INTRODUZIONE
L’invecchiamento
è un processo fisiologico graduale ed individuale (ovvero si
manifesta in modi e tempi differenti) con modificazioni a livello
fisico, psichico e cognitivo. Al riguardo sono state formulate
differenti teorie che spiegano cosa sia l’invecchiamento e a
cosa sia dovuto.
Avere
buoni geni aiuta, ma sulla longevità la genetica pesa per il
25% circa. Ci sono basi genetiche che sicuramente vanno ad
influenzare il processo dell’invecchiamento. Ma la genetica da
sola non basta.
Oggi
infatti è emersa una nuova scienza che sembra esser
strettamente connessa al processo di invecchiamento: l’epigenetica.
L’epigenetica, scienza che studia i cambiamenti dell’attività
dei geni che non comportano variazioni nel DNA, ma che possano essere
ereditati anche dalle generazioni successive, ci insegna che fattori
ambientali come l’alimentazione, l’inquinamento e lo
stress possono attivare o silenziare alcune sequenze di geni. Con uno
stile di vita attivo e non sedentario e una dieta adeguata, come la
nostra mediterranea, si possono “guidare” i geni verso la
longevità, anche se non abbiamo avuto genitori centenari.
Vedremo come l’epigenetica influenza l’invecchiamento,
approfondendo cosa sia la stessa e cosa si intende per
invecchiamento.
Quando
si parla di invecchiamento non si può non considerare la sua
manifestazione patologica: la demenza. Vi sono varie forme di demenza
ma quella più diffusa è la malattia di Alzheimer. I
fattori che determinano la malattia possono essere sia genetici che
epigenetici. Andremo a considerare le basi genetiche ed epigenetiche
della malattia; inoltre verrà illustrato brevemente il suo
trattamento farmacologico. Dato i farmaci non possono bloccare il
processo di invecchiamento o non possono curare la malattia, ma solo
prevenirla, molto rilevante è l’intervento di tipo
psicologico, rivolto non solo al paziente, tramite l’utilizzo
di tecniche specifiche, ma anche i suoi familiari. Il paziente perde
il contatto con i suoi ricordi, con la sua vita passata e presente,
con se stesso, con chi era e con chi è. Questo apporta molta
sofferenza non solo in lui, ma anche nei suoi familiari che avrebbero
bisogno di conseguenza di supporto psicologico. La malattia inoltre
apporta costi di vario genere: occupazionali e finanziari; sociali
dati dall’isolamento sociale; emotivi, derivanti dallo stress e
dalla preoccupazione che la malattia arreca e fisici. Sono i disturbi
comportamentali a incidere maggiormente sullo stress che si può
venire a creare in famiglia, dato che a volte diventa difficile
controllarli. Questo alle volte può portare i familiari stessi
a decidere di istituzionalizzare il paziente, anche se a malincuore.
COS’
E’ L’EPIGENETICA.
L’epigenetica
(dal greco επί, = "sopra" e γεννετικός,
= "relativo all’eredità familiare") è una
recente branca degli studi genetici (Franco
Giorgi , I
paradigmi genetico ed epigenetico a confronto),
e si occupa dei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza
alterare il genotipo. Studia tutte le modificazioni ereditabili che
variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA
(soprattutto con riferimento ai fenomeni ereditari a livello
cellulare, meno a quelli trans-generazionali, dal genitore al
figlio).
Il
merito per avere coniato, nel 1942,
il termine epigenetica, definita come "la
branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e
il loro prodotto cellulare e pone in essere il fenotipo",
viene attribuito a Conrad
Hal Waddington
Si
tratta, quindi, di fenomeni ereditari in cui il fenotipo è
determinato non tanto dal genotipo ereditato in sé, quanto
dalla sovrapposizione al genotipo stesso di "un’impronta"
che ne influenza il comportamento funzionale. Un segnale epigenetico
è un cambiamento ereditabile che non altera la sequenza
nucleotidica di un gene, ma la sua attività. È lo
studio delle modifiche fenotipiche ereditabili nell’espressione del
gene, dal livello cellula (fenotipo cellulare) agli effetti
sull’intero organismo (fenotipo, in senso stretto), causato da
meccanismi diversi dai cambiamenti nella sequenza genomica, ovvero lo
studio di meccanismi molecolari mediante i quali l’ambiente altera il
grado di attività dei geni senza tuttavia modificare
l’informazione contenuta, ossia senza modificare le sequenze di DNA
(Richard C. Francis, L’ultimo mistero dell’ereditarietà, op.
cit., pag. 10).
Queste
mutazioni, dette epimutazioni, durano per il resto della vita della
cellula e possono trasmettersi a generazioni successive delle cellule
attraverso le divisioni cellulari, senza tuttavia che le
corrispondenti sequenze di DNA siano mutate (Adrian Bird, Perceptions
of epigenetics, in Nature, vol. 447, nº 7143, 2007, pp. 396–398)
; sono quindi fattori non-genomici che provocano una diversa
espressione dei geni dell’organismo (Special report: ’What genes
remember’ by Philip Hunter | Prospect Magazine May 2008 issue 146).
Su fenomeni epigenetici si basa la maggior parte dei processi di
differenziamento cellulare.
Possono
provocare effetti epigenetici:
modificazioni
del DNA = addizione covalente di gruppi a sequenze specifiche
(metilazione della citosina) da parte delle metiltrasferasi;
modificazione
delle proteine = addizione covalente di gruppi a specifiche proteine
della cromatina (modificazioni post-traduzionali degli istoni).
inattivazione
del Cromosoma X;
silenziamento
genico.
Questi
processi alterano l’accessibilità alle regioni del genoma,
sulle quali si legano proteine e enzimi deputati all’espressione
genica e quindi alterano l’espressione del gene.
Le
basi molecolari dell’epigenetica sono complesse. Si tratta di
modifiche sull’attivazione di certi geni, ma non sulla loro struttura
di base del DNA. Anche modifiche a carico delle proteine della
cromatina possono influire sull’espressione di questi geni. Questo
spiega perché le cellule differenziate in un organismo
pluricellulare esprimono solo i geni necessari alla loro attività.
Se una mutazione del DNA riguarda uno spermatozoo o un ovulo che
viene fecondato, i cambiamenti epigenetici possono essere ereditati
dalla generazione successiva (V.L. Chandler, Paramutation: From Maize
to Mice, in Cell, vol. 128, nº 4, 2007, pp. 641–645,
DOI:10.1016/j.cell.2007.02.007). Una questione che è stata
sollevata è se i cambiamenti epigenetici in un organismo
possano alterare la struttura di base del suo DNA.
I
ricercatori spiegano cosa avviene nei geni grazie agli studi fatti su
gemelli omozigoti: nascono con lo stesso patrimonio genetico, ma
crescendo si possono differenziare a causa dell’ambiente, dello stile
di vita, delle emozioni e delle sofferenze provate, che possono
cambiare l’espressione di alcuni geni, attivandoli o disattivandoli.
I cambiamenti epigenetici sono conservati quando le cellule si
dividono durante la vita di un organismo.
1.1
EPIGENETICA E INVECCHIAMENTO
In
questa visione il processo di invecchiamento è legato:
al
terreno biologico ereditario;
al
modo di interagire psichicamente ed emotivamente con il mondo polare
della materia;
a
cui si possono aggiungersi cause esterne ed ambientali.
Tutto
questo insieme di fattori bloccano o attivano funzioni del DNA legate
allo stress.
Perciò
la nostra salute e quella dei nostri discendenti dipendono:
Il
pensiero per esempio è energia ed informazione allo stesso
tempo e quindi come il nostro stile di vita è determinante
nella produzione di squilibri fisiologici che possono aprire la porta
a malattie anche gravi.
L’epigenetica
è strettamente correlata alla nostra predisposizione alle
malattie compreso il cancro, in quanto regola l’espressione dei
geni.
In
altre parole l’epigenetica decide che gene deve essere ON o OFF
in una singola cellula determinando un segnale di informazione
cellulare.
Possiamo
quindi dire che esiste un genoma che ereditiamo ed un epigenoma con
una sua plasticità di mutevolezza che creiamo noi e
trasmettiamo anche alle generazioni future.
Ma
cosa si intende per invecchiamento?
L’invecchiamento
è un processo fisiologico graduale ed individuale (ovvero si
manifesta in modi e tempi differenti) con modificazioni a livello
fisico, psichico e cognitivo. Al riguardo sono state formulate
differenti teorie.
