INTRODUZIONE
Il
presente elaborato si propone di indagare quegli aspetti del
benessere e della malattia che rimandano ad un funzionamento della
mente in senso ampio, dal ramo biologico a quello psicologico.
L’ottica di riferimento è quella bio-psico-sociale, che
considera l’individuo – e i suoi meccanismi – come
influenzato in egual misura da fattori, per l’appunto,
biologici, psicologici e sociali.
Il
primo capitolo tratta nello specifico i concetti di salute e
malattia. Inizialmente verrà presentato un breve excursus
storico sull’evoluzione di questi concetti, fino ai giorni
nostri. Successivamente, verranno approfonditi i temi della qualità
della vita e del benessere, in stretta correlazione col costrutto di
salute ma con accezioni tutte proprie e specifiche.
Nel
secondo capitolo, la protagonista sarà la mente: da un lato,
verrà trattata in riferimento alla
Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) e all’Epigenetica;
dall’altro, verrà illustrato il mondo delle emozioni,
con particolare trattazione dello stress –condizione che
attualmente riguarda una porzione sempre più ampia di
popolazione. In entrambi i casi, si farà specifico riferimento
alle condizioni di malattia connesse. L’ottica rimane, quindi,
sempre quella dell’approccio bio-psico-sociale, in cui
biologia, attività psichica e mondo esterno risultano essere
in continuo dialogo tra loro.
In
ultimo, sarà presentato un breve accenno alla Psicologia della
Salute – che sta prendendo sempre più piede e che tiene
conto dell’integrità delle dimensioni precedentemente
menzionate.
Salute
e Malattia
“La
salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e
sociale e non la semplice assenza di malattia e di infermità.”
(World
Health Organization, 1946)
Etimologicamente,
il termine ‘salute’ rimanda al latino salus, che
significa “benessere”, “fortuna”,
“prosperità”, “salvezza”, “vita”
e “sicurezza”. Rimanda anche al greco holos e ai
termini inglesi health e whole, che fanno riferimento
alla salute come connessa all’idea di un tutto, di un insieme:
per cui, la salute è integrità di un sistema.
I
concetti di ‘salute’ e ‘malattia’ rimandano
alla sfera biopsicosociale, e quindi alle connessioni esistenti fra:
mente, corpo e contesto di appartenenza. Particolari forme di
malattia e di modalità di cura sono, infatti, riconducibili
all’interazione tra processi fisiologici, psicologici e
sociali. Per cui, i sensi di salute e malattia fanno inevitabilmente
riferimento anche all’assetto culturale di ciascun individuo:
credenze, abitudini, valori e stili di vita dei diversi contesti
sociali. Infatti, ciascuna cultura possiede peculiari regole
implicite di traduzione di alcuni “segnali” del corpo in
sintomi, e di collegamento degli stessi a specifici modelli
eziologici e d’intervento (Saita, 2011).
Evoluzione
storica dei concetti
Nell’antichità,
le concettualizzazioni di salute e malattie presentavano un
consistente rimando alla religione e alla mitopoiesi – quindi,
con: connotazioni morali, eziologia trascendente e riferimento ad
un’entità estranea all’esperienza umana. Per
esempio, quando una persona compiva azioni non gradite agli dei, una
divinità adirata poteva punirla – per i babilonesi, ogni
patologia era causata da una specifica sanzione divina; oppure,
ignaro del proprio destino, un uomo poteva essere vittima della
stregoneria di un demone. Da questo quadro emerge come salute e
malattia siano state spesso considerate in modo mutualmente
esclusivo: la presenza dell’una implicava necessariamente
l’assenza dell’altra. Ne conseguiva una costante contesa
tra queste due condizioni.
Col
passare del tempo, la concezione di malattia è passata da
un’idea magico-religiosa ad una più naturalistica. La
prima vedeva l’introduzione di elementi esterni – magici
o demoniaci – in corpo; la seconda era caratterizzata da
assenza di riferimenti a punizioni e colpe. Il mito di Pandora
rimanda proprio a questo passaggio: scoperchiando il vaso contenente
i mali del mondo – malattie, vecchiaia e fatica di cui gli
uomini, fino ad allora, erano stati privi – questi si
dispersero, giungendo all’uomo senza diretto intervento divino
né responsabilità personali. Entrando a far parte del
mondo, le malattie diventano fenomeni naturali.
Nel
V secolo a.C. si cominciò a pensare alla malattia come ad
un’alterazione del naturale equilibrio organico. Alcmeone di
Crotone – medico e filosofo della Scuola Pitagorica –
sosteneva che la salute fosse determinata da un equilibrio di forze
organiche (isonomia) – caldo e freddo, umido e secco,
dolce e amaro – mentre la malattia fosse il risultato di una
perdita del loro equilibrio (dyscrasia). Anche secondo
Ippocrate la malattia era da ricondurre alla reazione di quegli
elementi che assicurano il funzionamento dell’organismo. A quel
tempo, quindi, salute e malattia dipendevano da un buon funzionamento
organico. Da qui, si fece largo anche l’idea che esistano
diversi livelli di gravità della malattia: un consistente
disequilibrio genera una malattia grave; un modesto disequilibrio
causa una malattia più moderata.
Nel
129 a.C., il medico e filosofo greco Galeno di Pergamo sviluppò
– tra coloro che ripresero la concezione ippocratica –
un’idea “organicistica” di malattia, per cui essa
nasca dal malfunzionamento di specifici organi. È,
quindi, un’alterazione dell’equilibrio, dell’armonia
(Saita, 2011). Egli sosteneva che le risposte biologiche
dell’organismo possono essere condizionate da alterazioni dello
stato psicofisico – osservazioni da lui scientificamente
codificate. In Occidente, Galeno fu il primo a concepire i concetti
di salute – dunque, intesa come equilibrio dinamico – e
malattia come rispondenti ad un sistema congiunto di filosofia e
pratica medica. Per cui, il trattamento terapeutico – volto a
ripristinare l’equilibrio perduto – doveva
necessariamente integrare: accorgimenti di vita, buona dieta e uso di
medicinali ad estrazione naturale (Marchese, 2003).
