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Morire d’impresa.
di Redazione La Strada  ( info@lastradaweb.it )

30 gennaio 2016






Un economista, un imprenditore e uno psicoterapeuta a confronto, per capire come uscire dalla crisi.


Il lavoro che vi presentiamo è frutto di un esperimento: trasdurre una trasmissione televisiva in un articolo tecnico-divulgativo. Martedi 10 ottobre 2012, su Metro TV (emittente locale della Provincia di Cosenza purtoppo, non più attiva perchè colpita, anch’essa dalla crisi) una puntata della trasmissione di cultura e attualità "Vox Populi", la cui tematica è stata particolarmente interessante: Morire d’impresa. Cioè quello che accade nella mente di chi prova ad inventarsi un lavoro (una vera impresa!) e impatta con un muro irto di difficoltà. La conduttrice (e autrice del programma) è la giornalista Barbara Marchio, il regista è Antonio Praino. Ospiti della serata: un economista, un medico psicoterapeuta e un imprenditore "sociale", con la partecipazione del direttore di Confindustria di Cosenza, Rosario Branda. Alla fine dell’articolo, si potrà vedere l’intera trasmissione televisiva.

SI E’ PENSATO DI RIPROPORRE L’ARTICOLO (COSI’ COME L’INTERA TRASMISSIONE TELEVISIVA) PER CONSENTIRE DI RIFLETTERE, A DISTANZA DI 4 ANNI, SU COSA SIA, EFFETTIVAMENTE CAMBIATO E SU QUALI, DELLE RICETTE PROPOSTE IN TRASMISSIONE, POTESSE ESSERE QUELLA PIU’ ADEGUATA.

BUONA LETTURA

Barbara Marchio - In qualche puntata fa, abbiamo analizzato lo stato di salute della nostra impresa, della nostra economia. Questa sera vogliamo ritornare sul mondo imprenditoriale e occupazionale, però con uno sguardo più attento al sociale. Il titolo di questa serata è "morire d’impresa"... aggiungerei, di impresa malata, figlia di un sistema malato: quello italiano. Nel nostro Paese, la crisi strangola gli imprenditori... e non solo; a volte finisce per ucciderli. Vogliamo capire come si sente un giovane ad essere improduttivo, a non vedersi inserito in un contesto socio-occupazionale, oppure una persona di mezza età che, da questo contesto, si vede estromesso e, visto il dato anagrafico, con poche possibilità di ritornare a farvi parte.

Insomma, vogliamo avere uno sguardo sull’impatto psicologico forte che sta avendo questa crisi, sui nostri imprenditori e sui nostri giovani. Per avere una "riflessione allargata", usufruiremo del contributo di ospiti qualificati.

Parto subito a presentare il Vicepresidente della Camera di Commercio di Cosenza, nonché Presidente di Confesercenti, Domenico Bilotta, conoscitore del tessuto imprenditoriale, che sicuramente ci saprà testimoniare di storie di imprenditori che devono vedersela col fisco e con altri problemi e che, spesso, non reggono il colpo.

Accanto a lui, Giorgio Marchese, medico specializzato in Psicoterapia, capo di un Ente formatore, (Neverland Scarl) che si è dato da fare per supportare psicologicamente e anche dal punto di vista pratico, legale e burocratico i nostri imprenditori; vedremo poi come.

E ancora, abbiamo Giovanni Serra della Cooperativa "Delfino lavoro" per leggere l’altra faccia della medaglia... e cioè l’impresa e, comunque, il lavoro come ritorno alla vita e come recupero di una seconda possibilità per chi si vede emarginato dal contesto sociale.

Prima di iniziare la nostra discussione, la scheda introduttiva. A fra poco.

"La mancanza di lavoro, se pur mal retribuito, la mancanza di modi per vivere in autonomia o, semplicemente, vivere sta avendo esiti tragici in un Paese in cui la ripresa è più di un miraggio; e così Lucia, 28 anni, laureata in Ingegneria Gestionale, lo scorso 4 Aprile si è uccisa lanciandosi dal balcone della sua abitazione a Cosenza. Un paio di mesi prima, 15 Febbraio 2012, a Paternò in Provincia di Catania, un imprenditore di 57 anni si uccide impiccandosi in preda alla disperazione a causa dei debiti della sua azienda.

