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di Giorgio Marchese  ( direttore@lastradaweb.it )

12 luglio 2006






L'importanza di un gruppo vincente.


Il segreto del successo - 4 ©

Ogni storia, ogni tempo, ogni popolo ha i suoi trionfi. Quello della nazionale italiana ai campionati del mondo di calcio 2006, a Berlino, è stato "denso" e "concreto", oltre che sofferto. Ad analizzare bene l’evento, la conclusione che si può trarre è che l’evento calcistico, tutto sommato, lascia abbondantemente il posto a considerazioni ben più profonde che spaziano dal valore di un collettivo fuori dal comune, al collante psicologico di un trainer d’eccezione, alle difficoltà che finiscono, a volte, per tramutarsi in formidabili occasioni.

Così accade che, le mani che stringono la coppa verso il cielo, identificano, in un colpo solo, la gioia e la rabbia, la dignità e la misura di un declino morale fin troppo propagandato. L’orgoglio della bandiera, per una volta, unisce in un sentimento globalmente maturo, in grado di riconoscere il valore di chi ha mostrato che, usando testa cuore e gambe, i risultati non possono mancare.

Dietro tutto questo, semplicemente un gruppo formato non tanto da individualità narcisistiche ma da identità compatte, al servizio di un programma preciso, sotto la guida di chi di persone se ne intende: Marcello Lippi.

"Sul tetto del mondo senza essere fuoriclasse", "Nazionale operaia per la vittoria del sacrificio". Valutazioni e commenti di due emblemi come Cannavaro e Gattuso che consentono a milioni di partecipanti a questa grande festa, di identificarsi, tutti, in un evidente assioma: "Così normali, così eccezionali".

Per raggiungere gli obiettivi di realizzazione che ognuno di noi si propone, non si può pensare di modellare i propri comportamenti operativi secondo un modulo da "lupo solitario" anche se versatile e multifattoriale. La qualità globale di vita subirebbe un flessione di scadimento incompatibile con i propositi definiti. Diventa importante, quindi, riuscire a creare qualcosa che, obiettivamente, è impegnativo: un insieme ordinato di persone che gestisca interessi propri e, nel contempo, sia in grado di ottenere risultati utili alla crescita del collettivo. Per potere concretizzare tale obiettivo, diventa necessario creare le motivazioni ideali che spingano i vari componenti a collaborare con un efficiente spirito di squadra che punti ad ottenere professionalità, ed efficienza, con la possibilità di dimostrare la propria competenza, ottenendo quei risultati che proiettino verso una realizzazione crescente Risulta evidente come, in questo tipo di attività, si debba contare prevalentemente sulla conoscenza, sullo sviluppo e sulla gestione delle risorse riguardanti la propria personalità.

Coaching, un semplice processo attuato per far crescerei collaboratori attraverso una comunicazione individuale costante per identificare, elaborare e raggiungere gli obiettivi di prestazione. Questa è la risposta da imparare a mettere in pratica.

In che modo?

Istruendo i propri collaboratori (spiegando bene cosa ci si aspetta da loro); analizzando le difficoltà che si presenteranno sul cammino; facilitando i processi di integrazione (evitando di innescare competizioni deleterie e fenomeni di mobbing); motivando i componenti (mediante l’individuazione di aspirazioni, attitudini e convergenze operative). In altre parole: determinando un processo di crescita completa (umana e professionale).

Nel dettaglio

Attuare una comunicazione efficace (instaurare un clima di fiducia costruttiva, mediante un rapporto interpersonale che tenga conto del profilo psicologico delle parti interessate e dell’esatta percezione di ciò che si intende trasmettere; riconoscere i risultati raggiunti; far notare i punti di critici, nel rispetto dei ruoli; coinvolgere "misuratamente" nel processo decisionale; diventare una risorsa autorevole;

Definire gli obiettivi, in maniera che siano ragionevoli e raggiungibili (stabilire le mansioni, le esigenze dell’organizzazione, uno standard di qualità che funga da parametro di riferimento, le risorse su cui si può contare, etc.). "Il significato di un uomo va ricercato non solo in ciò che egli raggiunge ma, soprattutto, in come lo raggiunge" (Kahlil Gibran).