Da
questo breve excursus sull’evoluzione storica dei concetti di
salute e malattia, è possibile identificarne due principali
modelli rappresentazionali: uno centrato sull’organismo, sui
sintomi e sui fattori endogeni generanti la malattia; uno centrato
sull’armonia delle parti e sui legami tra ciò che fa
stare bene e ciò che fa stare male (Saita, 2011). Nel ‘700,
per esempio, l’ospedale – termine che deriva da
“ospitalità” – era un luogo che offriva
ospitalità a chiunque avesse disagi e difficoltà non
necessariamente legati alla malattia fisica: difficoltà
psichiche, povertà, problematiche caratteriali ecc. L’ospedale
offriva accoglienza, un prendersi cura dell’individuo e dei
suoi bisogni. Il medico interveniva solo in caso di patologia fisica;
per cui, aveva un ruolo marginale. Col passare del tempo,
l’accrescimento delle conoscenze specialistiche e l’ipertrofia
delle tecnologie mediche hanno fatto sì che la dimensione
medica ospedaliera si affermasse sempre più, al punto che il
modello medico divenne ben presto quello prevalente all’interno
degli ospedali – ormai intesi come luoghi di trattamento e cura
delle malattie.
Fino
a pochi anni fa, la salute era definita in termini di assenza di
malattia, e quindi al negativo: si intende salute “quando non
c’è malattia”. Questo la rendeva un qualcosa di
immisurabile, di intangibile: una cosa che c’è, ma di
cui nessuno saprebbe dire esattamente cosa sia. Il centro
dell’attenzione, dunque, era proprio la malattia – pur
parlando di salute. Con l’avvento del modello
bio-psico-sociale, c’è stato un cambio di prospettiva:
«La salute è uno stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia e di
infermità» (OMS, 1946). Si tratta di una definizione
della salute in positivo, come “uno stato di” e non
semplicemente “un’assenza di” (Bertini, 1999).
La
prima Conferenza Internazionale per la Promozione della Salute,
riunitasi ad Ottawa il 21 Novembre 1986, formulò la Carta
di Ottawa, con lo scopo di condurre un’azione mirante alla
salute per tutti nell’anno 2000. Nella sezione “Promozione
della Salute” dichiara:
“La
Promozione della Salute è il processo che conferisce alle
popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro
livello di salute e per migliorarla. Questo modo di procedere deriva
da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un
gruppo o un individuo possono, da un lato, realizzare le proprie
ambizioni e soddisfare i propri bisogni e, dall’altro, evolversi con
l’ambiente o adattarsi a questo. La salute è, dunque,
percepita come una risorsa della vita quotidiana, e non come il fine
della vita; è un concetto positivo che mette in valore le
risorse sociali e individuali, come le capacità fisiche. Così,
la promozione della salute non è legata solo al settore
sanitario: supera gli stili di vita per mirare al benessere”.
(Carta di Ottawa, 1986).
La
salute è intesa, quindi, come un processo di costante
interazione tra l’individuo e il contesto (fisico, culturale,
relazionale e sociale), con lo scopo di ricercare e mantenere gli
equilibri funzionali.
I
concetti di ‘salute’ e ‘benessere’ vengono
spesso usati in modo interscambiabile e associati a quello di
‘qualità della vita’. In realtà, ognuno di
essi è un costrutto del tutto autonomo.
La
qualità della vita
“Una
buona salute è una ricchezza fondamentale per il progresso
sociale, economico e individuale e, nello stesso tempo, costituisce
un aspetto importante della qualità della vita. I fattori
politici, economici, sociali, culturali, ambientali, comportamentali
e biologici possono intervenire tutti in favore o a danno della
salute. L’azione di Promozione della Salute tenta di rendere queste
condizioni favorevoli tramite la promozione delle idee”.
(Carta di Ottawa, 1986).
Il
concetto di Qualità della Vita (Quality of Life, QoL) nasce
intorno agli anni Settanta nell’ambito delle scienze sociali –
approdando in quello delle scienze mediche in un secondo momento, con
particolare rimando alle patologie croniche e invalidanti. È
un concetto più esteso rispetto a quello di salute e connesso
a quello di stress. Il costrutto di qualità della vita si basa
su una concezione della persona centrata sulla salute, mentre il
costrutto di stress rimanda ad una prospettiva centrata sulla
malattia.
Nel
1996, Spilker formula tre possibili definizioni di QoL:
come
riferita al benessere globale della persona;
come
connessa a specifiche dimensioni dell’esistenza (per esempio,
fisica, economica e sociale);
con
focus sulle peculiarità di ogni dimensione (per esempio, per
quanto concerne la dimensione fisica, i sintomi della patologia e la
percezione del dolore).
Da
qui, si delinearono due principali approcci di qualifica della
qualità della vita: l’approccio
qualitativo-fenomenologico e l’approccio quantitativo.
La
prospettiva qualitativo-fenomenologica si rifà a studi
confacenti alla prima definizione di QoL proposta da Spilker. In
quest’ottica, la qualità della vita viene concepita come
una sorta di “gestalt” misurabile soltanto a livello
globale. Inoltre, la qualità della vita dev’essere
considerata sia in termini di livello di funzionamento della persona,
sia in termini di vissuto soggettivo di tale livello di funzionalità.
Di conseguenza, in questo approccio l’attenzione viene spostata
dall’oggettività della malattia – misurabile con
strumenti standardizzati – alla soggettività
dell’esperienza.
La
prospettiva quantitativa, invece, fa riferimento alla seconda e alla
terza definizione di QoL proposte da Spilker. Gli studi condotti in
quest’ottica si sono occupati dell’operazionalizzazione
della qualità della vita attraverso specifici indicatori
connessi a particolari ambiti dell’esperienza. Tra i principali
indicatori troviamo: ansia, depressione, autostima, percezione di
controllo e via dicendo. Ciò a cui gli studi quantitativi
mirano è la generalizzabilità dei risultati, a
prescindere dai vissuti soggettivi. È possibile raggiungere
tale scopo tramite strumenti di tipo self-report – generici o
specifici per patologia. Uno degli strumenti più noti è
sicuramente il “Questionario sullo stato di salute” –
o “Short Form 36 Items”(SF-36). Questo approccio ha,
però, dei limiti. Diversi interrogativi possono nascere
proprio dal concepire la qualità della vita come un costrutto
costituito da molteplici indicatori. Per esempio, sarebbe opportuno
stabilire il grado di covariazione-indipendenza tra gli indicatori,
così come il loro peso in relazione alla variabilità di
ogni persona, della malattia e del trattamento (Midtgaard et al,
2006; Saita, 2011). Un altro limite riguarda la scarsa attenzione
alle relazioni familiari e sociali – anche in senso di rete –
che sono d’importanza fondamentale. Per esempio, diversi studi
hanno dimostrato che il cancro ha un impatto negativo non soltanto
sul malato, ma anche sui familiari – primo fra tutti il partner
(Thornton, Perez, Meyerowitz, 2004; Saita, 2011). Infine, un
ulteriore limite riguarda il fatto che molte ricerche non sempre
operano una chiara distinzione tra:
le
fasi mediche della malattia (diagnosi iniziale vs. cronicizzazione);
gli
stadi della malattia (nei pazienti oncologici, per esempio, si
dovrebbe distinguere tra malattia localizzata e malattia
metastatica);
gli
effetti a breve e a lungo termine della malattia.