Teoria
della regolazione genica
L’ipotesi
che l’invecchiamento sia un fenomeno geneticamente programmato si
basa anche sul fatto che l’espressione di alcuni geni varia con
l’età. Del resto studi su centenari hanno dimostrato che la
longevità degli individui è influenzata da alcuni geni,
come il gene dell’apoproteina C, e gli individui più longevi
tendono a presentare un basso indice di massa corporea e di glicemia
a digiuno legati a determinate caratteristiche metaboliche. Una
conferma sperimentale di questa teoria sembrerebbe essere arrivata
dalla scoperta di una via metabolica che regolerebbe l’aspettativa di
vita di organismi come topi, insetti e nematodi. Essa riguarda il
gene del fattore di crescita insulino-simile (IGF-1), che, mediante
un recettore specifico, regola diverse chinasi che silenzierebbero
geni capaci di difendere l’organismo dall’invecchiamento. Ulteriore
conferma dell’importanza del ruolo di questa via metabolica è
venuta da uno studio nel quale si è osservata una correlazione
tra longevità e determinati genotipi associati al recettore
per il IGF-1 ed al gene P13K-CB. Altri studi hanno inoltre dimostrato
una connessione della durata della vita con proteine, come la
superossido dismutasi, la cui trascrizione è influenzata da
questo fattore di crescita (Roberto Testa, Fabiola Olivieri, Antonio
Cerello e Lucia La Sala, Biologia dell’invecchiamento, su
academia.edu, Springer, 2011).
Teoria
della senescenza replicativa
Questa
teoria, che venne proposta da Leonard Hayflick, nasce
dall’osservazione che i fibroblasti, messi in coltura, vanno incontro
ad un numero limitato di replicazioni, dopo il quale il processo si
arresta. Per spiegare questo fenomeno sono state avanzate alcune
ipotesi, tra cui la presenza di geni che regolerebbero il processo di
senescenza o il progressivo accorciamento dei telomeri. Nelle cellule
senescenti, che subiscono delle modifiche a livello molecolare, si
osserva una maggiore espressione di proteine, come la p53, che
tendono a bloccare la progressione del ciclo cellulare. I telomeri
sono le regioni terminali dei cromosomi, essenziali per la stabilità
del patrimonio genetico e per l’ancoraggio degli stessi cromosomi
alla matrice nucleare. C’è da dire che i telomeri delle
cellule di soggetti di età più avanzata tendono ad
essere più corti; si è dunque ipotizzato che il
danneggiamento subito a causa della mitosi da queste parti del DNA,
che sono in parte ripristinate dall’enzima telomerasi, comporti che
le cellule vadano incontro a senescenza ed apoptosi. Possibile
conferma di questa teoria è che i fibroblasti dei pazienti con
la sindrome di Werner, rara malattia caratterizzata da invecchiamento
precoce e causata dalla mutazione a carico di un gene che codifica
un’elicasi (enzima utile per la riparazione del DNA), mostrano una
minore capacità re plicativa (Luigi Barbieri e Enrico
Strocchi, Università
di Bologna).
Teoria
dei radicali liberi
La
teoria che individua nella reattività dei radicali liberi
ossidanti la causa dell’invecchiamento venne formulata nel
1957. I radicali liberi ossidanti o ROS sono prodotti soprattutto dal
metabolismo mitocondriale, spesso rimangono confinati in un
compartimento della cellula a causa della loro insolubilità
lipidica, possono modificare il DNA e, accumulandosi nelle cellule,
ne compromettono la funzionalità. Oltre al DNA, i radicali
liberi possono ossidare e quindi danneggiare macromolecole come
proteine e lipidi, generando nella cellula un accumulo di
lipofuscina. A ridurre la loro pericolosità intervengono
composti, come la superossido dismutasi, che trasforma l’anione
superossido in perossido d’idrogeno, a sua volta destinato ad essere
ridotto. Tuttavia, quando i ROS sono troppi, questo meccanismo non
funziona in maniera adeguata e di conseguenza vengono coinvolti in
reazioni come quella di Haber-Weiss, da cui derivano altri ROS. Le
differenze nella longevità tra specie diverse potrebbe a
questo punto essere spiegata dalla diversa propensione a produrre ROS
o dall’efficacia dei composti antiossidanti con cui la cellula
viene protetta dalla loro azione dannosa. Si pensa che la produzione
dei radicali liberi ossidanti possa diminuire con la restrizione
calorica, che in diversi esperimenti ha dimostrato di allungare la
vita di vari organismi, anche se la correlazione tra restrizione
calorica e produzione di ROS non è certa (N. Ferrara, G.
Corbi, D. Scarpa, G. Rengo, G. Longobardi, M. Mazzella, F.Cacciatore
e F. Rengo, Teorie dell’invecchiamento).
Teoria
immunologica
Proposta
da Roy Walford, questa teoria riconduce l’invecchiamento agli errori
del sistema immunitario, dalle cui disfunzioni deriverebbero
l’autoimmunità ed una ridotta capacità di difesa dal
cancro e dagli agenti patogeni. Del resto il sistema immunitario
subisce una serie di cambiamenti nel corso del tempo, come quelli
legati, dopo la pubertà, all’atrofia del timo, in cui maturano
i linfociti T.
Nel
1989 Franceschini propose la teoria dell’immuno-senescenza,
secondo cui col passare del tempo si assiste ad un’eccessiva
produzione di linfociti T di memoria, a discapito di altri linfociti
T, e ad un’attivazione patologica del immunità innata.
Sempre Franceschini, analizzando alcune cellule del sistema
immunitario di un gruppo di centenari sani, affermò che
l’immuno-senescenza riguardasse soprattutto l’immunità
specifica. Tutto ciò si ricollega al fatto che alcune malattie
correlate alla senilità siano imputabili a disfunzioni del
sistema immunitario, ma, in ogni caso, lo stato infiammatorio cronico
di basso grado che si osserva in alcuni anziani potrebbe essere un
effetto, più che la causa, delle malattie di cui soffrono
(Roberto Testa, Fabiola Olivieri, Antonio Cerello e Lucia La Sala,
Biologia dell’invecchiamento, su academia.edu, Springer, 2011).
2
LE DEMENZE
“Sono
un medico, ho l’Alzheimer
Non
c’è nulla per me e per i malati di Alzheimer.. Ogni
tanto, guardo negli occhi mia moglie, io ho 84 anni, lei 74.
Ma
non riesco a vederla vecchia, la malattia non me lo permette, la vedo
vestita di bianco, come quando l’ho sposata, ma lei non mi
crede.
Le
dico di andare a fare il viaggio di nozze a Vienna, ma lei mi dice
che lo abbiamo già fatto.
Le
dico che voglio tre figli, ma lei sostiene di averli già
avuti.
Le
guardo le mani, il viso, gli occhi, è come se avesse 25 anni…
Ma lei piange, forse non mi crede.
Vedo
altra gente. Io non conosco chi siano, ma quando li vedo mi batte il
cuore.”
Articolo
del17 marzo 2010di Maria Daniela
Carnemolla
A
partire dagli anni 90’, l’attenzione per le demenze ha
avuto un crescendo continuo in tutti i paesi sviluppati sul piano
sperimentale, clinico e a livello dell’organizzazione dei
servizi. Sono sorte ricerche rivolte ad ampliare gli orizzonti
sull’epidemiologia della malattia, in ambito neurobiologico,
rivolte alle fasi iniziali della malattia, ai fattori di rischio,
all’assistenza per i pazienti.
La
demenza è una sindrome caratterizzata da una complessa
interazione di deficit neuropsicologici, di disturbi comportamentali
e psichiatrici, di limitazioni dell’autonomia e, soprattutto
nelle fasi avanzate, di quadri patologici somatici.
Tutte
le forme
di demenza
sono legate alla presenza di un danno
cerebrale
che può instaurarsi in modo acuto (come nel caso dell’ictus)
oppure accumularsi gradualmente nell’arco di decenni e iniziare a
rendersi evidente quando viene superata una certa "soglia"
oltre la quale le parti del cervello ancora sane non sono più
in grado di compensare le funzioni cognitive venute meno a causa
delle lesioni. In questo secondo caso, si parla di declino
cognitivo associato all’invecchiamento.
Le
perdite neurologiche che si osservano nel cervello che invecchia non
sono tutte patologiche: in parte, sono legate al naturale avanzare
dell’età
e si verificano anche in soggetti sani che non svilupperanno mai
alcuna forma di demenza (American Psychiatric Association. DSM-IV-TR.
Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - Text
Revision, IV edizione. Masson, Milano 2001).
La complessità della malattia è confermata dalla
difficoltà a delineare il preciso meccanismo patogenetico.
Infatti non è ancora molto chiaro il nodo delle interazioni
tra multipli geni di predisposizione e altri fattori ambientali. Si
ipotizza che certi sintomi possano avere una determinante genetica
arricchita e accompagnata da contesti situazionali (Nussbaum RL,
Ellis CE. Alzheimer’s disease and Parkinson’s disease. N
Engl J Med 2003;348:1356-1364).
Definire
una malattia neurodegenerativa è purtroppo ancora oggi
piuttosto complesso, in quanto la degenerazione dei tessuti neurali è
alla base di una serie di malattie non classificate solitamente come
neurodegenerative (ad esempio la sclerosi multipla, l’epilessia,
la schizofrenia, e perfino alcuni tumori). La difficoltà di
effettuare una diagnosi precisa delle diverse forme di demenza, in
parte perché i sintomi clinici sono spesso simili soprattutto
nelle prime fasi della malattia, ha diverse conseguenze, non ultima
quella che il trattamento possa essere orientato in una prima fase
verso una malattia diversa da quella che poi effettivamente si
manifesta. In più la complessità dei quadri
sintomatologici si deve confrontare con le conoscenze su un insieme
non sempre chiaro di modificazioni della struttura recettoriale di
alcuni neurotrasmettitori (dopamina, noradrenalina, acetilcolina,
serotonina); il loro polimorfismo è però così
elevato, così come l’interazione tra neurotrasmettitori
diversi, che con difficoltà si potrà arrivare a
definire un rapporto con un certo cluster sintomatologico.