21 Febbraio: un piccolo imprenditore trentino oppresso dai debiti, cerca di suicidarsi gettandosi sotto un treno merci.

28 Marzo: un muratore di 58 anni, residente a Ozzano dell’Emilia, si da fuoco nella sua auto, non lontano dall’Agenzia delle Entrate di Bologna.

27 Marzo: un imbianchino di 49 anni si lancia dal balcone a Trani perché da tempo non riusciva a trovare un posto di lavoro.

23 Marzo: un imprenditore di 44 anni si impicca con una corda legata ad un carrello elevatore, nel capannone dell’azienda di cui era socio.

21 Marzo: a Crispiano, un uomo di 60 anni disoccupato da due anni e invalido civile, a causa dello sconforto per le precarie condizioni economiche, si rinchiude nello sgabuzzino della propria abitazione e tenta il suicidio impiccandosi.

20 Marzo: un uomo di 53 anni in Provincia di Belluno, viene trovato senza vita, impiccato, in una baracca dietro la sua abitazione: da qualche tempo era in difficoltà economiche.

15 Marzo: una donna di 37 anni tenta il suicidio per avere perso il lavoro, in Provincia di Lucca. 9 Marzo, un commerciante di 60 anni, in Provincia di Taranto si toglie la vita impiccandosi, nella marina della città Ionica: la causa del gesto è da attribuirsi a problemi di natura economica. Lo stesso giorno, un falegname di 70 anni, si toglie la vita in Provincia di Venezia, per motivazioni riconducibili a problemi di carattere sia economico che personale.

27 Febbraio: a Verona, un piccolo imprenditore edile, dicendo di vantare crediti con vari clienti per circa 34.000 Euro, si presenta in Banca chiedendo un prestito di 4.000 Euro; l’uomo, cinquantenne, titolare di un’impresa edile, vistosi negare il prestito dalla sua Banca verso la quale era già debitore, esce dalla filiale e si cosparge di alcool tentando il suicidio.

26 Febbraio: un imprenditore si toglie la vita impiccandosi nel capannone della sua ditta, in Provincia di Firenze. Il cadavere viene trovato dai familiari. All’origine del gesto, le preoccupazioni dell’uomo per la crisi economica che aveva investito la sua azienda.

29 Marzo 2012: un operaio edile marocchino di 27 anni, si dà fuoco davanti al municipio di Verona: il ragazzo non percepiva lo stipendio da 4 mesi.

2 Aprile 2012: un corniciaio di Centocelle a Roma, si uccide impiccandosi: l’uomo era schiacciato dai debiti.

4 Aprile 2012: un imprenditore di 59 anni si uccide sparandosi un colpo di fucile a Roma: ai familiari lascia una lettera in cui attribuisce il suo gesto a problemi economici. Il cinquantanovenne era titolare di un’azienda in fallimento.

5 Aprile 2012: un artigiano edile cinquantatreenne viene trovato morto impiccato all’interno di un’abitazione che stava ristrutturando nel centro di Savona; sono i colleghi a scoprire il corpo senza vita.

9 Aprile 2012: una trentaduenne tenta di togliersi la vita nell’Astigiano, perché disoccupata da troppo tempo.

Questi suicidi sono un vero e proprio grido di allarme lanciato da chi non ce la fa più: le tasse, la burocrazia, la stretta creditizia, i ritardi nei pagamenti hanno creato un clima ostile che penalizza chi fa impresa. Giovani senza più aspettative nel futuro: per molti, il suicidio è visto come un gesto di ribellione contro un sistema sordo, insensibile, che non riesce a cogliere la gravità della situazione."

E allora, Dottor Marchese, una lista nera davvero allarmante, dall’inizio dell’anno oltre venti suicidi e molti dei quali nel Veneto dove, sarà un caso, ma è molto avvertita la cultura dell’operosità e, quindi, il senso del fallimento difficilmente si riesce a sopportare. È un fatto culturale? Cosa scatta? Perché si arriva a togliersi la vita?