Ciò
che manca, inoltre, è la distinzione tra ‘indicatori’
e ‘mediatori’ della qualità della vita (Tomich,
Helgeson, 2006; Saita, 2011). Non è ancora chiaro, per
esempio, se la depressione sia una specifica dimensione della QoL
(indicatore) o se ne sia una concausa (mediatore).
Ad
oggi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce
la QoL come la percezione soggettiva che ogni individuo ha della
propria posizione nella vita, nel contesto culturale e del sistema di
valori in cui vive, e in relazione ai propri obiettivi, alle
aspettative, agli standard di riferimento e alle preoccupazioni
(Saita, 2011).
Per
queste ragioni, si può affermare che un sostanziale
miglioramento della qualità della vita potrebbe generare una
limitazione delle sofferenze (Marchese, 2003). Per esempio, i
principali indicatori di adattamento – e disadattamento –
alla patologia cardiaca sembrano essere: qualità della vita,
stato emotivo, stress psicologico, senso di efficacia personale e
compliance medica. A tal proposito, diverse ricerche hanno dimostrato
che una soddisfacente relazione di coppia influenza positivamente
l’adattamento psicosociale di questi pazienti (Molinari et al.,
2007).
È
anche vero, d’altro canto, che la patologia fisica causa, in
molti soggetti, una compromissione della qualità della vita –
anche in termini di riduzione del benessere psicosociale. Uno studio
eseguito su pazienti affetti da psoriasi ha rilevato una correlazione
inversamente proporzionale tra patologia dermatologica e qualità
della vita, e che tale compromissione della qualità della vita
induce, a sua volta, l’emergere di sintomi depressivi (Compare,
Grossi, 2012).
A
livello epigenetico, si è osservato che una buona qualità
della vita aiuta a mantenere a lungo l’efficacia intersistemica
– ossia una buona risposta organica alle minacce esterne
quotidiane – e, quindi, un dialogo
psiconeuroendocrinoimmunologico (Marchese, 2014).
Il
benessere
Per
svariati anni e in diversi contesti culturali, si è ritenuto
che l’equilibrio delle forze naturali presenti in ogni
individuo ne garantisse il benessere fisico, psicologico e sociale.
Fin dai tempi di Ippocrate risultava evidente l’interconnessione
tra: salute fisica, fattori emotivi e personalità. Per
esempio, nel 1628, William Harvey riscontò che i “turbamenti
mentali” in grado di indurre uno stato di piacere o di dolore –
inteso in senso affettivo – influiscono sull’attività
cardiaca. Nel 1910, Sir William Osler riconosceva i pazienti cardiaci
come uomini enormemente ambiziosi in grado di spingere fino al limite
i propri meccanismi corporei (Molinari et al., 2007).
Agli
inizi degli anni Settanta, in ambito psicosociale – e non
sanitario – nasce l’interesse per un concetto di
benessere volto all’identificazione di precisi indicatori
obiettivi della qualità della vita. In prima battuta,
l’attenzione si è focalizzata su parametri sociali ed
economici – istruzione, reddito e via dicendo. Col passare del
tempo, però, si sono definiti anche indicatori di tipo
personale – per esempio, i giudizi di soddisfazione. In
parallelo, si è cominciato a riconoscere il ruolo fondamentale
della dimensione soggettiva, come esercitante un rilevante ruolo
d’influenza su quelle condizioni abitualmente ritenute
oggettive – per esempio, le esperienze di salute e malattia. Il
concetto di benessere, quindi, assume sfaccettature diverse a seconda
che lo si interpreti avvalendosi di criteri esterni o interni.
Riferendosi a criteri esterni e normativi, il benessere assume
l’accezione di condizione di vita ottimale – solitamente
convergente col possesso di quegli elementi considerati desiderabili
nel sistema di valori sociali condivisi nel contesto di appartenenza.
Basandosi, invece, su criteri interni e soggettivi, il benessere
diviene una condizione influenzata dalla specificità delle
esperienze individuali – valori di riferimento, aspirazioni,
condizione attuale e valutazione delle esperienze passate (Saita,
2011). Diversi Autori hanno osservato che le persone che si trovano
in una situazione di sofferenza – intesa come dolore fisico –
tendono a ricercare l’assistenza sanitaria non soltanto per la
valutazione diagnostica e per la risoluzione dei sintomi, ma anche
perché il dolore interferisce con le attività
quotidiane, causa preoccupazione e sofferenza emotiva e mina la
fiducia nella propria salute. Quando il dolore persiste per settimane
o mesi, i suoi effetti sul benessere possono essere molto estesi e
profondi, fino ad alterare la salute psicologica e la sfera sociale –
lavoro, famiglia ecc. – del soggetto (Gureje et al., 1998).
Numerosi
sono gli studi che hanno interessato il costrutto di benessere negli
ultimi decenni, e grazie ad essi è stato possibile
identificarne tre principali dimensioni: benessere soggettivo,
benessere psicologico e benessere sociale.
Il
benessere soggettivo consiste nella stima della propria
esistenza in termini sia cognitivi – soddisfazione per la
propria esistenza – che emotivi – presenza di stati
affettivi piacevoli ed esperienza di stati affettivi spiacevoli
(Kahneman et al, 1999). Rientra, quindi, tra le principali
dimensioni della qualità della vita e della salute. Diversi
studi sul benessere soggettivo hanno dimostrato che gli aspetti
concreti della vita – per esempio, le condizioni di vita e di
lavoro – possono influenzare la salute di un individuo, ma non
determinarla: a giocare un ruolo cruciale sono le percezioni
individuali delle situazioni. Inoltre, tali percezioni rispondono, a
loro volta, ad altre importanti variabili: personalità del
soggetto, suoi processi cognitivi, temperamento, contesto
psicosociale di appartenenza, eventuale sostegno sociale e capacità
di coping. Quest’ultima variabile merita una breve
introduzione. Il coping consiste nell’insieme di atteggiamenti,
abilità ed attività messe in atto dal soggetto per far
fronte a quelle situazioni percepite come stressanti e problematiche.
Comprende svariate strategie di soluzione delle difficoltà,
classificabili sulla base di specifici criteri. Alcune strategie si
focalizzano sul problema (per esempio, la ricerca di informazioni),
altre sulle emozioni (per esempio, tecniche di rilassamento).