La
demenza è una condizione che interessa dall’1 al 5 per
cento della popolazione sopra i 65 anni di età, con una
prevalenza che raddoppia poi ogni quattro anni, giungendo quindi a
una percentuale circa del 30 per cento all’età di 80
anni. L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno
che sta interessando sia i paesi industrializzati che quelli in via
di sviluppo, in conseguenza della durata media della vita e della
concomitante riduzione delle nascite. Nella definizione generica di
‘demenza’ rientrano diverse malattie, alcune
classificabili come demenze ‘primarie’, come la malattia
di Alzheimer, la demenza con i corpi di Lewy, la demenza
frontotemporale, e altre invece definite ‘secondarie’, in
quanto conseguenza di altre condizioni, come ad esempio la demenza da
AIDS. Si ritiene che poco più della metà dei dementi
sia affetto da demenza di tipo degenerativo (come la malattia
di Alzheimer e la malattia
di Pick), il 15% circa da demenza su base vascolare (demenza
vascolare), il 15% da forme miste ed il restante 15% da forme di
varia natura, tossica, traumatica,
tumorale,
infettiva, da
idrocefalo
normoteso.
2.1
LA DEMENZA DI ALZHEIMER: BASI GENETICHE.
La
demenza di Alzheimer è quella più diffusa,
rappresentando il 50- 60% dei casi di deterioramento mentale a
esordio tardivo. Prende il nome da Alois
Alzheimer, neurologo tedesco che nel 1907 notò segni
particolari nel tessuto cerebrale della signora Auguste
D.,
di 51 anni. Si tratta di una patologia degenerativa del sistema
nervoso centrale con un decorso caratterizzato da un prevalente e
iniziale deficit di memoria episodica seguito dal progressivo,
sequenziale impoverimento delle funzioni esecutive, della memoria
semantica, del linguaggio, dell’orientamento, delle abilità
visuo-spaziali e della prassia (Perry RJ, Watson P, Hodges JR. The
nature and staging of attention dysfunction in early Alzheimer’s
desease: relationship to episodic and semantic memory impairment.
Neuropsychologia
2000;38:252-271).
La
lenta riduzione delle capacità cognitive interferisce con il
normale svolgimento delle attività lavorative e quotidiane e
può associarsi ad alterazioni comportamentali. (Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disosders. Washington,
The American Psychiatric Association,1994). In
una fase successiva si perdono le abilità di lettura,
scrittura e denominazione oltre che le capacità di eseguire le
normali abilità quotidiane. Le alterazioni comportamentali
come le allucinazioni, i deliri, l’agitazione, l’aggressività,
misidentificazione e depressione ricevono sempre più una
maggiore attenzione. Questi sintomi si verificano in modo variabile
da paziente a paziente nelle fasi sia iniziali che terminali della
malattia, sebbene la frequenza maggiore si manifesti nelle fasi
intermedie (Mega MS,Cummings JL; Fiorello T, Gorbein J. The spectrum
of behavioural changes in Alzheimer’s Disease. Neurology 1996).
Nelle fasi terminali insorgono alterazioni della motilità,
come difficoltà nella masticazione, nella deglutizione, nel
sostenere la testa o mantenere la posizione eretta. L’esordio è
insidioso e progressivo.
Le
diverse forme di Alzheimer possono essere elencate come segue: forma
sporadica, le cui cause non si conoscono e che colpisce 75% della
popolazione; forma associata alla sindrome di Down che colpisce l’1%
della popolazione; forma familiare a insorgenza tardiva che colpisce
il 20% della popolazione e forma familiare a insorgenza precoce che
colpisce il 5% della popolazione.
Le
lesioni istopatologiche specifiche della malattia sono le placche
senili ed i grovigli neuro fibrillari, costituite rispettivamente da
depositi extracellulari del peptide beta-amiloide e da aggregati
intracellulari di proteina tau iperfosforilata (Fabio Coppedè.
Fattori genetici, ambientali ed epigenetici nella malattia di
Alzheimer. Dipartimento di Scienze dell’Uomo e dell’Ambiente,
Sezione di Genetica Medica, Università di Pisa).
Anche
se non conosciamo le cause od i meccanismi esatti che determinano la
malattia di Alzheimer, gli studi degli ultimi anni hanno evidenziato
che i fattori genetici hanno un ruolo principale. Lo studio dei casi
familiari ha portato all’identificazione di tre geni le cui
mutazioni causano con altissima penetranza la malattia di Alzheimer e
di alcuni geni le cui varianti possono contribuire a determinare la
suscettibilità ad ammalarsi anche per le persone che non
appartengono a gruppi familiari a rischio. I geni noti, le cui
mutazioni causano la malattia di Alzheimer familiare (FAD), sono: il
gene della proteina amiloide (APP), localizzato nel cromosoma 21, il
gene della presenilina1 (PS1) localizzato nel cromosoma 14, il gene
della presenilina2 (PS2), localizzato sul cromosoma 1. Le mutazioni
dell’APP sono rare (solo circa 20 famiglie finora identificate
nel mondo) e causano una malattia ad esordio precoce (35–50
anni). Circa 130 diverse mutazioni di PS1 sono state finora
identificate in pazienti con forme familiari ad esordio precoce.
Queste mutazioni rappresentano la causa più comune di origine
genetica della malattia di Alzheimer familiare ad esordio precoce
(28–60 anni). Fino ad oggi, solo 9 mutazioni in PS2 sono state
identificate in soggetti appartenenti ad un cluster di famiglie
americane originarie dell’europa del est ed in due famiglie
italiane. In queste famiglie, l’età di esordio può
essere precoce (30 anni) ma anche molto tardiva (oltre 80 anni).
Oltre
ai geni causanti l’AD, uno dei geni di suscettibilità
che è meglio documentato è invece il gene dell’
Apolipoproteina E (APOE). L’APOE è una proteina che si
lega alla proteina amiloide e diversi studi hanno mostrato che
l’allele e4 è più frequente nelle persone affette
da malattia di Alzheimer rispetto a quelle sane. Si tratta, comunque,
di una dato indicativo che non permette di definire il rischio:
infatti, quasi la metà delle persone affette non possiede
questo allele, che d’altra parte è presente anche in un’
alta percentuale di persone sane.
Le
mutazioni dei geni APP, PS1 e PS2 causano un incremento nella
produzione di β-amiloide,
il costituente delle placche senili, mentre l’allele e4
dell’apoliopproteina non causa un aumento della produzione di
amiloide ma piuttosto un incremento del suo deposito nello spazio
extracellulare.
Non
si può non ricordare che anche l’altro marker
neuropatologico e genetico della malattia di Alzheimer è una
proteina che tende a depositarsi nota come TAU, di cui esistono,
nell’uomo 6 isoforme. Sono state identificate alcune mutazioni
anche per il gene della TAU (cromosoma17), mutazioni che possono
determinare una perdita di funzione, un’alterata espressione
genetica od una aumentata aggregazione. Mutazioni di Tau si sono
rilevate anche nello studio delle famiglie con Demenza
Fronto-Temporale (FTD) (S.Sorbi. Genetica della malattia di
Alzheimer, Dipartimento di Scienze neurologiche e psichiatriche,
Università degli studi di Firenze. 2003).
Parecchi
studi sono stati effettuati sui geni di suscettibilità che
caratterizzano il rischio di manifestazione della patologia. Tra
questi ritroviamo oltre la variante polimorfica APOE associata ad
alti livelli di colesterolo nel plasma, all’aumento della
deposizione del peptide e
alla formazione delle placche senili, altri geni come, LRP,
LBP-1c/CP2, ACE, VLDL-R, ACT, IDE, Tf C2, CATD, BH e altri (dati
derivati da www.alzgene.org).
L’ipotesi
amiloidea della malattia.
Il
peptide β- Amiloide, tipico delle placche riscontrate nel
cervello dei pazienti con il morbo di Alzheimer (AD), è stato
prelevato dai vasi sanguigni dei pazienti con AD e delle persone con
sindrome Down quasi 20 anni fa (UN .G.G.Glenner, C.W.Wong, Biochem.
Biophys. Res. Commun. 120, 885 1984- Biochem. Biophys. Res.
Commun.1984). Un anno più tardi, lo stesso peptide è
stato riconosciuto come il componente primario delle placche senili
(placche neuritiche) nel tessuto cerebrale del paziente di AD
(C.L.Masters et al., Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A.1985). Queste
scoperte segnano l’inizio dell’era moderna della ricerca su questa
comune, devastante malattia neurodegenerativa.
