Introduzione
Il
dibattito riguardo l’influenza reciproca tra mente e corpo,
nonché, in una rilettura più attuale, tra geni e
ambiente, ha caratterizzato per secoli la letteratura filosofica
prima, medica e psicologica poi. A tutt’oggi, le informazioni
relative all’eziologia di una malattia/disturbo, non sono note
nella loro totalità; già da tempo, in psicologia, come
nella medicina, è stato superato il dualismo cartesiano
mente-corpo, per approdare ad una prospettiva olistica dell’uomo
nella sua interezza, come risultato indissolubile del complesso
intreccio tra psiche e soma, che si interdeterminano.
I
modelli di riferimento, partendo dalla netta contrapposizione dei due
estremi, influenze ambientali versus
predisposizione
ereditaria, si sono spostati verso una graduale integrazione;
l’avvento delle neuroscienze e della genetica del
comportamento, così come delle tecniche di neuroimaging e
mappatura genomica, ha permesso l’elaborazione di un modello di
interconnessioni complesse, dove la trasposizione del genotipo in
fenotipo non è un’equazione perfettamente determinata,
ma comprende una serie di sfumature, relative all’espressione
di più endofenotipi, intesi appunto come sottostrutture in
grado di influenzare la manifestazione di tratti complessi.
Non
solo, i meccanismi di controllo dell’espressione genica sono
stati collegati da numerosi studi all’influenza ambientale, in
un’ottica di sovra-controllo da parte dei vissuti psicologici,
determinati dall’ambiente relazionale, sulle strutture
genetiche e fisiologiche: l’epigenetica. Il dizionario di
medicina dell’enciclopedia Treccani, definisce l’epigenetica
come: “Studio delle modifiche chimiche a carico del DNA […].
Tali modifiche regolano l’accesso dei fattori di trascrizione
ai loro siti di legame sul DNA e regolano in modo diretto lo stato di
attivazione funzionale dei geni. Poiché l’esperienza
ambientale modula i livelli e la natura dei segnali epigenetici, essi
sono considerati fondamentali nel mediare la capacità
dell’ambiente di regolare il genoma. L’epigenetica svolge
un ruolo fondamentale in tutti i processi di riorganizzazione o
ristrutturazione neurale, compresi quelli che presiedono alla
plasticità cerebrale.” E’ dunque evidente come
tale visione implichi un allontanamento dalla “condanna”
dell’ereditarietà indiscutibile di alcune patologie,
mediche come psichiche, ma, dall’altro, implichi un’assunzione
di responsabilità dal punto di vista dell’ambiente,
soprattutto relazionale e socio-culturale, come potenziale
facilitatore dello sviluppo della patologia o della capacità
di resilienza.
In
particolare, nel presente lavoro verrà esaminato il ruolo
delle cure parentali precoci, nonché delle deprivazioni delle
stesse, nelle modificazioni anatomo-fisiologiche e comportamentali;
verrà inoltre preso in esame il ruolo della Psicoterapia,
intesa, al di là delle specifiche tecniche, come campo
bi-personale e relazionale, volto a sostenere e comprendere l’altro,
nella strutturazione e modifica delle basi biologiche del
comportamento.
Geni
o ambiente?
Come
accennato, il concetto di eziopatogenesi di un determinato disturbo,
si collega strettamente a quello di plasticità neuronale, sul
quale molto è stato scritto (si veda soprattutto Kandel,
1998). Dunque a determinare l’insorgenza, concorrono
numerosissimi fattori, che, interagendo, possono portare a differenti
esiti: “no major psychiatric illness is because of a single
gene, and even multiple risk genes inherited simultaneously do not
seem sufficient to create a psychiatric illness. The
environment […] can powerfully impact on epigenetics, that
determines whether any given gene is actually made into its gene
product or not” (Stahl, 2011, p. 250)
Fattori
genetici: eredità multifattoriale
Per
quanto riguarda la trasmissione intergenerazionale di fattori di
rischio genetici, al contrario di quello che comunemente si potrebbe
pensare, nella maggior parte dei casi non esiste una matematica
corrispondenza tra presenza di un gene predisponente e sviluppo della
patologia sottostante. Si parla infatti di eredità
multifattoriale, ossia quella in cui un fenotipo deriva dalla
interazione tra fattori genetici e fattori ambientali, determinando
cioè tratti complessi; la componente genetica è
rappresentata da più geni, che vengono definiti geni di
suscettibilità, mentre i fattori ambientali agiscono come
fattori scatenanti o protettivi, che possono “accendere”
o far rimanere silente uno o più di questi geni di
suscettibilità (Fig. 1). E’ possibile dunque asserire
che nell’eziologia di patologie multifattoriali quali tumori,
malattie cardiovascolari, diabete, asma e malattie di interesse
neuro-psico-comportamentale (depressione, morbo di Alzheimer,
autismo, schizofrenia, anoressia, ecc.), siano coinvolti sempre
numerosi geni, con differenti varianti; tali varianti di uno stesso
gene non sono mutazioni, bensì polimorfismi, infatti:
mutazioni:
incidenza sulla popolazione inferiore al 1%. Causano direttamente la
patologia;
polimorfismi:
Non causano direttamente la patologia, ma regolano la suscettibilità
dell’individuo.