Inoltre, una strategia di coping può essere considerata
funzionale o disfunzionale (per esempio, uso di sostanze) ad un
individuo.
Il
benessere psicologico consiste in un’esperienza
psicologica ottimale, un equilibrio psicofisico (Cicognani, 2000).
Basandosi sulle teorie psicologiche esistenti, Ryff (1989) ne ha
individuato sei dimensioni: accettazione di sé, scopo di vita,
autonomia, crescita personale, relazioni positive con gli altri e
padronanza ambientale.
Il
benessere sociale consiste nella capacità del contesto
e dei fattori sociali di influenzare benessere e salute. Ogni
individuo fa parte di unità sociali – famiglia, gruppi,
comunità, organizzazioni ecc. L’esperienza psicologica
soggettiva dello “star bene” è strettamente
connessa e inseparabile dalla percezione e dalla consapevolezza
dell’appartenenza ad una comunità, all’interno
della quale ciascun soggetto possa avere un ruolo – e un valore
– riconosciuto e significativo ed esperire relazioni positive
di sostegno (Zani, Cicognani, 1999). Secondo Keyes (1998), le
ricerche sul benessere sociale hanno da sempre posto l’attenzione
su temi quali: accettazione sociale (senso di accettazione dagli
altri e fiducia verso gli altri), integrazione sociale (senso di
appartenenza ad una comunità), attualizzazione sociale
(valutazione delle potenzialità e dell’andamento della
società), contributo sociale (sentirsi un membro fondamentale
della comunità) e coerenza sociale (percepire organizzazione e
qualità della società) (Saita, 2011).
Alcune
ricerche condotte su pazienti con patologia cardiaca hanno dimostrato
che la qualità delle relazioni interpersonali di questi
soggetti è associata alla gravità e al decorso della
malattia. Nello specifico, tali studi hanno indagato la percezione
soggettiva – da parte dei pazienti – delle relazioni
sociali con gli altri significativi, specialmente l’atteggiamento
– sollecito e supportivo vs. critico e negativo – che si
dimostra essere stabile e peculiare del contesto sociale. Studi
correlazionali hanno evidenziato che i pazienti che percepivano come
positive le relazioni interpersonali presentavano un disturbo
cardiaco più lieve rispetto ai pazienti che le percepivano
come negative; inoltre, i primi mostravano un miglior recupero
psicofisico in seguito ad un evento cardiaco. In questo quadro,
pareva svolgere un ruolo rilevante proprio il benessere psicologico
del soggetto, e in due principali direzioni:
Un
interessante studio di Baker e colleghi si è proposto di
indagare la percezione della qualità delle relazioni
interpersonali con gli altri significativi mettendo a confronto
soggetti ipertesi con o senza sintomi psichiatrici – nello
specifico, ansia e depressione. I risultati hanno evidenziato che,
diversamente dai soggetti ipertesi senza sintomi psichiatrici, quelli
con sintomi psichiatrici tendevano a percepire le relazioni
interpersonali come più stressanti; inoltre, a distanza di sei
mesi non si rilevava alcun miglioramento dell’ipertensione
(Molinari et al., 2007).
Secondo
la Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), il benessere – così
come la vita e la morte – di ogni individuo dipende da una
sorta di Network, una “Grande Connessione” fra psiche,
sistema nervoso, sistema immunitario e sistema endocrino, che
comunicano tra loro attraverso i neuropeptidi (molecole di natura
proteica) (Marchese, 2003). Il benessere diviene, quindi, una
condizione temporanea data da uno stato di equilibrio metabolico
psicofisico conseguente all’appagamento dei propri bisogni
(Marchese, 2011).
IL
RUOLO DELLA MENTE
“Ciò
che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse
piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa”
(Pirandello,
1937)
L’Epigenetica
Il
meccanismo epigenetico
L’esistenza
dell’organismo si deve alle sinergie e agli equilibri
compensatori che esitano dal costante dialogo fra tre grandi
strutture: il sistema nervoso, il sistema endocrino e il sistema
immunitario. È all’interno degli atomi del DNA di ogni
cellula che origina la vita. I messaggi provenienti dall’ambiente
esterno provocano delle trasformazioni strutturali e di movimento
nelle macroparticelle – protoni, elettroni e neutroni. La
macromolecola del DNA “registra” queste trasformazioni
all’interno dei magazzini della memoria – informazioni
che costituiranno il serbatoio dei ricordi, e quindi l’identità
storica personale (Marchese, 2003) – e:
elabora
una strategia operativa;
va
a costituire l’elemento della catena di tessuti, organi e
apparati che opereranno in sinergia costruttiva (Marchese, 2004).
In
ambito chimico, i principali meccanismi epigenetici sono la
metilazione del DNA e la modificazione covalente degli istoni, che
alterano fisicamente la densità della cromatina, e quindi
l’accessibilità ai complessi molecolari preposti
all’espressione dei geni, modulando, così, la potenziale
trascrizione di alcuni di essi (Annesi, 2009).
Il
Sistema Nervoso (SN) è considerato la sede delle più
avanzate capacità dell’intelletto. Esso regola sia le
funzioni della vita vegetativa – ossia il funzionamento di
organi e apparati – sia le funzioni della vita di relazione –
che rapportano il nostro organismo col mondo esterno. Il sistema
nervoso si divide in:
Sistema
Nervoso Centrale (SNC) – composto da cervello e midollo
spinale;
Sistema
Nervoso Periferico (SNP) – composto da organi sensoriali e
fasci di fibre nervose che veicolano informazioni nei centri
importanti del sistema nervoso;
Sistema
Nervoso Vegetativo (SNV), che a sua volta si divide in simpatico e
parasimpatico – localizzato alla base del cervello, nel tronco
encefalico e nel midollo spinale.
È
bene sottolineare, però, che non si tratta di una rigida
classificazione: i diversi sistemi sono strettamente connessi tra
loro dalle fibre nervose, cosa che consente la coordinazione delle
loro funzioni.
La
Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) – assieme al concomitante
e costante sviluppo degli studi scientifici – ha sempre più,
nel corso degli anni, reso possibile la spiegazione della
comunicazione tra organi e apparati. Ciò ha reso possibile
l’accettazione dell’idea che la complessa costruzione
dell’essere umano dipenda sia dalla genetica che dall’ambiente,
tra loro connessi e in continuo dialogo. Ma in che modo comunicano?
Ogni individuo ha in sé una matrice genetica dotata di
messaggi potenziali. Gli stimoli proveniente dall’ambiente
esterno andranno ad influenzare la modalità di lettura dei
geni. Verrà, quindi, a determinarsi una personalizzazione in
funzione delle stimolazioni ambientali. In questo consiste la nascita
dell’Epigenetica (Marchese, 2011), ossia di quella branca della
biologia molecolare che indaga i cambiamenti che avvengono in
risposta alle interazioni gene-ambiente (Annesi, 2009). Bruce H.
