Questo
lavoro, rappresenta la naturale evoluzione di un articolo (Essere precario...) scritto l’otto gennaio duemiladodici, spinto da alcune importanti considerazioni di mio fratello Mariano, su nostra madre. A distanza di più di
quattro anni, l’esperienza maturata grazie anche al confronto con i
tanti ragazzi del mondo della scuola, incontrati nell’ambito di
programmi e progetti di orientamento al Lavoro e alla Vita. Più
che riproporlo, si è cercato di ripensarlo, pur mantenendone
le caratteristiche di base. Una sorta di ottimizzazione, insomma.
BUONA
LETTURA
A spasso verso un futuro migliore
Sono solo i frammenti dell’uomo che ero solito essere. Troppe lacrime amare si stanno riversando su di me. Sono molto lontano da casa e sto affrontando tutto questo da solo, da troppo tempo. Mi sento come se nessuno mi avesse mai detto la verità su come crescere e sullo sforzo che avrebbe comportato nella mia mente piena di confusione... Sto guardando indietro per scoprire dove ho sbagliato. Troppo amore ti ucciderà se non riuscirai a deciderti: diviso tra l’amante e l’amore che lasci indietro, vai incontro ad un disastro perché non hai mai letto le indicazioni. Troppo amore ti ucciderà, ogni volta. Sono solo l’ombra dell’uomo che ero solito essere e sembra che per me non ci sia alcuna via d’uscita da tutto ciò. Ero solito ridarti la felicità, adesso tutto ciò che faccio è deprimerti: come sarebbe se tu fossi nei miei panni? Non vedi che è impossibile scegliere? Non c’è alcun senso in tutto questo. Qualunque strada io intraprenda, devo perdere. Troppo amore ti ucciderà, come quando non ne hai affatto. Prosciugherà la forza che c’è in te, ti farà gridare, implorare e strisciare. E il dolore ti renderà pazzo, sei la vittima del tuo crimine: troppo amore ti ucciderà, ogni volta! Troppo amore ti ucciderà, renderà la tua vita una farsa... Sì, troppo amore ti ucciderà. E non riuscirai a capire il perché Daresti la tua vita, venderesti la tua anima... ma sarà di nuovo così: troppo amore ti ucciderà, alla fine... (Freddie Mercury - The Queen)
Madre è un termine comune a quasi tutte le lingue del mondo e significa "misuratrice, ordinatrice", da cui tutto trae origine, in maniera ordinata. Ecco quindi, che, etimologicamente, identifica "ciò che produce", "che contiene" e, quindi, porta in sé, la sorgente, la causa prima.
E allora, forse è per questo che di fronte ad un pericolo, ognuno di noi esclama, inconsapevolmente e irrefrenabilmente: "Oh... mamma mia!". Che diventa "Oh, Madre mia!" quando siamo avvinti da un grande dolore, o dal vuoto dell’angoscia esistenziale. Ecco perché, quando allentiamo l’abbraccio da questa generatrice e, osservandola allontanarsi scendendo verso quel Gange che è l’epilogo della vita terrena, ci sentiamo così precari.
Oh, Madre mia!
Te ne sei andata via, oh madre mia! Ti sorregge un giovane ragazzo, oh madre mia, con un fiore bianco davanti! Oh madre mia, con me anche mia moglie... Oh madre mia, te ne sei andata per sempre! (Pivio e Aldo de Scalzi)
Ogni tanto accade che, irrefrenabilmente giunga, nella vita di ciascuno, il momento di fare un po’ di pulizia. Nell’attesa di riposizionare questioni esistenziali, si comincia con l’eliminare un po’ di confusione dai cassetti, come una sorta di catarsi simbolica. Ed è stato così che, proprio quest’oggi, come una pergamena dissepolta, ho ritrovato una indimenticabile dedica, ad una mamma speciale.