Analizzare il rendimento (mediante questionari anche di autovalutazione e ricerca delle motivazioni per l’eventuale divario fra obiettivi e risultato). "Chi non osa nulla, non speri in nulla". (Friedrich von Schiller)

Rivisitare periodicamente gli obiettivi di performance (per attuare un rimodellamento in base alle esigenze). "Il malcontento è il primo passo verso il progresso". (Oscar Wilde)

Proporre un feedback non ossessivo (per dibattere le sensazioni vissute in eventi particolarmente significativi). "In cima ad ogni vetta si è sull’orlo dell’abisso". (Stanislaw Jerzy Lec)

Da evitare

Mancanza di serietà professionale.

Favoritismi.

Coinvolgimenti nei problemi personali dei collaboratori.

Instaurare un clima di eccessiva familiarità.

Autoritarismi ingiustificati.

E Marcello Lippi, Nato a Viareggio il 12 aprile 1948 rappresenta al meglio la tipologia dell’allenatore-manager, il capofila moderno di quella razza di allenatori che non amano stare solamente sul prato dei campi da calcio ma sanno anche districarsi al meglio di fronte a telecamere o consigli di squadra, grazie anche a doti di cultura e signorilità che si lasciano alle spalle la vecchia immagine dell’allenatore aduso esclusivamente alla panchina. Subentra alla guida degli azzurri, dopo la grande delusione della nazionale agli europei del Portogallo 2004, sostituendo Giovanni Trapattoni. Due anni di intenso lavoro in cui Lippi ha puntato a forgiare prima di tutto un gruppo coeso hanno portato a un risultato straordinario e storico: ai mondiali di Germania 2006 la sua nazionale si "laurea" con grande autorevolezza, campione "Uber alles"!

"Con il passare degli anni si cresce, si migliora e ci si accorge anche di aver sbagliato. Tanti errori, effettivamente li ho commessi e me ne sono reso perfettamente conto. Poi, però, si matura e la musica cambia" (Marcello Lippi).

 

4 - CONTINUA...

Proponiamo, a questo punto, un estrapolato dell’intervista di Catena Fiorello a Franco Baresi, "bandiera" del Milan e capitano d’eccezione di una Nazionale degli anni difficili, nonché uno dei migliori difensori di tutti i tempi, pubblicata nel libro "Nati senza camicia"- Baldini & Castoldi Editori - MILANO 2003.

Franco Baresi ha debuttato nel Milan esordendo in serie A il 23 aprile 1978 contro il Verona. Con vent’anni di carriera alle spalle, è stato riconosciuto come il miglior libero di tutti i tempi per la sua classe, il suo carisma e la sua continuità di rendimento. Per tutti i giocatori è stato come un manuale da studiare, un esempio di carica agonistica: dolcezza con il pallone e durezza con l’avversario. È stato uno dei difensori più forti del mondo, candidato al "Pallone d’oro", giocando sempre nel Milan (716 partite ufficiali), vincendo tutto il possibile e rimanendo costantemente fedele al suo posto di capitano, simbolo di una squadra. Si è adattato a giocare in ogni ruolo, sia nella Nazionale "classica" di Vicini sia in quella "aggressiva" di Sacchi. È stato tre volte sul podio mondiale con la Nazionale (Spagna 1982, Italia 1990, Usa 1994). Palmares: 6 scudetti, 3 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 2 Super Coppe europee, 4 Super Coppe italiane. Ha detto addio al calcio giocato il 23 giugno 1997, fermandosi in tempo per restare per sempre un mito. È diventato, dopo una breve parentesi come allenatore in Inghilterra, responsabile del settore giovanile del Milan. E la sfida dell’ex kaiser Franz Baresi continua...