E’
dunque di maggiore o minore suscettibilità o capacità
di resilienza che si deve parlare in questi casi.
Fig.
1 – Interazione di fattori genetici ed ambientali nella
determinazione di alcune patologie
Fattori
ambientali predisponenti
Le
evidenze fornite dalla psicoimmunologia ci suggeriscono dunque che
potremmo non solo combattere la malattia, ma anche prevenirne
l’insorgenza, utilizzando le risorse interiori, e agendo a
livello psicologico per potenziare la nostra capacità di
difesa; l’ambiente socio-relazionale, così come l’assetto
mentale, giocano un ruolo predominante per la facilitazione o la
protezione da numerose patologie: laddove un polimorfismo genetico
sia presente, i fattori ambientali possono aiutarci nella prevenzione
oppure confermare previsioni poco rosee; una persona che goda di
“serenità mentale”, o che abbia un ambiente
socio-relazionale favorevole, ha probabilità molto inferiori
di ammalarsi. La nostra attitudine mentale ed i nostri pensieri
influenzano la fisiologia e modulano la nostra espressione genica, ad
esempio tramite l’induzione o l’inibizione della
proliferazione delle cellule staminali immunitarie.
Fig.
2 – Interazioni reciproche tra mente, sistema nervoso,
endocrino ed immunitario
Un
esempio noto di come l’assetto mentale influisca sulla salute
psicofisica sono le patologie stress-correlate. Lo stress, è
stato definito per la prima volta nel 1936 dal medico austriaco Selye
come: “la risposta non specifica dell’organismo ad ogni
richiesta effettuata ad esso” (Selye, 1936, p. 30-32.); si
evince dunque come una piccola dose di stress, definita eustress,
possa essere funzionale in situazioni in cui il nostro corpo (e la
nostra mente) percepiscono il bisogno di superare una sfida.
Tuttavia, l’accezione negativa della parola stress, è
correlata a quegli eventi che conducono ad una continuativa e stabile
alterazione dell’omeostasi corporea, si parlerà allora
di distress.
Ciò avviene secondo fasi progressive:
reazione
d’allarme
fase
di resistenza
fase
di esaurimento
Le
prime due fasi rientrano nella risposta adattiva alle richieste
ambientali, comportano l’attivazione dell’asse
ipotalamo-iposfi-midollare del surrene (Fig. 3), che porta alla
produzione di peptidi come l’adrenalina, noti per facilitare
l’aumento delle capacità di resistenza e di superamento
di una sfida. Al contrario, la terza fase, se prolungata, attiva la
corticale del surrene, che conduce, alla produzione di
glucocorticoidi, quali il cortisolo (Fig. 4), una molecola che può
diventare citotossica, conducendo a sintomi quali:
Fig
3 – Risposta del tipo “eustress”
Fig.
4 – Risposta di tipo “distress”
Il
sistema immunitario si avvale di numerose proteine funzionali, quali
linfociti B, linfociti T, immunoglobuline, cellule natural killer,
proteine del complemento, ecc., che riconoscono i microrganismi, le
sostanze e le cellule mutanti presenti nel nostro corpo e ci aiutano
a sconfiggerle, ripristinando l’equilibrio dell’organismo.
E’
dunque evidente come un ambiente stressogeno possa predisporre
all’insorgere di altre patologie, proprio a causa
dell’influenza negativa che la risposta fisiologica allo stress
ha sul sistema immunitario. Infatti, lo stress acuto, fisico e/o
psicologico:
amplifica
la produzione di adrenalina e cortisolo, che sopprimono le cellule T
e riducono le immunoglobuline, diminuendo quindi la capacità
responsiva del sistema immunitario e facilitando la comparsa di
patologie.
porta
ad un maggiore rischio di malattie cardiovascolari, osteoporosi,
artrite, ecc.
a
lungo andare, lo stress logora le ghiandole surrenali, portando
squilibri nei sistemi endocrino ed immunitario, soprattutto nei
livelli di cellule T e B.
a
volte la risposta allo stress diventa resistente agli effetti del
cortisolo, innescando una reazione a catena che promuove gli stati
infiammatori e sregola ulteriormente il sistema immunitario.
danneggia
i meccanismi di controllo dell’espressione genica, come la
metilazione, interferendo con la produzione delle proteine che
bloccano le mutazioni genetiche; può quindi ridurre la
produzione di cellule T e stimolare invece la formazione di
auto-anticorpi, responsabili delle malattie autoimmuni.