Lipton, biologo cellulare e ricercatore statunitense, sostiene di
aver scoperto che non sono tanto i nostri geni a controllarci, ma
piuttosto sono essi stessi controllati da influenze ambientali
esterne alle cellule, inclusa l’attività del pensiero.
Per cui, attraverso il meccanismo dell’apprendimento, i geni
“imparano” dai messaggi in entrata. I cosiddetti
meccanismi epigenetici di regolazione del cervello sono in grado di
alterare l’attività dei geni senza modificare la
sequenza del DNA. Queste osservazioni suggeriscono che l’epigenetica
potrebbe spiegare in che modo le esperienze di vita precoci possono
lasciare una traccia permanente nel cervello e influenzare, così,
sia la salute fisica che il comportamento in età più
avanzata (Marchese, 2011).
Eric
R. Kandel, docente alla Columbia University di New York e premio
Nobel per la Medicina e le Neuroscienze nel 2000, è
considerato uno dei più grandi esperti circa i meccanismi
cellulari e molecolari del condizionamento e della memoria. Egli
sosteneva che la relazione epigenetica tra mente e cervello risponde
a cinque principi fondamentali (Marchese, 2011):
Tutti
i processi mentali, anche quelli psicologici più complessi,
derivano da operazioni del cervello.
Ciò che noi chiamiamo “mente”, quindi, non è
altro che la gamma di funzioni svolte dal cervello. Tali funzioni,
infatti, sono alla base tanto di comportamenti motori relativamente
semplici (per esempio, mangiare e camminare), quanto delle azioni
cognitive complesse – consapevoli e non – che noi
accostiamo ad un comportamento specificamente umano (per esempio,
parlare, pensare, creare opere d’arte). Da questo quadro, ne
consegue che i disturbi del comportamento caratterizzanti la
patologia psichiatrica rimandano a disfunzioni cerebrali –
anche in caso di evidente origine ambientale delle cause. È
bene, però, fare chiarezza sulle due principali funzioni del
gene: la funzione
modello (trasmissione)
e la funzione
trascrizionale. La
prima fornisce le copie di tutti i geni dell’individuo alle
generazioni successive. La seconda consiste nella capacità
del gene di dirigere la produzione di specifiche proteine in una
data cellula – esercitando, così, una regolazione
sensibile ai fattori ambientali.
I
geni e i loro prodotti proteici sono determinanti importanti del
modello di interconnessione tra neuroni nel cervello.
Questo, sia dal punto di vista funzionale che da quello strutturale.
Di conseguenza, i geni e le combinazioni di geni sono in grado di
controllare significativamente il comportamento. Ne risulta che la
genetica esercita un ruolo importante nello sviluppo delle più
importanti psicopatologie.
L’alterazione
dei geni non spiega, da sola, tutta la variabilità di una
data malattia mentale.
Nella stessa misura in cui le combinazioni di geni esercitano
un’azione sul comportamento (anche di tipo sociale), anche il
comportamento e i fattori sociali possono agire retroattivamente sul
cervello fino a modificarne l’espressione genica – e
quindi anche la funzione delle cellule neuronali. L’apprendimento
– compreso quello esitante da una disfunzione comportamentale
– produce alterazioni nell’espressione genica.
Alterazioni
nell’espressione genica indotte dall’apprendimento,
danno luogo a cambiamenti nei modelli di connessione neuronale.
Si tratta di cambiamenti che contribuiscono alle basi biologiche
dell’individualità e potrebbero contribuire anche
all’insorgenza e al mantenimento di anomalie comportamentali
provocate da fattori sociali.
La
psicoterapia produce modifiche a lungo termine nel comportamento –
probabilmente mediante l’apprendimento – provocando
modifiche nell’espressione genica che alterano la forza delle
connessioni sinaptiche e causano modifiche strutturali che alterano
i modelli anatomici di interconnessione tra cellule nervose del
cervello. Diverse
ricerche nell’ambito della biologia molecolare hanno
evidenziato come il genoma presenti una variabilità di
espressione di gran lunga più plastica di quanto si
immaginasse in passato.
Un
importante contributo nell’ambito dell’epigenetica è
sicuramente quello del medico e ricercatore italiano Giovani Russo,
che sintetizza in sette passaggi il meccanismo epigenetico (Marchese,
2011):
Dal
mondo esterno della cellula – dal resto dell’organismo a
ciò che sta fuori alla persona – arrivano
sollecitazioni che vengono captate da recettori sensoriali
specifici, che generano sensazioni corrispondenti.
Attraverso
le vie di conduzione afferenti, tali sensazioni giungono al Talamo,
e da qui saranno inviate alla zona corticale di corrispondenza.
Una
volta giunte a destinazione, vengono confrontate con elementi di
similitudine per stabilire – anche grazie all’azione
dell’Ipotalamo – di cosa si tratti. Il criterio di
valutazione si basa su tre parametri principali: utile/non utile,
logico/non logico e piacevole/sgradevole.
Nascono
così le percezioni, che consistono nel riconoscimento di una
stimolazione che viene contestualizzata nello spazio-tempo per
stabilire come reagire. La procedura prevede:
raccolta
dei dati – ossia delle informazioni precedentemente
memorizzate e archiviate su un dato argomento;
elaborazione
dei dati – che avviene nel campo psicobioelettromagnetico
degli atomi e nello spazio d’interazione degli elettroni delle
molecole del DNA e della membrana delle cellule neuronali e
nevrogliari;
scelta
– basandosi sugli elementi posseduti e sulle capacità
riflessive;
verifica
– con l’intervento della logica, viene verificato il
lavoro realizzato e, in caso di necessità, vengono suggeriti
eventuali correttivi;
associazione
– dei diversi elementi elaborati;
strutturazione
di un concetto completo – che consente adeguate
valutazioni.
Interviene,
ora, l’individuale capacità di adattamento, in grado di
modulare – con l’intervento di neurotrasmettitori e
neuro modulatori – e, talvolta, anche modificare il segnale di
partenza.
Trasportato
da mediatori bioumorali (flussi elettrici e chimici) sulle cellule
bersaglio, il segnale si trasforma in un elemento che va ad attivare
dei recettori di membrana che consentono l’apertura o la
chiusura di canali di membrana attraverso i quali passano specifiche
sostanze – presenti nel liquido interstiziale – che
entrano, così, nel citoplasma intracellulare.