La
sostanza amiloide è costituita dall’accumulo di un
peptide di 39-42 aminoacidi che deriva dal precursore APP, codificato
da un gene localizzato sul cromosoma 21. L’APP è una
proteina transmembrana normalmente scissa per opera della -secretasi
all’interno del peptide
impedendone così l’accumulo. Un’ aumentata
produzione di questo peptide potrebbe essere all’origine di
eventi che provocano la neurodegenerazione fibrillare e la morte
neuronale: la maggior parte di -amiloide
è costituita da 40 aminoacidi, ma una piccola quantità
è rappresentata da un frammento leggermente più lungo
costituito da 42 residui aminoacidici, che ha la caratteristica di
aggregare più rapidamente, essendo fortemente neurotossico. La
deposizione di aggregati extracellulari del peptide Aβ si
struttura nel parenchima cerebrale in forma di placche neuritiche, di
placche diffuse, e di depositi pre-amiloide:
Le
placche neuritiche (NP), hanno una forma rotondeggiante ed un
diametro variabile da 100 a 200 micron. Sono formate da una parte
centrale compatta di fibre di amiloide (“core”) che si
espande con digitazioni fra processi neuronali in degenerazione, e
processi di cellule gliali. I neuriti coinvolti nella placca sono
assoni amielinici e terminali presinaptici.
Le
placche diffuse (DP) sono visibili prevalentemente con anticorpi
anti-Aβ, hanno margini irregolari, sono privi della componente
neuritica e gliale, e sono composte da Aβ scarsamente
strutturata in fibrille di amiloide. Hanno dimensioni variabili,
anche se mediamente sono più grandi delle NP. Nei nuclei della
base, nell’ipotalamo e nella corteccia cerebellare si formano
quasi esclusivamente DP, e le stesse prevalgono nettamente sulle NP
nella corteccia cerebrale di soggetti anziani non dementi.
I
cosiddetti depositi preamiloide rappresentano lo stadio precoce di
deposito di Aβ morfologicamente visibile. L’angiopatia
amiloidea (AA) o congofila consiste nella deposizione di amiloide
nella parete delle arterie cerebrali e meningee (Dickson D.W. The
Pathogenesis of senile plaques. J Neuropathol Exp Neurol 1997).
Un’
altra ipotesi alla base della formazione delle placche amiloidi,
sarebbe la perdita della normale funzione del gene APP . Le cellule
presenti nel cervello percepiscono le placche di amiloide come
estranee e fanno quindi scattare una risposta immunitaria, proprio
come ci fosse un’infezione in corso. Le placche inducono le
cellule che circondano i neuroni morenti (glia), a secernere vari
composti chimici che sovra-eccitano altre cellule cerebrali. Le
placche possono anche causare il rilascio di radicali liberi che
andrebbero a danneggiare le strutture cerebrali.
Ci
sono state tre osservazioni concettualmente importanti che supportano
fortemente l’ipotesi amiloidea della malattia di AD: primo, le
mutazioni nel gene codificante la proteina tau causano demenza
fronto-temporale con parkinsonismo (Q P.Poorkaj et al., Ann. Neurol
1998- M.G.Spillantini, T.D.Bird, B.Ghetti, Brain Pathol.1998). Questa
malattia neurodegenerativa è caratterizzata da grave
deposizione di proteina tau in grovigli neurofibrillari nel cervello,
ma non prevede nessuna deposizione di amiloide. La chiara
dimostrazione è che anche le più gravi conseguenze
dovute all’alterazione della tau che porta alla formazione di
grovigli neuro fibrillari, non sono sufficienti a indurre le placche
amiloidi caratteristiche dell’Alzheimer. Così, i grovigli
neurofibrillari di tau trovati nei cervelli di pazienti con AD si
sono formati dopo i cambiamenti nel metabolismo dell’,
piuttosto che prima (J.Hardy, K.Duff, K.Hardy, J.Perez-Tur, M.Hutton,
Nature Neurosci.1998). In secondo luogo, i topi transgenici che
manifestano sia la forma mutante di APP che la forma mutante tau,
subiscono un aumento della formazione di grovigli di tau (rispetto ai
topi che manifestano solo la forma mutante tau), mentre la struttura
e il numero delle loro placche amiloidi sono sostanzialmente
inalterate (J.Lewis et al., Science 2001). Questa scoperta suggerisce
che l’elaborazione di APP alterato si verifica prima della
alterazioni tau nella cascata patogena dell’ AD. Infine una
crescente evidenza indica che la variabilità genetica nell’
catabolismo e la clearance possono contribuire al rischio di AD ad
esordio tardivo (J.M.Olson, K.A.Goddard, D.M.Dudek, Am. J. Hum. Genet
2001). Presi insieme, questi tre risultati sono coerenti con l’idea
che l’accumulo di
cerebrale è l’influenza primaria nell’ AD e che il resto
del processo di malattia, compresa la formazione di grovigli di tau,
siano il risultato di uno squilibrio tra la produzione e la clearance
dell’ .
Oltre
a fattori genetici di vulnerabilità è ovvio che a
contribuire alla manifestazione della patologia, partecipano anche
altri fattori come quelli ambientali quali la esposizione a metalli,
solventi, pesticidi, traumi cranici, campi elettromagnetici ed
infezioni virali. Sostanze antiossidanti, dieta mediterranea e
consumo di acidi grassi omega-3 sembrano invece svolgere un ruolo
protettivo (Migliore e Coppedè,2009. Mutat Res 667:82-97).
2.2
EPIGENETICA E DEMENZA
L’epigenetica,
che esplora come le condizioni ambientali possono agire sul genoma,
e’ la nuova strada per curare i pazienti con demenza. Vi sono
vari processi epigenetici che influiscono sul processo di
invecchiamento. Nel dettaglio ne consideriamo due: la metilazione del
DNA e il metabolismo dei folati.
La
metilazione del DNA è la modificazione epigenetica meglio
conosciuta e più studiata, anche grazie a tecniche di
laboratorio di facile applicabilità e ormai consolidate. Lungo
il genoma, distribuite in modo disomogeneo, si trovano sequenze
dinucleotidiche Citosina-Guanina (denominate CpG, dove p è
la molecola di fosfato che lega le due basi per formare insieme allo
zucchero desossiribosio l’ossatura esterna del DNA) che sono il
target del processo di metilazione del DNA. Le zone di DNA con
un’elevata densità di siti CpG sono chiamate «isole
CpG e sono localizzate generalmente nelle regioni regolatorie di geni
costitutivi e di geni con espressione tessuto specifica». La
metilazione consiste nella aggiunta di un gruppo metile alla citosina
delle isole CpG a opera della famiglia di enzimi DNA metiltransferasi
(DNMTs). La famiglia delle DNMTs comprende principalmente due tipi di
enzimi: la DNMT1 che riconosce in modo specifico i siti di
metilazione in un emi-filamento di DNA e li copia sul filamento
figlio durante la replicazione, garantendo la fedeltà nel
profilo di metilazione durante lamitosi; le DNMT3a e 3b che sono
implicate invece nellametilazione “de
novo”
che avviene durante lo sviluppo embrionale e la differenziazione
cellulare. Il grado dimetilazione delle isole CpG della regione
regolatoria di un gene è associato ai livelli di trascrizione
di quel gene: l’ipometilazione favorisce in genere un aumento
dell’espressione genica, mentre l’ipermetilazione si
associa al silenziamento dei geni (il contrario di quello che succede
nella metilazione degli istoni). Esiste naturalmente anche una
variabilità genetica tra gli individui che riguarda la densità
dei siti CpG, e che quindi influenza i potenziali livelli di
metilazione, con conseguente effetto sulle attività
regolatorie dei geni di riferimento.
Il
metabolismo dei folati è di fondamentale importanza nei
processi epigenetici in quanto fornisce le unità
monocarboniose necessarie per la sintesi della S-adenosilmetionina
(SAM), il principale agente metilante intracellulare. Numerosi studi
suggeriscono alterazioni del metabolismo dei folati in pazienti AD
con conseguente alterazione dei livelli cerebrali di SAM e possibili
conseguenze epigenetiche. Studi condotti in colture di cellule
neuronali e nei roditori hanno dimostrato che la riduzione dei
livelli di folati e di altre vitamine del gruppo B si ripercuote in
demetilazione del promotore del gene PSEN1 con conseguente aumento di
espressione della proteina presenilina 1. La correta metilazione del
gene può essere ripristinata aggiungendo SAM al mezzo di
coltura delle cellule o alla dieta dei roditori (Scarpa et al. 2003
FEBS Lett.541, 145-148; Fuso et al. 2009. Neurobiol Aging, in press.
doi:10.1016/j.neurobiolaging.2009.02.013). Studi condotti in scimmie
e roditori esposti a piombo (Pb) durante lo sviluppo embrionale o
nelle prime fasi della vita hanno dimostrato che l’esposizione
al metallo risultava in modificazioni epigenetiche del gene APP ed
alterata espressione dello stesso in età adulta. Tali
modificazioni non avvenivano se l’animale veniva esposto al
metallo in età adulta, portando i ricercatori ad ipotizzare un
modello in cui l’esposizine a fattori ambientali durante le
fasi di sviluppo del cervello potrebbe ripercuotersi in modificazioni
epigenetiche il cui effetto si manifesterebbe in età adulta
con l’insorgenza di malattie neurodegenerative (Lahiri et al.