Acquisire
dunque adeguate strategie di coping, per far fronte alle situazioni
di distress, potrebbe contribuire significativamente ad un più
veloce quanto favorevole recupero dopo le fasi acute. Purtroppo,
spesso, soggetti che hanno esperito ambienti relazionali stressanti
e/o situazioni traumatiche sin dalla prima infanzia, (come vedremo
più avanti), tendono a mettere in atto sempre le stesse
strategie difensive dallo stress, a interiorizzare modelli di
comportamento che non proteggono, ma in alcuni casi rendono più
vulnerabili, nonché a subire modifiche anatomofisiologiche a
lungo termine (Fig. 5), in grado di influenzare la capacità di
risposta adattiva, così come l’epigenetica. Rajita
Sinha, docente di Psichiatria e direttore dello Yale stress center,
ha confrontato tramite fMRI le diverse risposte allo stress dei
soggetti esposti a stressors, rispetto al gruppo di controllo,
esposto a stimoli neutri; la corteccia prefrontale ventromediale
(VmPFC) è risultata essere il principale network di gestione
delle risposte allo stress, inoltre in soggetti che mostravano un più
elevato tasso di burn
out,
è stata riscontrata una ipoattività di quest’area,
a discapito appunto della capacità di gestione dello stress,
rispetto a chi riusciva a mettere in atto strategie di coping
adattive.
“Higher
levels of neuroflexibility in this area of the brain helped predict
those who would regain emotional and behavioral control during
stress. The VmPFC seems to be the area of the brain which mobilizes
to regain control over our response to stress.”
(Sinha,
2016, p. 8841).
Fig.
5 – Cambiamenti emodinamici nella corteccia prefortale
ventromediale, in differenti risposte
allo
stress, adattiva versus disadattiva (Sinha,
2016)
Ma
cosa ci rende maggiormente vulnerabili ad una tale risposta?
La
rete di relazioni che ci circonda può costituire un supporto
nei momenti di maggiore vulnerabilità, così come agire
a monte, strutturando nell’individuo una maggiore capacità
di resilienza, contribuendo alla prevenzione o, al contrario, alla
predisposizione verso una particolare patologia. Partendo dalla
psicoanalisi, i successivi filoni, annoverati all’interno della
grande famiglia della Psicologia Dinamica, hanno esaminato
l’influenza dell’ambiente relazione sulla strutturazione
della personalità dell’individuo, includendo in questo
caso all’interno della definizione ampia di personalità,
anche le risorse necessarie a resistere agli eventi stressanti;
sottolineando come il modo in cui le relazioni, soprattutto quelle
precoci con le figure genitoriali, influenzano tanto il mondo
interiore, quanto quello relazionale dell’individuo. Le teorie
delle relazioni oggettuali, tra i cui principali esponenti troviamo
John Bowlby, Melanie Klein, Donald Winnicott, e, successivamente
anche Wilfred Bion, hanno dimostrato come le primissime interazioni
del bambino con la madre, (il caregiver
in
generale), che proprio Bowlby denominò figura di attaccamento,
costituiscano il modello su cui l’individuo strutturerà
tutte
le future relazioni della sua vita.
Un
caregiver
“sufficientemente buono”, allora, permette al bambino di
strutturare il proprio sé, interiorizzare un oggetto
rassicurante che aiuti a tollerare le separazioni, di sviluppare la
fiducia nel prossimo, di saper contenere e gestire le proprie
angosce, in pratica fornisce le basi per una sana relazionalità
ed una personalità integrata.
Al
contrario, traumi disorganizzatori quali separazioni precoci,
caregiver spaventati-spaventanti, abusi emotivi e/o fisici, o,
semplicemente, un mancato rispecchiamento emotivo tra madre e
bambino, contribuiscono assieme ad ulteriori fattori (ad esempio
un’educazione estremamente rigida ed autoritaria, critiche,
giudizi, svalutazioni, umiliazioni, incuria ecc.) a minare le
fondamenta della personalità dell’individuo,
strutturando un prototipo disfunzionale di sé e delle
relazioni con l’altro. Come sempre, non esiste una netta
causalità, infatti, così come in medicina, la presenza
di un pool genetico che codifica per una determinata malattia, nella
maggior parte dei casi ha bisogno anche di fattori ambientali
specifici per attivarsi e manifestare i sintomi, allo stesso modo un
attaccamento insicuro o disorganizzato e/o i fattori sopracitati, non
conducono matematicamente ad un disagio psichico, tuttavia ne
aumentano notevolmente le probabilità. La mente, quindi, che
influenza ed è influenzata dal corpo, si forma attraverso
l’interazione continua tra processi neurofisiologici interni ed
esperienze interpersonali “al
punto che anche brevi episodi di deprivazione materna hanno effetti
neuroendocrini significativi sulla capacità di reagire a
successivi eventi stressanti” (Mucci,
2014, p. 24). Ancora:
“nelle interazioni tra il bambino e la persona che
principalmente si prende cura di lui, quest’ultima fornisce
esperienze che modellano il potenziale genetico del bambino, agendo
come regolatori (o disregolatori) psicobiologici di ormoni che
influenzano direttamente la trascrizione genica […] dando
origine a effetti permanenti a livello genomico […].”