Mamma, ricordi? Fosti tu a darmi, il primo, tenero abbraccio... mi hai concesso il privilegio di dare l’ultimo a te. Un triste addio sulla Terra per ritrovarsi uniti nella dimensione dell’amore infinito che unisce una mamma ai propri figli, andando oltre la morte, al di là del tempo e dello spazio. Mamma, puoi credermi, in entrambi i casi, quell’abbraccio è stato appagante, caldo, intenso... come solo una madre sa dare e che solo un figlio può capire. Oh, Mamma, sdraiata sul tuo ultimo giaciglio... così simile ad un esile filo d’erba nel mezzo di un morbido prato su cui poter rotolare, dal quale, ancora farsi dolcemente accarezzare. Da accudire ed amare. (Mariano Marchese)
Oh, madre mia!
Da
che Mondo è Mondo, ciclicamente, una generazione è
stata "sacrificata", a favore dei superstiti. Senza
affondare i ricordi nella notte dei tempi, (almeno per quanto ci
riguarda) è stato così per le guerre di Indipendenza,
le due guerre mondiali, i vari altri conflitti internazionali, le
vittime della droga, le varie contestazioni studentesche (dal ’68,
in poi), il periodo brigatistico. E, per finire, il precariato
sociale contemporaneo.
“Igne
Natura Renovatur Integra"
Come
avrete potuto notare, al centro dell’immagine proposta, in basso, si
può leggere un acronimo che, contrariamente a quello che si
pensa, prima di identificare “Gesù Nazareno, Re dei
Giudei”, soleva intendere il fatto che, la Natura è
Rinnovata interamente nel Fuoco. In pratica, ogni “tot”
generazioni, si “brucia” un sistema, per ripartire in
modo e in Mondo, dove Tutto non è più come prima...
A
differenza del passato, però, oggi non c’è un
leader traghettatore: un Garibaldi, un Armando
Diaz, un Eisenhower, un Che
Guevara, un Nikita Kruscev, un Kennedy, un de
Gasperi...
"In
ogni organizzazione c’è sempre una persona che sa
esattamente che cosa succede. Questa persona deve essere licenziata".
(Legge di John Horton Conway - Matematico inglese)
Attualmente,
possiamo "contare" su una pletora, relativamente
impreparata, di individui inseriti in un domino fatto di caselle che
condividono lo stesso destino, senza variabili indipendenti:
governanti "usa e getta" , una sorta di “Anime Morte”
obbedienti a princìpi convulsi e scriteriati che, i più,
chiamano "leggi di mercato".
In pratica, un
sistema che si autoalimenta senza copertura finanziaria e in assenza
di valori etici, per soddisfare appetiti tanto bulimici quanto
nevrotici e inutili. Per dirla in soldoni (sempre in Italia) se, per
esempio, negli anni della rinascita economica, il figlio di un
operaio poteva frequentare la Normale di Pisa e, conseguentemente
trovare una giusta collocazione fino ad arrivare ad essere (come
Fabio Mussi) addirittura, Ministro della Repubblica, al giorno
d’oggi, è meglio essere un totale incompetente, servo sciocco del potere, che un laureato
alla Bocconi di Milano.
Fin
dall’epoca degli antichi Greci e Romani (2° - 4° secolo
D.C.) i rappresentanti di alcuni movimenti filosofici, religiosi ed
esoterici come, ad esempio, lognosticismo, si
consideravano stranieri, in un Mondo creato e governato da Potenze
oscure che nulla sanno del “comparto divino” ad esse
superiore, sentendo in loro, la scintilla della Sapienza (che non
proveniva dai fabbricatori di questo mondo, ma dal Pleroma, il mondo
superiore). Si riteneva, quindi, che gli umani potesseroessere
racchiusi in tre categorie: gli Ilici (incapaci
di controllare le proprie emozioni e in grado, solo, di appagare i
bisogni più infimi), gli Psichici (
capaci di dominare i bassi istinti ma, non di esserne completamente
liberi) e gli Pneumatici (che
posseggono il seme della Sapienza e sono predestinati a
ricongiungersi col Mondo divino superiore).