2009. Mol Psychiatry 14(11):992-1003). Studi condotti in cervelli
post-mortem hanno rivelato una marcata ipometilazione del DNA in
pazienti AD rispetto a controlli neurologicamente sani. Uno degli
esempi più ecclatanti riguarda l’analisi post-mortem del
cervello di due gemelli monozigoti discordanti per l’AD che ha
rivelato una marcata riduzione dei livelli di metilazione del DNA nel
cervello del gemello malato rispetto al gemello sano, sottolineando
ulteriormente il possibile contributo dei fattori ambientali nei
processi epigenetici (Mastroeni et al., 2009. PLoS One. 4(8):e6617).
E’ stato inoltre dimostrato che il peptide Aβ
possiede proprietà epigenetiche ed è in grado di
indurre ipometilazione di numerosi geni ed ipermetilazione
(silenziamento) di geni coinvolti nella sua eliminazione, quali ad
esempio il gene della neprilisina (Chen et al. 2009.Biochem Biophys
Res Commun. 2009 Jan 2;378(1):57-61). In tabella 1 sono riportati
alcuni degli esempi di modificazioni epigenetiche di geni coinvolti
nella malattia di Alzheimer.
Tabella
1. Alcuni esempi di modificazioni epigenetiche di geni coinvolti
nella malattia di Alzheimer
MODELLO
SPERIMENTALE
|
Osservazioni
|
Cellule
di neuroblastoma umano SK-N-SH o SK-N-BE
|
La
deprivazione di folati e vitamina B12 induce demetilazione del
promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione
genica
|
Cellule
di neuroblastoma umano SK-N-BE
|
La
somministrazione di SAM al mezzo di crescita riduce l’espressione
del gene PSEN1
|
Cellule
endoteliali cerebrali murine
|
Il
peptide Aβ
riduce i livelli di metilazione globale del DNA ed ipermetila il
gene della neprilisina
|
Roditori
|
La
deprivazione di vitamine del gruppo B induce demetilazione del
promotore del gene PSEN1 ed incremento dell’espressione
genica
|
Roditori
e scimmie
|
Esposizione
perinatale a Pb induce demetilazione del gene APP ed alterata
espressione dello stesso in età adulta
|
Cervelli
umani post-mortem
|
Marcata
riduzione dei livelli di metilazione globale ed alterata
metilazione di geni specifici
|
Tabella
modificata da: Coppedè 2010; Curr Genomics 11 (4) 246-260.
Questi
studi supportano la convinzione ormai diffusa che le mutazioni
geniche siano certamente importanti nello sviluppo delle malattie
neurodegenerative ma, da sole, non spiegano tutti i complessi
meccanismi che le caratterizzano. Inoltre, aprono nuove, stimolanti
prospettive terapeutiche: la modulazione epigenetica delle demenze
puo’ essere una nuova strategia per controllare l’evoluzione
di queste devastanti malattie. E’ gia’ in corso in alcuni
modelli sperimentali di demenza (topi transgenici) la valutazione di
diverse molecole che possono modulare i processi di metilazione,
rallentando cosi’ le progressione di malattia. E’
possibile, pertanto, che queste sperimentazioni aprano finalmente la
strada ad innovative strategie terapeutiche per le demenze.
PROCESSO
DI CURA
Ormai
la malattia d’Alzheimer colpisce un numero sempre più
rilevante di soggetti all’interno della popolazione mondiale e
sarà la nuova malattia del futuro. Proprio per questo occorre
prendere delle misure adeguate che possano aiutare il paziente in
prima persona, ma anche i familiari che gli stanno attorno, a vivere
al meglio la patologia e laddove è possibile a prevenirla o
curarla, anche se dall’ Alzheimer non si guarisce. Ciò
richiede non solo interventi specifici, ma anche interventi di vario
tipo che coinvolgano i pazienti, la famiglia e la stessa società.
La terapia incentrata sul paziente deve essere non solo medica e
quindi supportata dall’aiuto di farmaci adeguati che aiutino a
stare meglio, ma dovrebbe essere utilizzata anche una terapia
psicologica che miri ad accompagnare il diretto interessato e la sua
famiglia in questo viaggio agonizzante e a volte ricco di molto
dolore. Occorre considerare il paziente come una persona e non come
un malato.
Oltre
che le poche possibilità farmacologiche occorre rafforzare e
organizzare al meglio l’assistenza; la riabilitazione mirante a
contenere le perdite cognitive e a correggere i problemi
comportamentali; la terapia per ricompattare la coscienza di sé
e far ritrovare il senso degli oggetti, per rimettere in funzione i
meccanismi psichici basati sulle funzioni emotivo-affettive, oltre
che quelle cognitivo-intellettive. In più anche l’ambiente
attorno al paziente dovrebbe essere modificato in modo tale che non
sia il paziente ad adattarsi all’ambiente, ma sia quest’ultimo
ad adattarsi al paziente stesso.
Si
tratta in sintesi di offrire al demente uno stato di benessere, una
buona qualità di vita, un invecchiamento il più
sopportabile possibile e, soprattutto, libero da violenze, angosce ed
isolamento. Le relazioni umane giocano un ruolo davvero importante
nella cura della malattia. Il paziente avrà bisogno d’amore,
d’affetto, di pazienza e di presenza. Non basta fargli assumere
la dose di farmaco prevista al giorno. La vera cosa di cui si ha
bisogno è l’attenzione e il calore dei cari e dei
professionisti che si prendono cura dei malati d’ Alzheimer e
nessun farmaco o terapia medica al mondo potrà compensare
tutto ciò.
3.1
TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
I
trattamenti oggi disponibili sono prevalentemente ad azione
sintomatica e hanno l’obiettivo di migliorare la qualità della
vita del paziente, potenziando le funzioni cognitive e l’autonomia
funzionale e contrastando i disturbi comportamentali. Attualmente gli
inibitori delle colinesterasi rappresentano il trattamento di scelta
nella cura della malattia di Alzheimer. Negli anni Ottanta furono
introdotti dei farmaci di prima generazione come la fisostigmina e la
tacrina e successivamente, negli anni Novanta, fu introdotta una
seconda generazione di farmaci più adatti. L’applicazione
clinica dei AChEI non è stata accidentale ma basata
sull’analisi di dati fisiologici sperimentali e farmacologici
comportamentali del sistema colinergico ottenuti su animali e esseri
umani. L’ efficacia clinica sulla sfera cognitiva e sui sintomi
comportamentali nel trattamento dell’ AD ha confermato le
previsioni fatte in laboratorio. Il primo ChEI utilizzato nella
terapia di AD fu la fisostigmina, somministrata in diverse modalità
(Davis KL, Mohs RC. Enhancement
of memory by physostigmine. The New England Journal of Medicine 1979)
seguita dalla tacrina assunta per bocca. Successivamente
la galantamina fu testata per via orale. I ChEI sono stati introdotti
anche in condizioni cliniche come il MCI, la demenza in corso di
morbo di Parkinson, il delirium e sono stati anche testati nel
trattamento della demenza vascolare e a corpi di Lewy, in virtù
dell’importante coinvolgimento delle vie colinergiche.
L’attività
delle colinesterasi cambia nella corteccia cerebrale in pazienti con
AD avanzato. Essa si riduce progressivamente in alcune aree cerebrali
fino a raggiungere, nelle fasi avanzate, il 10-15% dei valori
normali. L’acetilcolina è liberata dopo il segnale dai
recettori e disgregata dall’acetilcolinesterasi. Nei pazienti
con AD vi è una ridotta quantità di acetilcolina per
cui si cerca di inibire l’attività
dell’acetilcolinesterasi per mantenere un buon livello di
acetilcolina. In contrasto con la riduzione delle AChE, sembra che vi
sia un aumento dell’enzima all’interno e in prossimità
delle placche in cui l’acetilcolinesterasi è
strettamente associata alla sostanza beta-amiloide. L’ AChE è
presente nel cervello in forme molecolari differenti. A seconda della
forma possiamo distinguere forme asimmetriche “a coda di
collagene” e forme globulari. La diversa azione di alcuni
inibitori potrebbe essere dovuta alla localizzazione dell’enzima
e alla capacità di penetrazione dell’inibitore piuttosto
che a una selettività tissutale o farmacologica. Nella
malattia di AD, la perdita selettiva della forma tetramerica legata
alla membrana suggerisce una localizzazione presinaptica. In pazienti
gravi, la forma tetramerica legata alla membrana risulta diminuita
nella corteccia frontale (-71%), nella parietale (-45%) e nel putamen
(-47%) rispetto ai controlli. L’inibitore ideale dovrebbe
essere in grado di inibire selettivamente AChE cerebrali, senza avere
alcun effetto su tessuti periferici come la muscolatura scheletrica e
cardiaca.
Una
strategia di inibizione dell’enzima acetilcolinesterasi
dovrebbe aumentare l’attività colinergica neuronale e
migliorare di conseguenza le capacità cognitive dei pazienti.