(Schore,
1997, p. 598);
anche
Siegel, psichiatra, statunitense, con le sue ricerche ha confermato
il ruolo peculiare delle relazioni precoci nello sviluppo delle
capacità di resilienza e prevenzione dei disturbi psico-fisici
e nel controllo dell’espressione genica: “[…] il
mondo sociale rappresenta la fonte principale delle esperienze che
influenzano l’espressione genetica […] i cambiamenti
indotti a livello della trascrizione delle informazioni genetiche
provocano modifiche strutturali delle cellule nervose e plasmano la
mente relazionale” (Siegel, 1999, p. 19). Studi cross-specie
hanno evidenziato come sia nei ratti che negli esseri umani, la
vicinanza della madre durante i primi periodi di vita, appare come un
fattore determinante per modulare nella prole le risposte apprese
alle situazioni ambientali;
in
particolare, è stato riscontrato sia nei ratti che nella
sperimentazione umana come a seguito di ripetute esposizioni a
fattori stressanti, i livelli di cortisolo (CORT) ritornassero
repentinamente alla normalità se i soggetti interagivano con
la madre o con un congiunto (anche solo per telefono, nel caso dei
soggetti umani) immediatamente dopo l’esperienza stressogena,
rispetto al gruppo di controllo che non interagiva con nessuno e
presentava livelli alterati per un lungo periodo di tempo (Callaghan
et al., 2016).
Quindi
la vicinanza di una figura di riferimento, non solo protegge da una
eccessiva risposta fisiologica allo stress, ma, in caso essa avvenga,
aiuta a ritornare ai livelli omeostatici, prevenendo danni a lungo
termine. Studi sui ratti hanno dimostrato inoltre come le cure
materne precoci influiscano sui meccanismi di controllo genico, in
particolare sulla metilazione del DNA, producendo un effetto
protettivo rispetto allo stress esperito; in particolare, si è
osservato che i ratti che avevano ricevuto molte cure materne ed
avevano, perciò, un basso grado di metilazione dei geni
afferenti al recettore per i glucocorticoidi (come il cortisolo)
sviluppavano, con l’aumento della metilazione del gene, lo
stato ed il comportamento di ipersensibilità allo stress
tipico degli animali trascurati nelle fasi precoci dello sviluppo. Al
contrario, nei ratti che hanno ricevuto cure intense e frequenti, il
gene promotore dei recettori ippocampali appare ipometilato, dunque
maggiormente “attivo”. (Weaver et al., 2005). Ulteriore
scoperta innovativa, i risultati degli esperimenti di questa ricerca
suggeriscono che i meccanismi enzimatici di metilazione e
de-metilazione possano essere attivati anche nei neuroni del cervello
adulto. Questa possibilità potrebbe aprire la strada per una
migliore comprensione del substrato biologico delle patologie
psichiche da stress, e condurre la ricerca terapeutica verso più
significativi progressi.
Cosa
avviene se l’ambiente relazionale è totalmente
sfavorevole?
E’
ormai noto come il rapporto madre – bambino durante i
primissimi momenti di vita, in particolare almeno durante tutto il
primo anno, costituisca il fondamento delle future capacità
del bambino di modulazione, gestione, comprensione, riconoscimento ed
interpretazione degli stati emotivi propri e altrui, la cosiddetta
funzione riflessiva e, in seguito, capacità di
mentalizzazione; il bambino, guarda e comprende se stesso attraverso
gli occhi della madre, la quale rimanda a sua volta al figlio le
emozioni e gli stati mentali condivisi, in una forma per lui
maggiormente accettabile. Questo processo, definito dallo
psicoanalista britannico Bion rêverie,
permette al bambino non solo di contenere le proprie angosce,
apprendere a modulare le informazioni emotive, riconoscere i propri e
gli altrui stati mentali, ma anche di fare propria la capacità
di “bonifica emozionale” della madre, fino a non aver più
bisogno di lei per assolvere a tale funzione; con le parole di Bion,
il bambino interiorizza la funzione
alfa
della madre.