Franco Baresi, uno dei calciatori più importanti che ha avuto e che ha l’Italia. Lei comunque è rimasto nell’ambiente calcistico anche dopo avere smesso di giocare.

Si può dire, effettivamente, che non sono mai andato via, pur essendo uscito in tempo... per non farmi chiamare "vecchietto". Sono nato in provincia di Brescia, a Travagliato, un paesino di campagna di circa diecimila abitanti, a pochi chilometri dalla città. Abitavo in una casa rurale e mio padre faceva il contadino. Con mia madre casalinga. Purtroppo li ho persi entrambi quando avevo meno di 17 anni. Ho due fratelli e due sorelle, siamo una famiglia molto unita... Mia sorella più grande è stata quella che ha accudito i fratelli più piccoli, ha fatto un po’ da mamma. Comunque, nella sfortuna ho avuto un po’ di fortuna perché io, a 14 anni, grazie al calcio, mi sono trasferito a Milano seguendo le orme di mio fratello maggiore, che anche lui alla mia stessa età, era andato a giocare nell’Inter. Nel centro sportivo del Milan, a Milanello, si viveva come in un collegio. Avevamo tutto meno che la scuola. Prendevamo il treno la mattina e andavamo a frequentarla a Milano.

Mi racconta i primi anni a Milano?

Mi ricordo ancora il primo giorno che mi portarono al raduno, era agosto. Ero molto emozionato, ma anche preoccupato perché ero in un ambiente nuovo, poi avevo anche un carattere molto chiuso... Arrivato a Milano, andai al centro sportivo giovanile di Linate. Lì prendemmo il pulmino e partimmo per Milanello: un viaggio di 50 chilometri che sembrava non finire mai.

Immaginava che sarebbe arrivato così in alto?

Io, all’epoca, avevo solamente una grande passione per il gioco del calcio, per via del fatto che, col pallone trascorrevo quasi 24 ore al giorno. Il resto l’ho scoperto strada facendo.

Quanto conta la fortuna?

Se vogliamo intenderla come insieme di elementi che capitano al momento opportuno, conta abbastanza. Solo che poi bisogna tener conto del fatto che è necessario che ognuno crei i presupposti affinché quello che accade abbia un senso e un’utilità. Se avessi iniziato in una squadra minore non avrei avuto le stesse chanches, ovviamente. Al tempo stesso, se non avessi mostrato interesse e attitudini, non avrei ottenuto quanto di buono la vita mi ha concesso.

A 18 anni ha debuttato in prima squadra e avete vinto lo scudetto.

Si grazie a Liedholm, il grande allenatore svedese che ha avuto fiducia in me e mi ha dato la possibilità di giocare accanto a dei mostri sacri come Gianni Rivera.

Quanto è stato determinante la possibilità di guadagnare bene, nel portarla verso la strada del calcio?

A dire il vero ero spinto dal fatto che mio fratello avesse esordito l’anno prima. Volevo riuscire anch’io a giocare, fare quello che stava facendo lui. Poi c’era la passione che avevo dentro, la voglia... il gioco del calcio l’avevo nel sangue. E poi, all’inizio, non è che guadagnassi tanto!

Cioè non era come oggi?

Assolutamente no. In quegli anni, guadagnavo poco. Le cose sono cambiate quando è arrivato Berlusconi., nel 1986.

Lei è stato uno dei pochi calciatori a non aver mai cambiato squadra. Come mai ?

Non ne ho mai fatto un problema di soldi. Mi sono vissuto come un portabandiera che non avrebbe potuto mai tradire la sua "appartenenza". Tutto qui. Sono arrivato nel 1974 e, anche se con ruoli diversi, sono ancora qua. Se non hai dentro di te l’amore e la passione per il tuo lavoro... non fai niente. È bene intraprendere un’attività in cui sei coinvolto direttamente, che senti e vivi giornalmente: è quello che dico ai miei ragazzi, che bisogna sentirlo il proprio lavoro, la propria passione, bisogna andare sul campo... Perché lo sport ti chiede tanto ma ti può dare tanto. Il calcio è un bel mondo ma pretende, altrimenti non ricevi nulla.