Fino ad ora i ChEI hanno dimostrato la maggiore efficacia
terapeutica, e raddoppiando i livelli di acetilcolina nella corteccia
di pazienti affetti da AD, possono ristabilire le normali
concentrazioni di neurotrasmettitore. I principali ChEI utilizzati
sono la tacrina, la rivastigmina, il donepezil e la galantamina,
inibitori reversibili o pseudo-irreversibili delle colinesterasi.
Essi hanno tutti prodotto miglioramenti statisticamente significativi
in trial clinici che utilizzavano test cognitivi e non-cognitivi
standardizzati che misurano la memoria, l’orientamento, il
linguaggio e la prassia. Oltre che un miglioramento delle capacità
cognitive, i farmaci apportavano un miglioramento sui sintomi
comportamentali: il 90% dei pazienti con AD presenta sintomi
neuropsichiatrici, il più importante fattore di stress per i
caregiver. Probabilmente il deficit colinergico ha un ruolo nello
sviluppo dei sintomi psicotici di AD, pertanto migliorare la funzione
colinergica con gli inibitori delle colinesterasi dovrebbe essere
utile a diminuire tali sintomi. Diversi studi hanno confermato un
effetto positivo dei ChEI nel ridurre i sintomi neuropsichiatrici nei
pazienti con AD. In particolare la tacrina, il donezepil, la
galantamina e il metri fonato si sono dimostrati efficaci nel ridurre
deliri, allucinazioni, apatia, agitazione motoria, depressione e
ansia. Questi studi confermano l’ipotesi di un legame
colinergico fra i sintomi cognitivi e comportamentali nella malattia
di AD. Essi dimostrano inoltre che la loro riduzione riduce il carico
del caregiver, ritarda l’istituzionalizzazione e potrebbe di
conseguenza diminuire i costi relativi alle cure. Tra i principali
effetti collaterali dei farmaci vi sono la nausea e il rallentamento
della frequenza cardiaca, motivo per cui si rendono necessari
periodici controlli elettrocardiografici. Purtroppo, va ricordato che
non tutti i pazienti rispondono a questa terapia e non si sa in
anticipo quali siano. La pubblicazione sulla rivista scientifica
“Lancet” nel giugno 2004 dello studio AD 2000, finanziato
dal Servizio sanitario britannico, ha innescato un dibattito
sull’utilità clinica di questi farmaci per la terapia
della malattia di Alzheimer che è proseguito in varie realtà
europee soprattutto per quanto riguarda il rapporto costo/beneficio.
La maggioranza della letteratura pubblicata concorda sui benefici
della terapia che, anche se modesti, rappresentano la prima concreta
speranza per i malati.
3.2
TERAPIA PSICOLOGICA
Il
paziente affetto da AD non va considerato come un malato ma come una
persona che sta vivendo una fase difficile della sua vita in cui non
riconosce più la sua essenza e quella dei suoi familiari,
oltre che il senso della sua vita. Una terapia farmacologica potrebbe
essere efficace per alleviare alcuni sintomi cognitivi e
comportamentali della malattia ma non basta, dato che dall’
Alzheimer non si può guarire. Per questo occorre supportare il
paziente e la sua famiglia con terapie che vadano oltre l’aspetto
biologico e neurologico e che invece trattino il lato psicologico,
psicosociale e umano della persona coinvolta nel disturbo.
I
tentativi di valutare tecniche efficaci nella gestione dei disturbi
psicologici e comportamentali sono numerosi. Gli interventi possono
essere rivolti ai pazienti oppure ai caregiver. Tra gli interventi
rivolti direttamente ai malati vi è la Stimolazione Cognitiva
– CST
che si configura come un intervento strategicamente orientato al
benessere complessivo della persona in modo da incrementarne il
coinvolgimento in compiti finalizzati alla riattivazione delle
competenze residue ed al rallentamento della perdita funzionale
dovuta alla patologia. La CST consiste nella stimolazione dei diversi
domini cognitivi quali l’attenzione, la percezione visiva, la
memoria, il linguaggio, attraverso prove con carta e matita e
attività di natura ecologica (quelle effettuabili normalmente
da un individuo nel proprio ambiente di vita). La CST si svolge in
piccoli gruppi di pazienti con un livello di deterioramento omogeneo,
coordinati da un operatore adeguatamente formato. La CST è
rimborsabile dal sistema sanitario nazionale. Tuttavia la possibilità
di accedere a questo tipo di intervento è limitata a poche
realtà.
Un’altra
tecnica che è sembrata davvero valida per i pazienti con AD è
chiamata Reality Orientation Therapy o ROT,
proposta come metodica cognitivo- comportamentale e come intervento
riabilitativo psico-sociale rivolto alla persona. La R.O.T. si è
mostrata efficace su pazienti dementi di grado moderato o lieve che
non presentano disturbi sensoriali o del comportamento
particolarmente gravi e con competenze linguistiche mantenute.
Obiettivo primario dell’intervento consiste nel preservare nel
paziente affetto da Alzheimer (AD), l’orientamento rispetto a
sé, all’ambiente circostante e alla propria storia di
vita. A partire da frequenti stimolazioni multimodali di tipo
musicale, verbale, grafiche, visive, tale tecnica si propone di
andare a rafforzare le informazioni base del paziente rispetto alla
sua biografia personale e alle dimensione spazio-temporale. La
tecnica di orientamento alla realtà può essere svolta
in piccoli gruppi (4-5 persone) o individualmente. L’interazione,
il confronto, tra i componenti del gruppo permette, infatti, di
rafforzare, le abilità sociali. Gli interventi ROT si dividono
in due categorie: ROT formale e ROT informale. La prima consta di
sedute giornaliere della durata di 45 minuti circa e può
essere individuale o di gruppo. L’approccio che caratterizza la
R.O.T. è di tipo pratico, pertanto, nel corso delle sedute
vengono proposti esempi vicini alla realtà di vita dei
soggetti allo scopo di favorire tutti quei meccanismi che agevolano
l’apprendimento procedurale (Bacci M., Valutazione cognitiva e
programmi di ginnastica per l’anziano, Casa editrice
Scientifica Internazionale, Roma, 2000). La R.O.T. informale, invece,
rappresenta in modo complementare quell’insieme di
facilitazioni temporo-spaziali (stanze colorate, segni di facile
interpretazione, calendari) introdotte dai familiari e dagli
operatori socio sanitari che ruotano attorno al paziente colpito da
Alzheimer al di fuori del setting della R.O.T. formale. La ROT
informale, costituisce, pertanto, un rinforzo all’orientamento
del paziente lungo tutto il corso della giornata.
Le
strategie utilizzate dalla R.O.T. incentivano l’orientamento
personale, temporale e spaziale dei soggetti. Vengono anche usati
ausili esterni, oggetti quali calendari, lavagne, timer, foto,
orologi, oggetti vari di uso comune, che possono essere visti come
dei veri e propri sostegni per l’attivazione dei processi
mnestici del paziente. E’ necessario fornire al soggetto il
supporto psicologico lungo tutto il percorso terapeutico, al fine di
incentivare la motivazione della persona (Bacci M., 2000). I limiti
maggiori di questa tecnica, consistono nella rapida caduta
dell’efficacia al termine dell’intervento stesso e nell’
assenza di ricadute sul piano funzionale, ossia sul livello di
autosufficienza. I risultati delle ultime ricerche, pertanto,
testimoniano la necessità di condurre il trattamento fino a
quando le condizioni del soggetto lo permettono, sia per consentire
un ritardo nell’istituzionalizzazione, spesso vissuto dai
familiari come ultima scelta e con sensi di colpa, sia per la
possibilità di preservare alcune importanti abilità
cognitive (Trabucchi M., Le demenze, Utet, Milano, 2002).
Per
i pazienti più gravi un altro tipo di approccio riguarda la
Validation
Therapy
che consiste in una serie di interventi destinati ad anziani affetti
da diversi gradi di deterioramento mentale e particolarmente indicata
per persone con decadimento cognitivo moderato o moderato severo,
grandemente disorientati e con disturbi del comportamento e del
linguaggio. E’ un intervento riabilitativo basato sulla
relazione tra l’operatore ed il paziente. L’ipotesi che
sostiene la validation è che la demenza riporta il malato a
episodi passati del suo vissuto e a conflitti relazionali, specie
familiari o con figure significative. Quindi non si tratta di
riportare il malato alla realtà attuale, come la R.O.T., ma di
seguirlo nel suo mondo per cercare di capire quali sono i sentimenti,
le emozioni e i comportamenti che derivano da questo suo rivivere
conflitti passati. In questo metodo molto importante è
l’utilizzo dell’empatia e quindi la capacità di
sentire ciò che sente l’altra persona. L’operatore
deve essere in grado di ascoltare i pazienti e dar loro tutta la
fiducia necessaria che occorre per motivarli a lottare e a ricordare.