Se
ciò non avviene, a causa di un mancato rispecchiamento del
bambino nella madre, ne risentirà anche la possibilità
di quest’ultimo di far propria la funzione alfa, e quindi delle
carenze (tra le altre) nelle capacità di cognizione emotiva,
nell’empatia, oltre che nello sviluppo del sé. Non solo,
numerosi studi hanno dimostrato come l’esposizione infantile a
situazioni di deprivazione, nonché di abuso psicologico e/o
fisico, producano modificazioni anatomo-fisiologiche permanenti; tali
squilibri non affliggono solo il diretto destinatario, ma si
tramandano spesso in maniera intergenerazionale, sottoforma di stili
di attaccamento non sicuri, e fungono da fattori predisponenti alla
psicopatologia e ad ulteriori traumi: “Laddove
una figura di cura abbia sviluppato una condizione mentale di
dissociazione in rapporto a traumi o esperienze di perdita non
elaborati, può manifestare una specifica difficoltà a
prestare un’attenzione flessibile agli stati affettivi del
figlio, bloccando sul nascere la capacità di modulare e
regolare gli affetti negativi. Questo comportamento andrebbe a
confermare l’ipotesi […] relativa alla trasmissione
intergenerazionale delle strategie di accadimento.”
(Cavanna, 2007, p. 11).
Dunque,
traumi disorganizzatori non risolti nel caregiver, danno luogo a
stili di attaccamento non sicuri, che predisporranno anche il bambino
ad una maggiore vulnerabilità alle patologie, sia dal punto di
vista dell’espressione genica, sia da quello
anatomo-fisiologico che relazionale. Prove di ciò sono
riscontrabili anche nel recente lavoro di Schechter et al. (2017):
“This paper support the notion that violent trauma beginning in
infancy and early childhood leave epigenetic signature on a
serotonine receptor gene that has been shown to be implicated in the
regulation of emotion and aggression, namely, HTR3A. This
[…] corresponds to a number of maternal psychopathology”.
Ciò
che maggiormente acuisce la già dimostrata gravità
degli effetti di un ambiente sfavorevole, è quindi la
trasmissione intergenerazionale degli stili genitoriali; non solo il
bambino assumendo a proprio modello le figure di riferimento,
tenderà, seppur con le dovute eccezioni, a riprodurre uno
stile relazionale simile con i propri figli, ma, avendo subìto
i cambiamenti neuro-fisiologici sopracitati (tra gli altri), non avrà
la possibilità di assolvere a pieno alla funzione riflessiva e
alla rêverie,
risultando
indisponibile per l’apprendimento emotivo del futuro figlio.
Inoltre,
nei casi più gravi di abuso fisico (oltre che psicologico), la
vittima interiorizza un “nucleo aggressivo” indigeribile,
che dovrà necessariamente evacuare sull’altro, al fine
di liberarsene, almeno momentaneamente, quello che Fonagy e Target
(2001) definiscono Sé alieno (Fig. 6); questo meccanismo
sarebbe alla base della coazione a ripetere il trauma (enactment), ad
esempio nei criminali: “Van der Kolk ha studiato come il trauma
sia ripetuto a livello comportamentale, emotivo, fisiologico e
neuroendocrino. […] i criminali spesso sono infatti stati
abusati da bambini o hanno sofferto forme estreme di
traumatizzazione.” (Mucci, 2014, p.93).
Fig.
6 – Evoluzioni normali e patologiche del Sé secondo
Fonagy e Target, 2001
I
comportamenti aggressivi in questi soggetti, inoltre, abbassano i
livelli di stress, producono a livello neurobiologico oppiacei
endogeni che, in casi estremi, possono causare dipendenza,
perpetrando il circolo della tendenza a replicare il trauma
interiorizzato, con la differenza che in questi casi, il ruolo di
vittima iniziale viene ribaltato, diventando il carnefice (Van Der
Kolk, 1989). Ancora, avendo i soggetti traumatizzati una scarsa, se
non nulla, capacità di tollerare le frustrazioni, nonché
un perenne stato alterato di vigilanza (iperarousal), in momenti di
stress tendono a ripetere comportamenti familiari a prescindere dal
vantaggio che ne possono trarre, poiché comportamenti nuovi
provocherebbero ancora più ansia, dunque replicano ciò
che hanno interiorizzato.