Ebbene...
ancora
oggi, si presume che esista un (relativamente) ristretto gruppo di
oligarchi che, partendo dall’assunto prima esposto, hanno, come
obiettivo, quello del ritorno ad una sorta di medioevo dell’umanità,
in cui pochi comandano e, i più, ritornano ad essere schiavi.
E,
infatti, dopo la trasformazione della classe contadina e il
dissolvimento del mondo operaio (rispetto a come lo conoscevamo fino
agli anni settanta), il nuovo bersaglio da affossare, è
diventata la cosiddetta “classe media” che, infatti, al
pari di chi sta messo peggio, sulla scala sociale, perde potere
d’acquisto e viene privata, gradualmente, di ogni forma di
assistenza sociale. Il tutto, per ottenere, una divisione sempre più
netta fra chi comanda e chi subisce. Dando la possibilità
agli “ Psichici” (collocabili,
presumibilmente nella middle class) che si stabilisce essere utili,
di “elevarsi” al rango superiore.
È
notizia di qualche settimana fa che, il Fondo Monetario
Internazionale, nelle
pieghe del suo Global
Financial Stabilityavverte
chela
longevità delle popolazioni occidentali (ossia il famoso
“allungamento delle aspettative di vita), mette a rischio i
bilanci degli stati più sviluppati. In pratica, in Mondo in cui, ogni potere è stato affidato alla
Finanza (cioè alle speculazioni di biechi immaturi che godono
guadagnando sulle disgrazie altrui), nessuno Stato in cui si profili
un alto costo del Welfare, può emettere titoli borsistici
appetibili per gli investitori...
"Lasciatemi
affermare la mia più grande convinzione: la più grande
crisi che dobbiamo affrontare, è la paura di non farcela"
(Franklin Delano Roosvelt)
Secondo le
indicazioni che ci forniscono analisti internazionali, si prospetta
uno scenario in base al quale:
gli
attuali quarantenni non riuscirebbero a vivere con la pensione che
li attende;
i
trentenni si troverebbero a non avere presente (in quanto precari
cronici) né futuro (perché non maturerebbero i
requisiti per alcuna pensione);
quelli
che, ad oggi, sono diciottenni (o giù di lì) avrebbero
qualche spiraglio a condizione di trovarsi una famiglia alle spalle
che costruisca i presupposti per una loro collocazione operativa;
i
bambini, quelli che hanno non più di 8 -10 anni, si
troverebbero (una volta ripartito il sistema globale, dopo default
vari e reset) a poter usufruire di nuove prospettive, umane, sociali
ed occupazionali. In un Mondo completamente diverso, ovviamente.
"Non
esiste il vicolo cieco, ognuno deve sempre andare avanti trovando la
propria via d’uscita" (Giorgio Fornoni)
Oh,
madre mia!
Il
termine precario deriva dal latino e identifica una
posizione ottenuta, a seguito di preghiera, per concessione altrui e,
di conseguenza, condizionata (nella qualità e nella durata)
dalla volontà del concedente.
Ma
allora, perché per realizzarsi, in questa Società, il
talento non basta?
Talento.
Oscuro e agognato termine che indica capacità naturali
nell’inclinazione verso obiettivi. Chiunque sia dotato di un
cervello strutturato in maniera normale, non può (per
definizione intrinseca) essere privo di un talento potenziale. Gli
impegni neurofisiologici di cui siamo capaci (scambiare anidride
carbonica per ossigeno, generare e inviare mirabili impulsi che si
trasformeranno in idee e vita, determinare battiti cardiaci, riuscire
a deambulare e coordinarsi in qualsiasi momento e posizione, parlare
allo smartphone e, contemporaneamente, allacciare le scarpe e leggere
il giornale, filtrare tossine mediante fegato, reni e polmoni, etc.)
evidenziano attitudini impossibili anche al miglior computer.
E
allora, dov’è l’inghippo?
Nel
rapporto fra noi e gli altri, ogni volta che necessitiamo di proporre
uno scambio (lavoro in cambio di attenzione e remunerazione, per
esempio), dobbiamo attirare l’attenzione dell’interlocutore,
partendo dal principio che, quest’ultimo, si considera (anche
quando soffre di complessi di inferiorità), migliore di noi.