Lei di cosa si occupa adesso?

Alleno gli under 18, nelle "giovanili" della società.

Ai ragazzi che vogliono iniziare, per emulare i suoi successi, cosa si sentirebbe di consigliare?

Che la strada è lunga e non è detto che si arrivi, visti gli interessi globali che ruotano in questo mondo così particolare.

E quindi?

Si deve pensare anche a studiare perché, per me, la cultura è importantissima. Può fare la differenza fra un manovale del calcio e un grande sportivo: è la base di una formazione completa. Se potessi tornare indietro, cercherei di fare certamente qualcosa di più, in tal senso.

Cosa ha sacrificato, per raggiungere il successo?

Ma, in fondo, ben poco, perché io sono un tipo molto riservato e un po’ pantofolaio. Ho avuto anche il tempo di seguire la mia famiglia, cui tengo moltissimo.

Già si intravede un calciatore in famiglia?

Guardi, io credo che i cosiddetti figli d’arte non abbiano una vita facile perché, per forza di cose, il confronto col genitore sarebbe sempre troppo pesante. Perciò spero che intraprendano altre professioni.

La sua era una famiglia umile, semplice, normale. Cosa le è rimasto dell’insegnamento dei suoi genitori?

L’educazione e il rispetto verso tutte le persone che incontri.

Si parla molto della sua signorilità, pur in un ambiente rude, come quello del calcio...

Io ho cercato di non far mai pesare la mia posizione, il mio ruolo a quelli che mi stavano intorno.

Cosa ne pensa delle amicizie interessate?

Qualche bastonata l’ho presa.

E cosa è successo? È diventato più critico, più rigido?

Un po’ più rigido, un po’ più attento. D’altronde io, di base, già sono molto restio nel dare confidenza.

Si dice che, a volte, per raggiungere il successo si debba diventare poco corretti nei rapporti umani. Lei cosa ne pensa?

Io ho cercato di non essere mai sleale. Spero di esserci riuscito, mi piace andare in giro a testa alta.

Come ha fatto a diventare Franco Baresi?

Impegno, semplicità, correttezza. Oltre questo, mi creda, non saprei cos’altro dirle. Le cose sono venute da sole, io mi sono trovato in cammino senza accorgermene, c’era solamente il divertimento, la passione, la voglia di fare questo sport nel migliore dei modi

Qualche volta, ha provato il desiderio di mollare tutto?

Si ma per fortuna le persone accanto mi hanno aiutato. Sarei volto tornare a casa ma, avendo perso i genitori, dovevo per forza lavorare.

Quindi, a un ragazzo che, magari, dalla provincia di Campobasso arriva a Milanello, senza la famiglia, cosa si sente di suggerire?

Deve partire con lo spirito giusto, con la voglia di dare il massimo, e non con l’idea di...

...diventare come Vieri o come Totti.

Esatto. In questo mondo è bene vivere giorno per giorno. Poi, se uno se lo merita, arriverà anche molto in alto. Comunque, è bene non farsi illusioni. È sempre più difficile.

Cosa non dovrebbe mai dimenticare?

Di essere se stesso e portare con sé i valori in cui crede per tutta la vita. Deve vivere la vita quotidiana in modo normale, che sia un campione o meno.

Si può essere felicità senza denaro?

Dipende dal valore che si dà a quest’ultimo. È più importante avere intorno l’affetto di chi ti vuole bene e svolgere un lavoro con passione e senza compromessi con la propria dignità. Comunque, è indubbio che esiste un rapporto fra denaro e libertà relativa. Non bisogna esagerare: in questo, secondo me, consiste il segreto di tutto.

C’è una cosa che proprio le fa paura?

La malattia, perché mi può portar via persone che amo.

Grazie.

È stato un piacere.

 

G. M. - Medico Psicoterapeuta

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