambiente) e una serie di eloquenti e persuasive delucidazioni da parte della persona a me più estranea che, in modo garbato e affettuoso, richiede l’interpretazione di alcuni termini da me utilizzati.

Rispondo alle domande cercando di stanare nella mia testa i pensieri che possano aiutarmi a dare le risposte adeguate e confacenti l’argomento, considerando anche che ho di fronte qualcuno che ha già approfondito molto le domande che mi pone ma, dopo poco, mi accorgo di imbattere in una persona che mi incute timore con la sua preparazione e di fronte alla quale inizio ad avvertire difficoltà. Fatico un po’ mentalmente e decido di fargli presente che mi sta mettendo in imbarazzo con il suo voler a tutti i costi approfondire il "perché" dei termini da me impiegati (sebbene normalissimi termini adottati nelle classiche conversazioni durante le quali si esprime la propria opinione); in aggiunta, la persona continua a dirmi (sempre in modo fine e garbato) che io "ho messo in bocca a lui" parole da lui non dette, ripetendolo più volte (a mio parere sadicamente divertito da questa cosa), mentre, ormai col groppone in gola, gli spiego che non ho mai inteso mettergli in bocca parole da lui non dette.

Avrei voluto spiegargli che mi trovavo a disagio innanzi la sua preparazione, che i termini da me conosciuti per esprimere il concetto da lui espresso e da me interpretato erano quelli perché quelli conoscevo e, soprattutto, avrei voluto dirgli che sentivo il suo fiato sul collo mentre, come se all’improvviso fossimo stati catapultati in un aula di tribunale, al termine dell’arringa finale formulata dall’avvocato dell’accusa, avessi dovuto alzarmi e udire "l’imputata M.M. è condannata alla pena di numero cento anni di studio forzato nella biblioteca più grande d’Italia per aver commesso il reato di non aver adottato i giusti termini nel dialogo col colto interlocutore e non essere stata in grado di reggere all’emozione del disagio da lei avvertito. La condannata ha, quindi, l’obbligo di imparare il significato di tutte le parole della lingua italiana. La corte ha così deliberato".

Ancora proiettata in quella surreale scena, vedevo l’Accusa continuare ad infierire sulla condannata (la sottoscritta): da un lato affascinata da quell’affettuosa arringa e dall’altro desiderosa che terminasse, visto come si sentiva osservata e compatita.

Prima riflessione: tempo fa ritenevo di avere ragione molto spesso, poi ho capito che molto spesso non avevo ragione ma non me ne accorgevo, oggi mi domando "in questa situazione, ho torto e non me ne accorgo oppure ho ragione ma non riesco a convincermene considerato di aver scoperto che quando ritenevo di aver ragione invece non l’avevo?"

Seconde riflessione: comparando me e la persona con cui ho interloquito, analizzo alcuni fattori per cercar di capire il motivo della piega presa dal suddetto discorso.. penso che questa persona sia cresciuta in un ambiente più colto del mio e, di conseguenza, è normale che abbia una maggiore padronanza della lingua italiana; so che è un po’ più grande di me, il che non dovrebbe contare, ma ciò influisce se si considera che in tal modo ha avuto più tempo di me per studiare e approfondire determinati argomenti; la persona DICE (quindi non metto le parole in bocca a nessuno) di conoscere bene il temperamento dell’Essere Umano, avendolo per tanto tempo studiato, mentre io lo studio da poco.

Parlo con me stessa e mi dico: se proprio si sono tanto approfonditi determinati studi, bisognerebbe anche aver imparato a rispettare i limiti dell’altro e ad accettarne le considerazioni evitando di dar subito bella mostra di sé, di come si è bravi nell’affascinare un pubblico e non trascurare che una apparente normale conversazione con qualcuno potrebbe mettere in difficoltà l’altro a causa di emozioni che è bene nascondere..

Vorrei permettermi un consiglio all’eventuale lettore di queste mie riflessioni di un caldo pomeriggio d’ottobre: fare attenzione alle parole che si impiegano quando si interagisce col prossimo, fare attenzione al modo in cui ci si muove, al tono della propria voce, all’espressione del proprio viso.. potrebbe esserci qualche affettuosa "spia" che, mentre ti osserva e ti studia, non si accorge di usare l’analisi degli elementi appena citati non per desiderio di aiutare, ma..

Devo ancora scoprirlo.. (infondo mi aspettano solo cento anni di studio!..)

 

Con affetto al mio interlocutore.

MM (1.11.2007)

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