La Validation Therapy può essere individuale o di gruppo (max
4-5 persone) e si basa su pratiche di aiuto che riguardano il
contatto, il contatto visivo, rispecchiare, riflettere i gesti che
esprimono vicinanza; prevede che il terapeuta si ponga in relazione
con la persona in modo semplice, guardandola sempre negli occhi,
utilizzando la gestualità e il contatto fisico e facendo
sempre riferimento all’esperienza soggettiva del paziente e non
a fatti oggettivi.
Il
memory
training
si inserisce tra gli interventi cognitivi. E’ rivolto a pazienti
affetti da demenza medio-lieve senza disturbi comportamentali, e ai
loro familiari. L’intervento si propone di stimolare e migliorare la
memoria procedurale del paziente coinvolgendolo nelle attività
di base e strumentali della vita quotidiana e di formare il familiare
del paziente. Il memory training viene svolto dall’educatore
professionale con il paziente alla presenza del famigliare. Esempi di
attività proposte durante l’intervento di memory training
sono: attività di cura e igiene personale (es. lavarsi i
denti); attività di cucina (es. preparazione del caffè);
attività legate all’abbigliamento (es. indossare una giacca);
attività legate alla comunicazione con l’esterno (es. spedire
una lettera, utilizzo del telefono).
Il
memory training ha una durata di minimo 8 incontri di 45 minuti
ciascuno e viene svolto in regime di Day-hospital. Il trattamento
cognitivo del paziente, offrendogli appropriate stimolazioni, evita
che disturbi cognitivi vengano aggravati dall’isolamento e dal ritiro
sociale e, nello stesso tempo, tutela il caregiver che ha bisogno di
"staccare" ogni tanto (Clare L; Woods RT; Moniz Cook ED;
Orrell M; Spector A: Cognitive rehabilitation and cognitive training
for early-stage Alzheimer’s disease and vascular dementia. The
Cochrane Library, Issue 1, 2004).
Un
altro trattamento è chiamato E.I.T.
(Terapia
di Integrazione Emotivo-affettiva). Si basa su lavoro di gruppo, uso
della musica, utilizzo del movimento e della danza, impiego di
oggetti simbolici e/o transazionali, ricostruzione di situazioni
relazionali simboliche, con un continuo controllo ed una attenta
interpretazione dei vissuti, letti come espressioni fenomenologiche
di processi psicodinamici espliciti e/o impliciti e profondi. Le
sedute si trasformano in esperienze condivise ed è proprio
questo aspetto che dà significato terapeutico al lavoro
finalizzato all’integrazione della personalità.
Moltissimi sono stati i “miglioramenti” ottenuti,
documentati in una decina di lavori sull’autismo, sull’handicap
psichico, sulle disfunzioni psicotiche, sulla malattia di Parkinson,
sulla malattia di Alzheimer.
Ormai
si sono sviluppate moltissime altre tecniche più generiche e
semplici da mettere in atto. Tra queste ritroviamo la musico-terapia
individuale che è rivolta a pazienti affetti da demenza di
grado moderato-severo, con associati problemi di linguaggio. Essa si
pone come obiettivo la stimolazione cognitiva attraverso l’utilizzo
di elementi sonoro-musicali e lo sviluppo di un processo di relazione
all’interno di un contesto non verbale. La durata dell’intervento è
di 15 incontri di un’ora ciascuno. Oltre che interventi di
musico-terapia individuale, ci sono anche quelli di gruppo (Raglio
A., Manarolo G., VillaniD. Musicoterapia e malattia di Alzheimer. Ed.
Cosmopolis,2001).
La
terapia
occupazionale
è rivolta a pazienti con demenza moderata e iniziale
compromissione funzionale. Cerca di attivare la stimolazione delle
capacità funzionali (es. di manualità fine); di
capacità cognitive (es. attenzione, apprendimento) e della
creatività. Il paziente durante la terapia occupazionale ha la
possibilità di sperimentare le proprie capacità manuali
e creative utilizzando vari materiali (es. carta, stoffe,...) e
trasformandoli in prodotti finiti. L’intervento riabilitativo viene
svolto in regime di Day-hospital e ha una durata di 4 settimane dal
lunedì al venerdì per un’ora al giorno(Miller PA; Butin
D. The role of occupational therapy in dementia-C.O.P.E. Caregiver
options for practical experiences. Int J Geriatr Psychiatry 2000).
Il
contatto con gli animali si è dimostrato utile in disturbi
cognitivi e comportamentali di varia origine ed età, e dati ne
indicano l’efficacia anche nelle persone con demenza. In base
a ciò è nata la Pet
Therapy
la cui funzione è di stimolo ad attività (dalla
carezza alla passeggiata, all’alimentazione, al gioco) ma anche
a ricordi, senza trascurare lo stimolo sensoriale (tattile,
olfattivo, visivo) e la grande interazione affettiva che un animale
può donare al suo padrone. (Kanamori M; Suzuki M; Yamamoto K;
Kanda M; Matsui Y; Kojima E et al. A
day care program and evaluation of animal-assisted therapy (AAT) for
the elderly with senile dementia. Am
J Alzheimers Dis Other Demen 2001).
Modello
bio-psico-sociale
Nelle
varie terapie considerate, la forza motrice si basa su un elemento
che viene richiesto a tutti gli operatori che lavorano con i pazienti
affetti da demenza e in particolare dall’Alzheimer: l’empatia.
Bisogna essere in grado di avvertire, gli stati d’animo del
paziente, di vedere con gli occhi suoi, di sentire ciò che lui
sente. E’ proprio su questo pilastro che nasce ciò che è
parte di ogni approccio terapeutico- psicologico, ossia l’alleanza
terapeutica. Con questo termine, la cui nascita risale a Freud
(1914), oggi si descrive la natura della relazione che si deve venire
a creare tra il paziente-persona e il medico-alleato del paziente. Il
paziente non deve essere visto come un semplice malato a cui si
assegna una diagnosi e un trattamento; egli deve esser visto come una
persona che non solo ha bisogno di una cura: il medico deve anche
prendersi cura di lui dal lato emotivo- affettivo. Affinchè la
terapia psicologica funzioni, si deve erigere un ponte tra il
paziente e il professionista basato sulla comunicazione,
sull’ascolto, sulla fiducia reciproca. Medico e paziente devono
collaborare insieme e devono insieme vincere una lotta comune: quella
contro la malattia. L’Alleanza terapeutica quale presupposto nel
lavoro medico-paziente costituì una vera e propria rivoluzione
copernicana in ambito medico, caratterizzato da sempre da una certa
resistenza della scienza medica “positiva” alla relazione
e dove la qualità della relazione tra medico e paziente non
era presa assolutamente in considerazione, anzi quasi disturbava sia
la ricerca scientifica sia la pratica clinica. La medicina era una
scienza positiva e per questo basata solo sull’oggettività
della malattia. Le variabili soggettive non venivano assolutamente
prese in considerazione. L’obiettivo era semplicemente quello
di curare il paziente dalla malattia, intesa solo sul piano
fisiologico, biologico e fisico, e quindi di curare i sintomi. Non
esisteva il prendersi cura del paziente come persona. Si effettuava
la diagnosi e il paziente guariva nel momento in cui si eliminavano i
sintomi. Questo modello metteva al centro della sua attenzione la
malattia e non il paziente.
Per
fortuna nel 1980 George Engel rese noto il fatto che un modello
medico non deve vedere la malattia come un insieme di sintomi
fisiologici e biologici. Si devono prendere in considerazione anche
tutti i fattori che influiscono sull’intera persona e
contribuiscono ad apportare cambiamenti nello stato di salute. Il
soggetto deve essere inteso come persona‐mente‐cervello
all’interno di relazioni familiari e sociali significative.
Così Engel fondò il famoso modello bio- psico- sociale
come un modello di medicina centrato sul paziente (patient-centred)
attraverso cui il baricentro terapeutico in medicina si è
spostato dal concetto di guarigione a quello di qualità della
vita. Engel considerò che l’apparire di una malattia
dipende dall’interazione di diversi fattori causali, inclusi
quelli a livello molecolare, individuale e sociale. Inoltre le
alterazioni psicologiche possono, in particolari circostanze,
manifestarsi come malattie o forme di sofferenza che costituiscono
problemi di salute, incluse le alterazioni biochimiche. In questo
modello si esalta come le variabili psicosociali siano i determinanti
importanti di suscettibilità, gravità e decorso di una
malattia; come adottare il ruolo di malato non sia necessariamente
associato alla presenza di un problema biologico; e come l’esito
e/o il successo della maggior parte delle terapie biologiche è
influenzato dai fattori psicosociali.
Dal
“to-cure” si passa al “to-care”, al prendersi
cura e non al guarire e basta e la cura, secondo un’ottica
psicologico‐clinica,
è basata sul rapporto intersoggettivo, nella considerazione
dell’essere umano. I nuovi compiti relazionali del medico in
ogni ambito della sua attività dovrebbero anche riguardare la
propensione a creare fiducia, sviluppare empatia, coltivare la
curiosità del paziente, educare le emozioni , comunicare con
prudenza le prove cliniche. Inoltre tale approccio considera il
corpo umano come una configurazione di vari sistemi come organi,
cellule, emozioni, pensieri, collegati a sistemi esterni più
ampi come la famiglia, le relazioni. Da questo inquadramento teorico
è nata la Psicologia della Salute che mira a prevenire
piuttosto che a curare la malattia e la Psicologia Positiva che
esalta come il pensare positivo durante il decorso di una malattia,
possa aiutare il paziente a migliorarne i sintomi e ad arrivare più
facilmente alla guarigione, là dove è possibile.