In
un recente studio (2017) Miller e colleghi hanno esaminato i circuiti
neurali coinvolti nel rispecchiamento emotivo madre-bambino, notando
come la iper o ipoattivazione di determinate aree nelle madri,
influisca
sullo
sviluppo degli stessi circuiti nel figlio, perpetrando così il
circolo di indisponibilità emotiva e alterando il sistema di
attaccamento. In particolare, madri con attaccamento insicuro
presentano una iperattivazione della corteccia prefrontale dorso
laterale (dlPFC) e dell’insula anteriore, coinvolte nella
valutazione negativa degli stimoli ambientali e nell’empatia,
laddove una eccessiva attivazione di queste aree porta a risposte
emotive eccessive ed incongruenti, nonché a disgusto e
vergogna in situazioni di interazione sociale; i soggetti mostrano
inoltre una ipoattivazione dello striato ventrale, coinvolto nella
percezione del piacere e della motivazione. Lo studio prosegue
esaminando tramite risonanza magnetica funzionale i figli delle madri
classificate come insicure, notando l’ipoattivazione di aree
come la corteccia orbito frontale(OFC), quella ventromediale (vmPFC)
e i gangli della base (BG), preposte alle risposte empatiche, al
riconoscimento delle emozioni tramite le espressioni facciali, alla
gestione degli stimoli ambientali e all’attribuzione di
significati (Fig. 7). Pertanto la comunicazione implicita tra queste
madri e i loro figli, si esplica maggiormente tramite vie di
attivazione di tipo cognitivo, che non emotivo, provocando carenze a
livello anatomofisiologico nei circuiti neurali filiali.
Fig.
7 – dimostrazione della trasmissione intergenerazionale di
circuiti neurali, recanti un modello
di
mancata sintonizzazione emotiva, (Miller, 2017)
Rompere
il circolo
A
questo punto del discorso, la prospettiva appare quasi ribaltata;
sembra che l’ambiente relazionale sfavorevole possa addirittura
influire maggiormente sull’esito di determinate patologie di
quanto non facciano i geni. Ciò è parzialmente vero:
innanzitutto, i fattori predisponenti precedentemente esaminati si
riferiscono prevalentemente a patologie di matrice
neuro-psico-comportamentale, in secondo luogo tuttavia, è
evidente come sia la psiche a determinare la chimica del sistema
nervoso, molto più di quanto non accada viceversa, dunque, un
ambiente negativo e predisponente, sebbene agisca massivamente
sull’eziologia di patologie psicologiche, risulta essere
determinante anche in disturbi considerati erroneamente di natura
esclusivamente organica.
Come
intervenire?
Effetti
psicofisiologici e comportamentali della relazionalità
positiva: la psicoterapia
Gli
effetti a lungo termine delle circostanze ambientali avverse sopra
analizzate, non sono da considerarsi necessariamente irreversibili.
Acquisire stili di vita volti alla resilienza, relazioni positive,
tecniche come il training autogeno e la meditazione, ma soprattutto
interventi di psicoterapia, possono influire positivamente sulle
strutture cerebrali, contribuendo a rimodulare il rischio e la
prognosi di una patologia. Numerosi ostacoli si pongono davanti al
lavoro con pazienti traumatizzati (intendendo qui come trauma, tutte
le sfumature sopracitate, a partire da neglect e trascuratezza
emotiva da parte dei caregiver, fino ad arrivare all’abuso
psicologico e fisico): innanzitutto, spesso persone con una storia di
abuso e deprivazione non conoscono altre modalità relazionali,
per cui tendono a considerare nella norma il loro modo di comportarsi
con il prossimo, soprattutto perché, come accennato, proprio a
causa di una mancata sintonizzazione emotiva, non hanno raggiunto un
livello di autoconsapevolezza e auto osservazione tale da mettere in
discussione sé stessi e i propri comportamenti. Spesso quindi,
maggiormente nei casi più gravi, come nei disturbi di
personalità Borderline, ma soprattutto Narcisistico e
Antisociale, i pazienti approdano ad una terapia solo se obbligati
dalle circostanze o dalle autorità. In secondo luogo, anche in
casi meno conclamati, le carenze affettive infantili sono soggette a
oblio; a maggior ragione gli avvenimenti traumatici, che, essendo
immagazzinati in memoria sottoforma di stimoli pre-verbali, sono
estremamente difficili da tradurre in ricordi autobiografici. In un
esperimento, Rauch e colleghi (1996) hanno sottoposto a PET un gruppo
di pazienti affetti da DPTS, mentre ascoltavano delle descrizioni
dettagliate e vivide di eventi di violenza e abuso domestico; hanno
rintracciato una iperattivazione dell’amigdala, la quale
inibisce l’ippocampo, responsabile della memoria, e una
diminuita attivazione dell’area di Broca (aree 44 e 45 di
Brodman) preposta alla produzione del linguaggio, rispetto al gruppo
di controllo, esposto a letture neutre. Ciò ha comprovato
l’ipotesi che i ricordi traumatici siano meno legati alla
memoria cosciente rispetto ad altri, e soprattutto la conseguente
difficoltà di tradurli in linguaggio. E’ comprensibile
dunque come possa risultare difficile il lavoro di rievocazione,
elaborazione e superamento del trauma, anche in un percorso di
psicoterapia. Scopo principe del lavoro terapeutico, tra gli altri, è
fornire un modello relazionale differente da quello appreso in
infanzia, permettendo che tra terapeuta e analizzando si instauri la
già citata rêverie,
al fine di supplire alle carenze esperite in tal senso dal paziente.