Altrimenti rifiuterebbe l’incontro, per paura. Quindi, prima di
ogni altra cosa, dobbiamo renderci interessanti, ai suoi occhi.
Studiare l’ambiente; capire quello che cerca, ciò di cui
ha bisogno veramente (anche se non lo ha, ancora, consapevolizzato) e
quanto è disponibile a valutare altro, oltre i propri
pregiudizi; verificare il grado di flessibilità altrui;
stabilire quello che si è disposti a proporre, con competenza
(senza rimetterci in dignità): sono questi i fattori da
applicare e che faranno la differenza fra il fallimento e il
successo.
E
quindi, per i giovani o, comunque, i precari... quale realtà?
Oh,
Madre mia... tutta la vita davanti!
I
giovani di oggi, così come quelli di ieri, si devono esprimere
in qualche modo. Poi, chi è giovane? Chi è appena
uscito dall’Università? Chi è appena uscito dal
ciclo di studi che esiste prima dell’eventuale iscrizione
all’Università? Chi ha perso il lavoro e deve
ricominciare daccapo? Chi non l’ha mai trovato? Chi si trova in
mobilità? Chi in cassa integrazione?
Insomma:
chi è?
Giovane è
colui il quale ha delle opportunità perché sente di
valere qualcosa e ha voglia di proporsi prima che la delusione
prevalga sulle aspettative, trasformando il tutto in una illusione
malinconica. E allora, a queste condizioni, giovani possiamo esserlo
tutti.
Precario e precariato:
cos’è?
Qualcosa
di instabile, con un equilibrio che non reggerà a lungo e che,
prima o poi, cadrà da un piedistallo di fortuna.
Sociale
L’ambiente
che costituisce il sistema all’interno del quale noi viviamo.
Per
cui, precariato sociale è tutto quello che
troviamo "intorno" e "dentro" di noi e che, pur
non trovandosi in equilibrio, ci dà l’opportunità
di andare a cercare altri equilibri.
E
allora, cosa ci può salvare?
Sostengono
antichi saggi che come accade per un uovo, quando la “rottura”
(cioè, il cambiamento) avviene da fuori, la vita finisce
(perchè ti assoggetti alla volontà dell’altro);
quando, invece, la crepa, parte da dentro, la vita comincia (creando,
di fatto, la propria autonomia).
Fuor
di metafora, quello che conta, in un Mondo dove, per sopravvivere, si
è costretti a spegnere le aspettative a “buttare a zero”
il valore di quasi ogni cosa (e si finisce col diventare come il
soggetto dell’immagine precedente, quello della “generazione
Iphone”, con lo sguardo perso nelle proprie ossessioni) è
il recuperare il senso delle proprie emozioni, per far nascere una
voglia di “ripartenza”.
Sentire
le proprie emozioni...
Ti
voglio chiedere una cosa: Perchè sei vivo?
Io
sono vivo... io vivo... per salvaguardare la continuità di
questa grande Società, per servire l’Idea...
E’
circolare: tu esisti per continuare la tua esistenza! Ma, qual è,
il punto?
E
qual è il punto della “tua” esistenza?
"Sentire”.
Tu non l’hai mai provato e non potrai mai saperlo, ma è
vitale come il respiro. E senza quello, senza amore, senza rabbia,
senza dolore, il respiro è solo un orologio che fa tic tac!
(Da Equilibrium)
Le
attuali neuroscienze, ci spiegano che, nel nostro cervello (luogo
scelto dalla Mente per esprimersi in idee, emozioni e comportamenti)
esistono due ambiti operativi:
quello
relativamente “intermedio” (definito subcorticale) a
funzione prevalentemente inconsapevole che dà luogo alla
creazione delle abitudini;
quello
dei piani “nobili” (definito “corticale”) in
cui usciamo dal guscio del già “visto” e
“sentito” e andando incontro al nuovo, miglioriamo noi
stessi, attraverso il sacrificio (cioè, un atto sacro) della
paura di ciò di cui non conosciamo il finale.