Queste
sostanze raggiungono i cromosomi e modulano la lettura genetica
attraverso lo srotolamento di porzioni di cromatina lette a stampo,
con l’RNA, nelle zone in cui l’Eterocromatina diventa
Eucromatina.
Per
comprendere meglio quest’ultimo punto, può essere utile
immaginare il DNA avvolto su rocchetti di istoni come un capello
avvolto su un bigodino: la parte “srotolata” potrebbe
determinare la lettura tramite l’RNA, che, uscendo dal nucleo
ed entrando nei ribosomi, stimola la produzione di proteine. Nel
meccanismo epigenetico, il segnale risultante dal meccanismo
dell’apprendimento attuato dalla mente, “guida” la
lettura modulata – a parità di DNA. In psicoterapia, per
esempio, anche le parole dello psicoterapeuta – e il modo in
cui le esprime – possono indurre il segnale. Ne consegue che
l’attivazione di un cambiamento su base epigenetica avverrà
in funzione del transfert (Marchese, 2011).
Malattia
ed epigenetica
La
malattia di Alzheimer – patologia neurodegenerativa con
comparsa di manifestazioni cliniche nella tarda età –
rappresenta uno dei temi maggiormente studiati per comprendere
l’interazione tra meccanismo epigenetico, malattia e ambiente.
I diversi studi condotti su primati e roditori, hanno evidenziato
come la precoce esposizione a certi metalli (come il piombo):
favorisca
il potenziamento dell’espressione dei geni associati alla
malattia;
reprima
l’espressione di altri geni;
aumenti
lo stress ossidativo del DNA.
L’esposizione
precoce ai metalli rappresenta il fattore ambientale. Questo va ad
inibire alcune DNA-metiltransferasi – preposte alle reazioni di
metilazione – ipometilando i promotori di alcuni geni associati
e aumentandone i livelli. Ne consegue una produzione di specie
reattive all’ossigeno, che arrecano danno al DNA accelerando
gli eventi neurodegenerativi. Quando i geni vengono epigeneticamente
modificati nelle fasi precoci della vita, è possibile
risultino più suscettibili allo stress ossidativo dell’età
adulta.
Da
queste osservazioni, è possibile dedurre che qualsiasi tipo di
perturbazione – stress, deficit nutrizionali ecc. –
potrebbe inficiare il programma epigenetico, modificandone
l’espressione differenziale. Interessanti ricerche condotte su
gemelli monozigoti hanno messo in luce come, nonostante questi
soggetti si presentino genotipicamente identici, mostrino spesso
differenze a livello fenotipico – per esempio, rispetto al
grado di suscettibilità alle malattie, specialmente a quelle
di tipo psichiatrico (schizofrenia, disturbo bipolare ecc.). Questa
discordanza fenotipica ha una natura ancora poco conosciuta, che
potrebbe dipendere tanto da fattori ambientali quanto dall’esistenza
di diversi profili epigenetici.
Un
altro ramo ampiamente sondato è quello delle malattie
tumorali, alla cui origine sembrano esserci importanti basi
epigenetiche. Le cellule tumorali, infatti, presentano anomali schemi
di metilazione. Quindi, la questione epigenetica è molto
rilevante per queste patologie (Annesi, 2009). Il cancro è
caratterizzato da un’incontrollata proliferazione cellulare che
potrebbe essere causata sia da mutazioni genetiche che da processi
che bloccano la trascrizione di quei geni aventi una funzione
protettiva. Questa scoperta apre lo scenario a nuove prospettive
terapeutiche per quei tumori originanti da un processo epigenetico
(Marchese, 2014). Infatti, le mutazioni epigenetiche sono
farmacologicamente reversibili (diversamente dalle mutazioni
geniche); quindi, diventa estremamente fondamentale proseguire e
sostenere la ricerca di possibili terapie adeguate (Annesi, 2009).
A
tal proposito, diverse ricerche hanno posto l’accetto su una
visione terapeutica che potremmo definire rivoluzionaria:
l’immunoterapia anti-cancro. Secondo quest’ottica,
bisognerebbe puntare a rafforzare il sistema difensivo dell’organismo
affinché impari ad attaccare il “nemico” (il
tumore): l’apparato immunitario deve imparare a difendersi al
meglio. Ma in che modo? Sbloccando – ricorrendo ad anticorpi
mirati – i freni imposti al sistema immunitario da alcune
tipologie di tumore. In questo modo, sarà possibile osservare
e ottenere una risposta clinica almeno in una parte di pazienti
oncologici.
Un’altra
terapia indagata in diverse ricerche è quella dell’ipnosi.
Il suo impiego in pazienti presentanti verruche – ossia
affezioni cutanee generalmente benigne causate da un virus
potenzialmente oncogeno – ha prodotto esiti maggiormente
positivi rispetto alla terapia farmacologica, inducendo, in molti
casi, la scomparsa della lesione in maniera più o meno
definitiva. La questione dell’ipnosi – unitamente a
quella più ampia della suggestione – è stata
indagata anche in studi sugli effetti dei meccanismi di
autoguarigione, nella quale intervengono, oltre all’ipnosi,
importanti fattori, quali: cultura, risposte psicologiche (e
personalità), “rituali” tra paziente e medico e
idea che ci si fa circa la propria malattia (Marchese, 2014).
La
questione epigenetica è implicata anche nella genesi dei
disturbi mentali: le esperienze sono in grado di aggiungere o
rimuovere marcatori epigenetici, causando, così, anche
modifiche epigenetiche a lungo termine – come avviene, appunto,
in disturbi mentali come la depressione e la dipendenza (Nestler,
2012).
La
correlazione tra la dimensione psicologica e il vasto scenario delle
malattie fisiche è sicuramente molto estesa e complessa.
Merita, dunque, una trattazione dedicata.
Le
emozioni
Il
termine “emozione” deriva dal latino ex-movere,
che significa “spingere fuori”. Ogni elaborato di
pensiero produce un’idea, che a sua volta genera un’emozione
che – a seconda dei contenuti dell’idea prodotta –
può essere più o meno intensa. Quindi, in risposta a
stimoli esterni e/o pulsioni interne, avviene una vera e propria
accelerazione di energia mentale – per l’appunto,
l’emozione – che determina lo stato d’animo di ogni
individuo.
Esistono
tre tipi di emozioni:
Emozioni
semplici, che rimandano alle pulsioni di base utili
all’appagamento dei bisogni necessari indispensabili;
Emozioni
composite, che rimandano alle pulsioni a più alto
contenuto energetico utili all’appagamento di bisogni inerenti
alla propria realizzazione, e costituiscono i sentimenti
rappresentati da una base elaborativa logica e relazionale
(neutrergia) su cui aderisce l’elemento affettivo – che
può essere positivo (amore), negativo (ostilità e
rancore) o conflittuale (profondi contrasti interni che determinano
le psicosomatosi);
Emozioni
complesse, che rimandano ai pulstimoli.