Oggi
ormai si pensa che una terapia centrata su tutto ciò aiuterà
molto di più il paziente ad affrontare la malattia e la
sofferenza che essa stessa arreca.
3.3
LA RETE DEI SERVIZI
La
demenza e in particolare l’Alzheimer, rappresenta uno dei
principali problemi sanitari e sociali in considerazione della sua
prevalenza in età avanzata. Il problema è dato dal
fatto che la malattia porta a una compromissione funzionale e a
deficit importanti che riguardano le attività quotidiane. Ecco
perché questo tipo di patologia colpisce non solo il diretto
interessato ma anche la rete di familiari e amici che ruota attorno a
lui. La maggior parte dei pazienti affetti da demenza, circa l’80%,
vive in famiglia (Zanetti O, Bianchetti A, Trabucchi M. Compiti
dell’assistenza post-diagnostica al paziente demente. In:
Villani D. Patologia post acuta nel paziente anziano. Piacenza, 1994)
e i due terzi dei pazienti affetti da AD sono assistiti da familiari
e amici (US Congress, Office of Thechnology Assessment. Losing
a million minds: confronting the tragedy of Alzheimer’s disease
and related dementias. Washington,
1987), di cui il 70% è rappresentato da donne per lo più
coetanee. La malattia apporta costi di vario genere: occupazionali e
finanziari; sociali dati dall’isolamento sociale; emotivi,
derivanti dallo stress e dalla preoccupazione che la malattia arreca
e fisici. Sono i disturbi comportamentali a incidere maggiormente
sullo stress che si può venire a creare in famiglia, dato che
a volte diventa difficile controllarli. Questo alle volte può
portare i familiari stessi a decidere di istituzionalizzare il
paziente, anche se a malincuore.
In
questi casi è importante considerare le forme di aiuto
assistenziale di tipo formale. Esse si distinguono in differenti
categorie:
Assistenza
Domiciliare Integrata (ADI): esalta l’importanza di lasciare
gli anziani al proprio domicilio e riconosce la centralità
del ruolo dei familiari, consentendo una migliore qualità di
vita e un rallentamento dei deficit funzionali. Essa richiede il
coinvolgimento diretto dei familiari. L’assistenza domiciliare
può essere fornita da un team di caregiver ma si può
rilevare molto costosa e questo potrebbe essere un ulteriore
elemento di stress per i familiari. In uno studio condotto nel
1994, si è dimostrato che la maggior parte dell’assistenza
terminale è svolta a domicilio (Collins C, Ogle K. Patterns
of predeath service use by dementia patients with a family
caregiver. JAGS 1994).
Residenze
Sanitarie Assistenziali (RSA). La decisione di istituzionalizzare il
paziente risulta innanzitutto essere davvero difficile, in quanto i
suoi familiari possono sperimentare un forte senso di colpa dovuto
all’idea di “abbandonare” il parente in mano di
gente esterna e poco vicina a lui. Tuttavia alle volte può
essere davvero necessario. La responsabilità dei familiari
tuttavia non viene totalmente meno quando il paziente viene inserito
nei RSA, in quanto spesso vengono coinvolti in riunioni con lo staff
dei medici e degli infermieri per essere aggiornati anche sui
progressi che il paziente sta svolgendo. Le strutture RSA si
occupano principalmente di tutelare l’integrità fisica
del paziente senza andare oltre.
Le
Special Care Units per l’AD sono state introdotte negli USA e
in Canada e presentano specifici criteri di ammissione e dimissione,
attività peculiari per i pazienti, uno staff adeguatamente
addestrato, caratteristiche ambientali specifiche e protocolli di
assistenza approfonditi sia per il paziente che per i suoi
familiari. Si tratta di unità che accolgono i pazienti solo
nelle fasi precoci della malattia. Poi di qui i pazienti vengono
trasferiti nelle normali strutture. Queste strutture sono state
ideate al fine di ridurre i sintomi comportamentali tipici delle
RSA. Ma i risultati
ottenuti sono sembrati poco efficaci.
Centri
Diurni sono ormai diffusi in molti paesi e possono dividersi in
centri diurni specifici per demenza, non specifici per demenza o non
demenza-tipo. Il centro diurno comprende due tipi di modelli :
quello clinico-sanitario e quello sociale. I pazienti meno gravi
possono usufruire di entrambi i modelli; quelli più gravi,
invece, solo del modello clinico per 4-8 ore al giorno, assistiti da
professionisti specializzati che alle volte devono utilizzare la
terapia farmacologica. Nei centri diurni clinici i parenti dei
pazienti possono sostare meno e molto spesso il malato viene
trasferito da qui alle RSA o muore direttamente nella struttura
diurna.
Il
Day Hospital costituisce la struttura adatta per diagnosticare
correttamente le demenze non reversibili, fornire specifici
protocolli di riabilitazione, prevenire le malattie concomitanti,
gestire i sintomi comportamentali lievi e informare adeguatamente i
caregiver. I migliori candidati per un servizio di questo tipo sono
i pazienti con demenza lieve o moderata e con scarsi disturbi
comportamentali (Zanetti O, Bianchetti A, Magni E, Trabucchi M.
Potential roles of a psychogeriatric Day Hospital. Int
J Geriatr Psychiatr 1993).
La
figura della “badante”, è entrata a far parte
delle risorse a cui attingono le famiglie italiane per la cura degli
anziani. I motivi saranno dati dalla disponibilità della
badante di presenziare notte e giorno accanto alla persona priva di
autonomia, soprattutto se la persona vuole vivere a casa propria
senza gravare su un familiare. Il triangolo
“anziano-badante-famiglia” sta inventando nuove
convivenze, basate sulla buona volontà degli interessati;
anziani che accolgono e si lasciano accudire da persone estranee.
Questo equilibrio non può essere affidato solo alla buona
volontà dei privati ma esige sostegno e garanzie pubbliche.
La badante potrà chiedere assistenza, nei casi più
difficili, a un tutor professionale che le dia una mano
nell’assistere l’anziano.
Le
spese delle malattia sono davvero elevate non solo in termini di
tempo ma anche in termini di costi e quindi di entrate, dato che
molti familiari abbandonano il lavoro o passano al part-time per
assistere il paziente, e di uscite dovute alle spese d’assistenza.
E il tutto può pesare sul caregiver anche a distanza di tempo,
sulla pensione e le dovute retribuzioni. Inoltre, le trasformazioni
socio-demografiche che prevedono un aumento della vita, un calo della
fecondità, la crescente partecipazione delle donne nel mondo
del lavoro, porteranno le famiglie a scegliere sempre più
l’assistenza a pagamento. Si stima provvisoriamente un
incremento dell’85% dei costi da qui al 2030, basandosi
solamente sull’aumento previsto del numero delle persone
affette da demenza. I costi della malattia aumenteranno sempre più
per tutti e per questo gli operatori dovranno sperimentare programmi
più specifici e risorse più adeguate per controllare al
meglio questo fenomeno in crescita.
CONCLUSIONI
L’Alzheimer
è una delle più brutte, delle più inaccettabili
malattie che colpisce numerosi pazienti. Eccolo il paziente di AD con
la sua memoria che in poco tempo se ne va. Ti guarda e mentre ti
guarda è come se fissasse il vuoto. Per lui tutti diventano
estranei: non basta più un nome, una foto, un dettaglio, un
racconto. Tutto è inutile per ricordare. Anni e anni vissuti
che si trasformano in cenere. Non esiste più nulla. E così
lo stupore è la prima cosa che un familiare prova. Ma
quest’ultimo subito lascia il posto alla rabbia, al rancore, e
alle mille domande sul perché sia successo proprio a lui. Ma
alla fine subentra solo la rassegnazione. Non si può far nulla
che accettare e guardare quel frammento di vita che tramonta, non
portando nulla con sé. Inizia una battaglia senza fine. La
presenza si trasforma in assenza, vuoto, freddo. Ma alla fine non
resta che fare una semplice cosa: non lasciare mai la mano a quella
persona che potrebbe essere un marito, un padre, un nonno. Anche se
lui non ci riconosce più, noi lo riconosciamo: è sempre
lui, la stessa persona che si è sposata, che ci ha cresciuti,
che è vissuta con noi. Non è vero che di una vita
intera non resta niente. Resta l’amore che ci lega a quella
persona, l’affetto e i ricordi che devono essere preservati da
chi li possiede. E questo amore è ancora più speciale
di quello comune. E’ un amore che diventa ancor più vero e più
puro, perché gratuito: ormai non si può chiedere più
nulla, neppure di essere capiti e ricambiati. Si può solo
dare, incondizionatamente
e con il cuore.
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Zanetti
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Dott.ssa
Laterza Alessia - SFPID
2° ANNO DI SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE
BARI
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