Per
come siamo strutturati, ogni volta che proviamo a fermarci nel limbo,
dopo un conflittuale purgatorio, saremo costretti, per via
dell’aumento della confusione interiore fatta, anche, di noia
(ciò che la Fisica chiama “entropia”) siamo
costretti ad andare, per forza, oltre le colonne d’Ercole, nei
meandri della corteccia cerebrale, in connessione con la “Teoria
del Tutto” che ci collega con ogni cosa del Creato.
L’obiettivo
diventa quello di una crescita condivisa. La Pena nel caso in cui ci
si rifiuti, consiste nella perdizione verso l’Oblio (sotto
forma dei più svariati sintomi descritti nel DSM, “bibbia”
dei disturbi psichiatrici).
A
volte, però, commettiamo un errore fatale...
Consideriamo,
infatti, l’obiettivo da cercare, come qualcosa di sicuro e
stabile, per cui tutto quello che è instabile crea angoscia,
crea preoccupazione, crea ansia. Però, non esiste un
equilibrio stabile perché tutto è in movimento sulla
base delle necessità; e allora, questo vale per il nostro
corpo, vale per la nostra mente, vale per il sistema fatto da tante
persone che hanno un corpo e una mente... e anche dal resto: da
alberi, da fiumi, tutto è in movimento.
E allora, un
lavoro che io metto in piedi o che mi viene concesso di portare
avanti, avrà un senso e un potenziale, fintanto che resteranno
le condizioni per cui, qualcuno, vorrà ancora quello che io
sono capace di fare e di dare. Se, invece, questo non accadrà
perché i bisogni o quantomeno, la necessità di appagare
i bisogni, si modifica ed io non seguo le esigenze di chi poi mi
commissionerà un operato, è chiaro che resterò
fuori dalla richiesta altrui.
Ci sono solo due giorni all’anno in cui non puoi fare niente: uno si chiama "Ieri", l’altro si chiama "Domani". Perciò, "Oggi" è il Giorno giusto per Amare, Credere, e, principalmente, Vivere (Dalai Lama).
E se il lavoro, ancora, non ce l’ho?
Fermo restando che, precari, lo si può essere a qualsiasi età, attenzione a non perdersi dietro al mito del posto fisso e dello stipendio garantito che, come possibilità assoluta, non esiste più per nessuno. È necessario acquisire la mentalità imprenditoriale basata sul concetto di flessibilità che porta a rendersi conto di ciò che serve, quando serve e come proporlo, senza dar fastidio agli altri. Innovare e applicare (in ciò che la gente è disponibile ad accettare, ovviamente). E poi lasciare il campo ad altri. E continuare ad innovare spremendosi le meningi. Questa è legge di Natura. Anche in mezzo a chi prova a farti lo sgambetto.
Un cardellino non canta perché ha una risposta ma perché ha una canzone da portar fuori (Proverbio cinese)
In
oriente, catturano le scimmie con un semplice artifizio. Si servono
di un cesto con una piccola fessura e poi ci mettono dentro un
frutto; dopo di ché, legano il cesto ad un palo. La scimmia
arriva, mette la zampa dentro il cesto e afferra il frutto. Chiudendo
la mano e stringendo saldamente il suo premio, la mano diventa troppo
grossa per uscire dalla fessura. Allora gli uomini arrivano e la
catturano. In pratica, resta intrappolata dalle sue stesse credenze.
Non c’è nient’altro che la trattiene. Potrebbe
andare via facilmente se lasciasse andare il frutto. Ma non mollerà
la presa. Ciò che la intrappola è la seguente
convinzione: "Se lascio andare la presa, perderò
qualcosa" (Lee Coit "Accettare")
Oh, madre
mia,questo stesso concetto intrappola anche noi.
Sentiamo che, se
lasciamo andare ciò che abbiamo (le nostre abitudini
limitanti) non saremmo più gli stessi. E, la cosa, ci fa
paura. Così ci aggrappiamo saldamente a ciò che siamo
e, rifiutandoci di cambiare, restiamo intrappolati. Se lasciassimo la
presa, saremmo liberi!