Lo
scopo delle emozioni è quello di metabolizzare o scaricare
quelle tensioni energetiche attivate da stimoli, pulsioni e
pulstimoli. Sulla base di ciò, è possibile distinguere
due macrocategorie di emozioni: emozioni positive ed emozioni
negative o conflittuali. Quelle positive determinano gioia di vivere
se scaricate nel mondo interno, e contenuti di disponibilità,
gioia, gaiezza ecc. se scaricate nel mondo esterno. Quelle negative o
conflittuali determinano psicosomatosi, sudorazione, tachicardia,
tensione, pianto, riso “isterico”, ansia, melanconia,
depressione, angoscia ecc. se scaricate nel mondo interno (per
esempio, in caso di repressione), e fenomeni di tensione, collera,
violenza, ostilità ecc. se scaricate nel mondo esterno.
Le
emozioni non fanno parte del mondo consapevole – nel senso che
non possiamo provare un’emozione a comando – ma vengono
inconsapevolmente gestite dalla propria identità (Marchese,
2008).
Le basi
neurologiche dell’emozione
Diversi
Neuroscienziati – come G. Edelman o A. R. Damasio –
ritengono che la “coscienza nucleare” (che è alla
base di tutto) origini dal dialogo fra le microparticelle che
risiedono nel DNA degli atomi di neuroni e novreglia dei centri
nobili cerebrali. Queste informazioni vengono, poi, trasmesse alle
cellule degli apparati endocrino e immunitario per creare un
feedback, una comunicazione costante e biunivoca fra i tre sistemi –
nervoso, endocrino e immunitario. Questo processo fa sì che
un’estesa massa di cellule – nervose, endocrine e
immunitarie – si configuri in modo tale da creare le condizioni
per la realizzazione di un’identità strutturale in grado
di riconoscersi come entità a sé, rispetto all’ambiente
da cui provengono i segnali e le sollecitazioni. Si genera così
il mondo delle emozioni – avente come sede di partenza l’area
cerebrale talamo-corticale (Marchese, 2011).
Le
emozioni generano a livello sottocorticale, come risultato
dell’attività del sistema limbico, che è in grado
di influenzare la corteccia in termini di funzionalità.
L’amigdala – nel sistema limbico – produce gli
stati emozionali più intensi, a livello inconscio (Marchese,
2008).
Un
importante ruolo di coordinazione nella trasmissione e nella gestione
delle emozioni è rivestito dall’Ipotalamo (Marchese,
2004).
Stress
e malattia
Il
termine “stress” prende spunto dalla fisica, denotando la
forza che, agendo su un organismo, ne altera le caratteristiche.
Harvey (1968) sosteneva che «Qualsiasi sollecitazione della
mente sperimentata come dolore o piacere, come attesa o paura, è
causa di squilibrio psicosomatico la cui influenza si estende al
cuore». Il fisiologo Cannon considerava lo stress quell’insieme
di modificazioni fisiologiche – dette “reazioni
d’allarme” – dettate dalla percezione di situazioni
avverse (Compare, Grossi, 2012).
Diverse
patologie, anche fisiche, sembrano avere un’origine, o comunque
un importante determinante, di tipo mentale. Diviene, quindi,
importante comprendere in che modo un individuo risponde e si
confronta con certi stimoli ed eventi esterni. Al giorno d’oggi
sono ampiamente studiate tutte quelle emozioni negative che agiscono
in modo incisivo sul fisico (Bertini, 1999).
L’esposizione
allo stress è generalmente associata ad innumerevoli esiti
negativi, tra cui: decremento del benessere, maggior incidenza di
malattie, Disturbo d’Ansia Generalizzato, Depressione Maggiore
e Disturbo Post-Traumatico da Stress. Non tutte le persone, però,
sviluppano questi disturbi se esposte ad elevati livelli di stress.
Diversi individui, infatti, ricorrono alla resilienza, ossia alla
capacità di fronteggiare in maniera positiva gli eventi
traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita di fronte
alle difficoltà. La resilienza è, inoltre, quella
capacità di migliorare o mantenere la salute psichica di
fronte a situazioni stressanti, anche dopo eventuali brevi
interruzioni del normale funzionamento (Compare, Grossi, 2012).
Quindi, in situazioni stressanti ogni individuo cerca delle strategie
di risposta. Se i suoi sforzi falliscono, però, si instilla un
trauma in grado di rendere il soggetto vulnerabile nei confronti
della malattia – che sia psichica, somatica o entrambe. Col
passare del tempo, questo trauma può divenire cumulativo: il
vivere due malattie croniche invalidanti può causare
nell’individuo la sperimentazione di successivi microtraumi di
perdita della propria integrità corporea (Cavallero et al,
2010).
Lo
stress può giocare un ruolo molto rilevante in diverse
patologie, come quelle oncologiche, quelle somatiche, quelle
cardiache e via dicendo. Ad esempio, diversi studi hanno mostrato
come, stressando dei topi – dandogli scosse elettriche e
sottoponendoli a stress psicologici (per esempio, facendoli stare in
ambienti iperaffollati) – e successivamente iniettandogli
sostanze cancerogene in grado di sviluppare un tumore, i ratti del
gruppo sperimentale (con stress) sviluppavano molto più
rapidamente il tumore e con una modalità maggiormente
accelerata rispetto ai ratti del gruppo di controllo (senza stress)
(Bertini, 1999). È bene, però, precisare che le
innumerevoli ricerche svolte nel corso della storia sulla relazione
tra stress e cancro hanno prodotto risultati talvolta contraddittori
– senza contare gli evidenti limiti di molte di queste ricerche
(Saita, 2011). Per quanto riguarda i sintomi psicosomatici, essi
coinvolgono diversi apparati e sistemi corporei e forniscono una
risposta vegetativa a situazioni stressanti e di disagio psichico
(Compare, Grossi, 2012).
Se
da un lato è vero che eventi di vita stressanti possono
concorrere all’insorgenza di una patologia, d’altro canto
è vero anche che lo stress può conseguire dall’essere
malati (Cavallero et al, 2010). Prendiamo come esempio l’esordio
di una patologia cutanea, evidenziandone quello che gli Autori
chiamano “il flusso causale dalla pelle alla mente”.