Come precedentemente osservato (Fig. 7), la diade madre-bambino
disfunzionale tende a strutturare una comunicazione implicita di tipo
cognitivo, più che emotivo; il ruolo principale della terapia,
allora, può essere quello di lavorare sulla conoscenza
relazionale implicita, che, tradotto in termini neurofisiologici, è
mediata dalle comunicazioni sottosoglia di consapevolezza tra
amigdala destra del paziente e amigdala destra del terapeuta (Schore,
2011). Già Kandel, neurologo e psichiatra, premio nobel per la
medicina nel 2000, aveva asserito che la psicoterapia, attraverso
l’apprendimento di nuovi modelli di pensiero e comportamento,
producesse modifiche nell’espressione genica, che alterano la
forza delle connessioni sinaptiche, causando modifiche strutturali
nel cervello. Numerose
sono infatti le evidenze degli effetti neurobiologici della
psicoterapia: “Research findings suggest that the brain
responds to environmental influence through the alteration of gene
expression; that psychotherapy has specific measurable effects on the
brain; and that implicit memory may be modified by psychotherapeutic
interventions.”
(Gabbard,
2000, p. 117). Miller e colleghi (2017) hanno esaminato gli effetti
neurobiologici di diverse tecniche di psicoterapia, riscontrando in
tutti i casi dei miglioramenti nella regolazione dell’attivazione
delle aree preposte al riconoscimento, alla gestione e alla
verbalizzazione delle emozioni (Fig 8 e 9).
Fig.
8 – Effetti anatomofisiologici della Psicoterapia
Psicodinamica, (Miller, 2017)
Fig.
9 – Effetti anatomofisiologici della psicoterapia
cognitivo-comportamentale, (Miller, 2017)
Ancora,
Stahl e colleghi (2012) e Furmark et al. (2002) hanno comparato gli
effetti neurobiologici della psicoterapia con quelli di sostanze
psicoattive (cannabinoidi e inibitori selettivi del reuptake della
serotonina), utilizzate nel trattamento di alcune patologie
neuro-psico-comportamentali, riscontrando similarità nelle
aree cerebrali bersaglio (prevalentemente l’amigdala), nonché
un maggior effetto a lungo termine dovuto alla psicoterapia rispetto
al farmaco (Citalopram –
(RS)-1-[3-(dimetilammino)propil]-1-(4-fluorofenil)-1,3-diidroisobenzofuran-5-carbonitrile).
Cosa
determina allora il cambiamento?
La
maggior parte delle patologie psicologiche trattate, comprende, tra
le altre, alterazioni significative nell’emisfero destro del
cervello, coinvolto nella compito di integrare e rendere consci
stimoli non consapevoli, provenienti da diverse aree sotto-corticali,
tra cui alcune coinvolte nella reazione emotiva agli stimoli
avversivi: “Questo fallimento nell’integrazione tra
emisfero destro di livello superiore e inferiore e la disconnessione
del sistema nervoso centrale dal sistema autonomo inducono un
istantaneo collasso della soggettività e
dell’intersoggettività. Gli affetti stressanti, in
special modo quelli associati a dolore emotivo, non vengono quindi
esperiti nella consapevolezza” (Schore, 2011, p XXXII).
Ritornano
allora le parole di Freud sul rendere conscio l’inconscio, come
scopo peculiare del lavoro psicoanalitico, rivisitate ora alla luce
delle neuroscienze, che evidenziano come il solo contatto con un
altro potenzialmente “buono”, possa, tramite la suddetta
comunicazione sottosoglia tra emisferi destri, l’interscambio
di contenuti e la condivisione della relazione, riparare, almeno in
parte, i danni anatomofisiologici occorsi. I recenti risultati di
ricerca concordano nell’asserire che la psicoterapia apporti
dei significativi cambiamenti nell’attività funzionale
del cervello e che tali cambiamenti cerebrali correlino positivamente
con un significativo miglioramento clinico dei soggetti, perciò,
nei soggetti in cui alla fine di un periodo di trattamento
psicologico/psicoterapeutico si osserva una significativa riduzione
dei sintomi clinici, è rinvenibile un cambiamento
dell’attività funzionale del cervello (Wykes, 2002).