Cari lettori
(giovani e no), provate a riflettere sul seguente estrapolato del
dialogo fra il Cav. Alfonso Carotenuto (erede della
famosa ditta di calzature "Carotenuto e figli")
e l’Ingegner Luciano de Crescenzo, riportato nel
libro di quest’ultimo, intitolato "Usciti in
fantasia". (Mondadori Editore). Solo
trasmettendo l’amore per ciò che facciamo, susciteremo,
negli altri, la voglia di amarsi, apprezzandoci e riconoscendoci il
valore che meritiamo.
"Ma
le scarpe?" dico io per ricondurlo al tema.
"Le
scarpe!" sospira il cavaliere. "Oggi nessuno sa che cosa
significhi questa parola. Una volta invece era un biglietto da
visita, un traguardo sociale! Quando arrivava un cliente al
laboratorio di papà in via Alabardieri, mio padre e Oscarino,
il primo assistente, lo ricevevano come se fosse stato il Principe di
Savoia: gli offrivano il caffè e lo intrattenevano a parlare.
Nel frattempo il piede aveva tutto il tempo per rasserenarsi e
diventare normale. Poi iniziavano le misure. Veniva messo a nudo
prima il piede destro. Papà lo guardava con attenzione da
tutti i lati e lo poggiava su una tavoletta di noce per vedere se la
pianta aderiva in tutta la sua lunghezza o s’incurvava a metà.
Se il piede era perfetto, il cliente riceveva i complimenti di papà
e di Oscarino; qualche volta venivano chiamati anche i ragazzi dal
laboratorio. Intanto si preparava il gesso per il calco, che era solo
il primo approccio, uno dei tanti gradini necessari al raggiungimento
dell’obiettivo finale: la scarpa perfetta.
La
vera ragione sociale della ditta Carotenuto non era vendere scarpe o,
perlomeno, non era solo questo quanto, piuttosto, raggiungere la
perfezione assoluta a cui può arrivare una scarpa costruita da
un uomo: la scarpità, questa è la parola!
Papà,
quando un cliente usciva dal laboratorio, lo seguiva con lo sguardo
fino a che non scompariva da via Alabardieri, solo per studiare
l’andatura. Una volta calcolato il consumo, consegnava un paio
di scarpe di prova, di capretto o di vitellone, che il cliente era
obbligato a portare per almeno un mese, e solo in un secondo momento,
se tutto era andato bene, preparava la scarpa finale, quella
definitiva. Ma credetemi: quando vi facevate una passeggiata con le
nostre scarpe, la cosa non passava inosservata. Anche dal marciapiede
di fronte la gente se ne accorgeva. Tutti dicevano: "Quelle
debbono essere delle Carotenuto!"
Ora,
per spiegarvi come sono fatto, debbo premettere una cosa. La vita è
tutta in questa formula: metà amore e metàlavoro.