Questa comporterà: l’alterazione dell’immagine
corporea (più grave in caso di lesioni visibili e nella zona
genitale), la compromissione del funzionamento sociale (più
grave in caso di ripercussioni sulle relazioni affettive intime),
cambiamenti indesiderati nello stile di vita, riduzione della qualità
della vita ed esperienze di stigmatizzazione. Di conseguenza, il
soggetto si troverà a provare emozioni autocoscienti
spiacevoli (vergogna, imbarazzo), tristezza, preoccupazione e
tensione. Il mancato miglioramento della patologia cutanea e il
perdurare della situazione, porteranno al consolidamento della
sofferenza emozionale (talvolta in un disturbo mentale
diagnosticabile). Un recente studio su pazienti affetti da psoriasi,
per esempio, ha suggerito l’affiorare di sintomi depressivi a
causa della compromissione della qualità della vita arrecata
da tale malattia (Compare, Grossi, 2012).
Lo
stress, però, non è sempre un qualcosa di negativo,
anzi: talvolta diviene effetto motivante all’attivazione di un
meccanismo d’azione volto alla realizzazione di un determinato
obiettivo. In questo caso, si parla di eustress o stress
acuto, ossia uno stress positivo e funzionale all’organismo.
Si differenzia dal distress o stress disfunzionale, in
cui lo stress da acuto diventa cronico, danneggiando le capacità
di adattamento individuali (Marchese, 2008; Compare, Grossi, 2012).
La
Psicologia della Salute
La
scienza psicologica si è occupata dei temi di salute e
malattia fin dalle sue origini, ma un vero e proprio spazio specifico
e un riconoscimento sociale della psicologia della salute si sono
potuti osservare solo più recentemente. Risale alla fine degli
anni Settanta il costituirsi della Divisione di Psicologia della
Salute dell’American Psychological Association, volta a
considerare «[…] l’insieme degli specifici
contributi educazionali, scientifici e professionali [destinati] alla
promozione e al mantenimento della salute, alla prevenzione e al
trattamento della malattia, all’identificazione dei correlati
eziologici e diagnostici della salute, della malattia e delle
disfunzioni ad essa connesse», occupandosi inoltre «[…]
dell’analisi e del miglioramento del sistema assistenziale e
della formazione in campo di politica sanitaria» (Matarazzo,
1980, 1982; Saita, 2011).
In
Italia, solo nel 1997 si è costituita la Società
Italiana di Psicologia della Salute (S.I.P.Sa.), col proposito di
promuovere la salute in un’ottica di benessere complessivo
della persona, all’interno del vasto contesto socio-ecologico.
Questo significa che l’attenzione dev’essere
necessariamente rivolta alla tutela della salute come diritto di ogni
individuo e come interesse della collettività, e al benessere
della persona anche in condizioni di malattia (Saita, 2011).
BIBLIOGRAFIA
Annesi,
F. (2009). Lo stile di vita adottato. La Strad@ web magazine.
Bertini,
M. (1999). Psicologia della salute. Cooperativa
Cattolico-Democratica di Cultura (CCDC), 1-10.
Carta
di Ottawa per la Promozione della Salute (Ottawa Charter for Health
Promotion) (1986).
Cavallero,
P., Martignoni, E., Ferrari, M.G., Grassi, M., Bertocci, B. (2010).
Stati d’animo in persone con malattie croniche. Psychofenia,
13 (23).
Cicognani,
E. (2000). Il benessere soggettivo: natura e determinanti. In:
Braibanti, P. (a cura di), Pensare la salute. Milano: Franco
Angeli.
Compare,
A., Grossi, E. (2012). Stress e disturbi da somatizzazione.
Evidence-Based Practice in psicologia clinica.
Springer.
Gureje,
O., Von Korff, M., Simon, G.E., Gater, R. (1998). Persistent
pain and well-being: a World Health Organization Study in Primary
Care. Jama,
280(2), 147-51.
Kahneman,
D., Diener, E., Schwarz, N. (1999). Well-being: The foundations of
hedonic psychology. New York, NY, US: Russell Sage Foundation.
Keyes,
C. L. M. (1998). Social well-being. Social
Psychology Quarterly, 61(2),
121-140.
Majani,
G. (1999). Introduzione alla psicologia della salute. Erickson.
Marchese,
G. (2003). L’età biologica e la buona salute. La
Strad@ web magazine.
Marchese,
G. (2004). Ipotalamo, ipofisi e sistema neurovegetativo. La
Strad@ web magazine.
Marchese,
G. (2008). Sua maestà…l’emozione! La Strad@
web magazine.
Marchese,
G. (2011). Psicoterapia, personalità, epigenetica. La
Strad@ web magazine.
Marchese,
G. (2014). La mente e i tumori. La Strad@ web magazine.
Matarazzo,
J.D. (1980). Behavioral health and behavioral
medicine: Frontiers for a new health psychology. American
Psychologist, 35, 807-817.
Matarazzo,
J.D. (1982). Behavioral health’s challenge to academic,
scientific, and professional psychology. American
Psychologist, 37, 1-14.
Midtgaard,
J., Rorth, M., Stelter, R., Adamsen, L. (2006). The group matters:
an explorative study of group cohesion and quality of life in cancer
patients participating in physical exercise intervention during
treatment. European Journal of Cancer
Care, 25-33.
Molinari,
E., Compare, A., Parati, G. (2007). Mente e cuore - Clinica
psicologica della malattia cardiaca. Springer.
Nestler,
E.J. (2012). Il codice epigenetico della mente. Le Scienze.
Pirandello,
L. (1937). Novelle per un anno. Newton Compton.
Ryff,
C.D. (19898). Happiness
is everything, or is it? Explorations on the meaning of
psychological well-being. Journal
of Personality and Social Psychology, 57(6),
1069-1081.
Saita,
E. (2011). Pensare alla salute e alla malattia. Legami tra mente,
corpo e contesto di appartenenza. EDUCatt
Università Cattolica.
Spilker,
B. (1996). Quality
of Life and Pharmacoeconomics in Clinical Trials. Lippincott-Raven,
Philadelphia, 1-11.
Thornton,
A.A.,
Perez,
M.A.,
Meyerowitz,
B.E. (2004). Patient
and Partner Quality of Life and Psychosocial Adjustment Following
Radical Prostatectomy. Journal
of Clinical Psychology in Medical Settings,
11, 15-30.
Tomich,
P.L., Helgeson, V.S. (2006). Cognitive
adaptation theory and breast cancer recurrence: Are there limits?.
Journal of Consulting and Clinical
Psychology, 74(5), 980-987.
Zani,
B., Cicognani, E. (1999). Le vie del benessere. Roma:
Carrocci.
Dott.ssa
Liliana Cimmarrusti - SFPID
2° ANNO DI SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE BARI
|