Gli
studi di imaging sulla psicoterapia, i modelli animali ed umani della
relazione tra geni ed ambiente, gli studi genetici sulla personalità
e le ricerche sulla memoria, stanno certamente aprendo la strada ad
una nuova comprensione delle caratteristiche biologiche della
psicoterapia.
A
questo proposito, LeDoux, ha proposto che la pratica psicoterapica
possa essere un modo di riorganizzare l’assetto delle
connessioni cerebrali: produrrebbe infatti, secondo l’autore,
un potenziamento sinaptico nelle reti neurali che governano
l’amigdala (prevalentemente la parte destra), potenziando così
la funzione inibente, di controllo, da parte della corteccia
prefrontale sull’amigdala stessa (LeDoux 1994). Ricordando che
l’amigdala è coinvolta nel sistema di percezione e
riconoscimento delle emozioni proprie e altrui, e nella risposta agli
stimoli emotivamente rilevanti provenienti dall’ambiente, che
vengono moderati, in base al contesto sociale, dalla corteccia
prefrontale, è intuibile come rafforzare le reciproche
connessioni tra queste aree possa portare ad una maggiore
consapevolezza, nonché ad un più stabile controllo
emotivo, e, di conseguenza comportamentale, grazie alla psicoterapia.
Gli
studi empirici sugli effetti delle diverse forme di psicoterapia,
attraverso tecniche di imaging, hanno dunque dimostrato che
l’attività funzionale del cervello è di fatto
alterata dalla psicoterapia, localizzando prevalentemente questi
cambiamenti nei lobi prefrontali, sedi delle cosiddette funzioni
alte
(Buchheim, 2012), (Fig. 10).
Fig.
10- Cambiamenti nelle connessioni cortico-limbiche in pazienti
affetti da disturbo depressivo maggiore dopo 15 mesi di Psicoterapia
Psicodinamica (Buchheim, 2012)
Ciò
che determina il cambiamento, allora, è la compartecipazione
emotiva, la relazione, la disponibilità dell’altro, ma
non solo, il linguaggio stesso, e così l’interpretazione,
ricopre un ruolo centrale nella creazione e nello sviluppo della
relazione analitica, favorendo il fondamentale passaggio da
Psicoterapia come talking
cure,
a taking
care
e infine talking
care,
come oggi possiamo concepirla.
“Il contatto con un
altro [...] può servire a creare un ponte e a recuperare la
frattura, mentre si cerca di ricostruire una storia che si può
narrare dall’interno all’esterno” (Mucci, 2014, p.
99).
Conclusioni
Il
dibattito riguardo l’interazione tra geni e ambiente, tra mente
e corpo, risulta essere, alla luce di quanto esposto, non una
contrapposizione di più posizioni, bensì un discorso
unitario, come l’insieme di più facce di una stessa
medaglia, all’interno dell’attuale visione olistica
dell’uomo come unità mente-corpo-ambiente.
L’epigenetica
diventa, quindi, un potente strumento di connessione, ma anche di
controllo, delle influenze ambientali sull’assetto genetico,
rivendicando
il primato dell’ambiente relazionale ed affettivo su quello
organico, per l’uomo, come per la maggior parte dei mammiferi.
Considerando quanto detto, appare chiaro come il discorso sulla
prevenzione in ambito sanitario, sia psichico che strettamente
biologico, comporti innanzitutto un grande impegno istituzionale e
sociale, al fine di intervenire epigeneticamente sull’eziologia
delle patologie, prima che sulla loro cura. Ancora, la psicoterapia
può essere rivalutata, alla luce delle evidenze portate avanti
dalle neuroscienze, in un’ottica di reciproco interscambio tra
biologia e psicologia. Non ultimo, la condivisione emotiva e
l’empatia, appaiono come i più significativi
modificatori dellapsicoimmunoendocrinologia e del comportamento
umano, dimostrando che, realmente, ciò che ci determina
è,
in fondo, unicamente questo.
“L’empatia
è una strada efficace per prevenire e risolvere i problemi
interpersonali […] è il mezzo migliore per risolvere i
problemi rispetto alle altre alternative (quali armi, leggi o
religioni). Diversamente dall’industria delle armi, dalle
carceri o dal sistema legale, l’empatia è gratuita. […]
Con l’empatia abbiamo una risorsa che risolve conflitti,
accresce la coesione delle comunità, allevia il dolore di
qualcuno.”
(Baron-Cohen, 2012, pp. 157 e 160).
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Aug 181 (2)
Sitografia
Dott.ssa
Marta de Luca – Psicologa,
Specializzanda in Psicoterapia c/o la Scuola di Specializzazione in
Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico (SFPID) sede di Bari
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