E quando dico lavoro, non penso a una fatica, a un supplizio che uno
deve sopportare dalla mattina alla sera per rendersi indipendente dal
punto di vista economico, ma a un’opportunità che Dio ci
ha offerto per dare più senso alla nostra esistenza. Pure il
tabaccaio, l’impiegato di banca e il metalmeccanico, se amano
il proprio lavoro, si troveranno contenti: hanno voglia a chiedere
riduzioni di orario. Anche sei ore, se fatte controvolgia non
finiscono mai. Però, ricordatevi quello che vi dico: una cosa
è "fare" il tabaccaio e una cosa è "essere"
tabaccaio. Papà, fin da quando ero ragazzino mi ha insegnato a
"capire" le scarpe. E così, piano piano, io mi sono
fatto un’idea di come doveva essere fatta una scarpa. Ora,
quando entra un cliente, io già lo vedo con le scarpe
Carotenuto ai piedi e sono felice quando riesco a trovare il paio
fatto apposta per lui. Ma veniamo alla domanda che mi avete fatto
prima: è così importante avere delle belle scarpe? Sì,
vi assicuro che è molto importante. Quando la sera andate a
dormire, se prima di prendere sonno date uno sguardo alle scarpe che
vi siete appena tolto, voi vi accorgerete che un bel paio di scarpe
perfette, classiche, snelle, inalterabili, pulite, comunica un senso
di sicurezza. Fedeli testimoni della vostra giornata, esse vi hanno
tenuto compagnia. Oggi però non ci bada più nessuno. Il
cliente entra e dice :"Voglio quelle li, ho il 42", se le
prova, paga e se ne va
Un esperimento in linea con quanto espresso finora, è stato condotto nei primi anni ottanta, all’indomani della chiusura dei manicomi, con la creazione delle cooperative sociali in cui venivano impegnati gli ex pazienti, per produrre, dignitosamente, lavoro e reddito. Fra queste, c’era la cooperativa "Noncello" di Pordenone, dove si faceva, veramente, parquet e, dove, il motto dei dirigenti era: "Si può fare!" oggi, in Italia, esistono 2500 cooperative sociali che danno lavoro a quasi 30.000 soci diversamente abili.
Si può fare è un film del 2008. Diretto da Giulio Manfredonia è risultato uno dei lavori più premiati nella storia del cinema italiano, racconta di un gruppo di operai "alternativi" che, nonostante numerosissime traversie riescono a dimostrare che, con una buona idea e il coraggio di sostenerla, il risultato è alla portata di tutti..
Nello (Claudio Bisio) è un sindacalista che, dopo aver scritto un libro sul mondo del mercato viene attaccato duramente dai "compagni" ed è, quindi, trasferito alla Cooperativa 180, una delle tante sorte per accogliere i pazienti dimessi dai manicomi. Dopo alcuni attriti iniziali con i pazienti, Nello decide di far capire loro il vero spirito di una cooperativa coinvolgendoli maggiormente. Ascoltando le idee di tutti, in un’assemblea viene presa la decisione di abbandonare il lavoro assistenziale e di entrare nel mercato diventando posatori di parquet, ogni paziente ricoprirà un ruolo all’interno della cooperativa secondo le proprie caratteristiche. Dopo il primo lavoro, fallito per inesperienza, riescono ad ottenere un appalto in un atelier d’alta moda, il giorno della scadenza della consegna finisce il legno: alcuni di loro decidono così, vista anche la loro abilità artistica, di usare gli scarti per realizzare un pannello raffigurante una stella e coprire così l’intero pavimento. L’idea, oltre a venire molto apprezzata, si fa strada e la cooperativa ottiene sempre più appalti. nonostante una serie di conflitti con psichiatri della vecchia guardia che non vorrebbero dosare gli psicofarmaci in maniera più opportuna (rivedendo al ribasso la posologia), la cooperativa ottiene un grosso appalto a Parigi per decorare le fermate della nuova linea metropolitana. Il film si chiude mostrando i numerosi pannelli già pronti e l’arrivo di nuovi soci da altri manicomi. (Fonte Wikipedia)
Oh, Madre mia... Si può fare!
Madre, sin da quando ero bambino ho cercato il tuo calore... ricordi quando infilavo le mie dita fra le tue avvicinando il mio volto sul tuo grembo? Già uomo, mi sono abbandonato a te, capace di farmi tornare bambino accarezzando i miei riccioli ribelli. Madre, mi mancano tanto la tua saggezza, quanto quegli occhi, specchio della mia anima. Mi hai insegnato a cercare il sole oltre le nuvole per illuminare i miei pensieri: oggi dietro quel tramonto, cercherò te. Ciao Mamma... semplicemente, Grazie! Tuo figlio Mariano
G. M. - Medico Psicoterapeuta
Un
ringraziamento va a tutti coloro che hanno contribuito a fornirmi
utili spunti di riflessione e, in particolare, a mio fratello
Mariano, per aver amato così tanto nostra madre e per la sua
poesia, da cui ho tratto l’ispirazione per questo articolo.