Giorgio Marchese - Prima dell’inizio della trasmissione si parlava in maniera informale ed il dott. Bilotta evidenziava un aspetto fondamentale che poi può riportare a questo tipo di problema: nel momento in cui un imprenditore (che sia un commerciante, un costruttore, o altro) mette in gioco tutto se stesso, mette in gioco anche i propri affetti, perché per costruire un’impresa si rischia tantissimo, si impegna tantissimo e si sacrifica tantissimo, lo fa sostanzialmente per provare, a se stesso e agli altri, di valere qualcosa; ma non tanto per una competizione, quanto per un bisogno di dimostrarsi e dimostrare che si è in grado di dare.

E questo, credo che sia il modo migliore di costruire valore, per poi distribuirlo. Ecco: quando accade che qualcosa mette in discussione l’onore che è costato tanto, mettere in piedi, determinare, realizzare... allora non è soltanto più una questione di soldi ma è una questione legata alla perdita degli obiettivi che spingevano quella persona a lottare e a continuare a provare, per farcela. Quindi, non c’è più qualcosa che motivi a restare in vita e, di conseguenza, molte volte si cerca una via d’uscita "onorevole", attraverso il suicidio che, per tradizione (fin dagli antichi Romani), veniva scelto dai nobili per salvare l’onore dalla propria persona.. Molte volte è difficile aiutare chi ha preso questa decisione, anche se si aprisse loro una linea di credito economica perché, paradossalmente si ridurrebbe lo stesso la stimabilità in quanto che, quest’ultima, ce l’avrebbe fatta solo perché qualcuno è intervenuto dall’esterno.

Si potrebbe portare aiuto, soprattutto ricordando a costoro che c’è molto da poter fare ancora, prima di gettare la spugna perché, con il proprio esempio, potranno insegnare come ci si comporta in periodi difficili, con dignità e coraggio, accettando, magari, di rivedere piani e strategie e passando ad una dimensione più consona alle mutate esigenze.

Barbara Marchio - Dottor Bilotta, l’Associazione Artigiani Piccole Imprese di Mestre, rileva, in un’indagine come, un’impresa su due, chiuda nei primi 5 anni di vita per: tasse, burocrazia e mancata liquidità. A soffrire di più i neoimprenditori e le piccole e medie imprese che sono importantissime, in chiave occupazionale, tant’é che l’Unione Europea ci ricorda che il 58% dei posti di lavoro è creato dalle imprese con meno di dieci addetti e l’Istat ci dice che il 60% dei giovani neo-assunti nel 2011, è stato assorbito dalle micro imprese. Però, sono proprio i piccoli imprenditori a non essere supportati in alcun modo e ad avvertire il contraccolpo.

Domenico Bilotta - Questo dato è ancora più allarmante se analizzato a livello di regione Calabria e di Provincia di Cosenza, in particolare. I dati sono, per alcuni versi, paradossali: in un contesto nazionale che ha visto, negli ultimi 5 anni, morire centomila piccole imprese (questi sono i risultati di un meeting di Confesercenti dello scorso Settembre) abbiamo realtà come la nostra, dove il saldo resta un saldo attivo, nel senso che sono più le aziende che nascono che quelle che chiudono.

Però, quelle che chiudono sono per l’80% nate negli ultimi 5 anni; quindi, c’è un problema formidabile di start up: non riescono, queste aziende giovani, a sopravvivere, in un contesto globale che vede l’Italia essere un’eccezione.

Noi, infatti, abbiamo il doppio di partite Iva di Francia e Germania messe insieme; abbiamo una tipologia di micro impresa, più che di piccola impresa, che ha rappresentato una grande opportunità di crescita nel centro e nel nord del Paese e un fatto di grande tenuta sociale in zone come la regione Calabria. La nostra realtà, infatti, ci porta a concludere che, qui, si diventa imprenditori non tanto per scelta filosofica, ma spesso per un fatto di mancanza di altri sbocchi occupazionali nel lavoro dipendente e, quindi, ci si prova... magari mettendo in gioco i risparmi di una famiglia.

Questo ha rappresentato e continua a rappresentare, un fattore di resistenza sociale. Viceversa i dati che abbiamo sulla disoccupazione giovanile in Calabria sarebbero dati proprio da sommossa, perché non lavora più del 50% dei giovani. Ma se a questi giovani si dà la possibilità di fare una piccola attività imprenditoriale, probabilmente, in qualche modo, si crea una cintura sociale in un contesto, però, dove tutto sta peggiorando in modo, forse, più grave di quanto le cifre ufficiali lascerebbero intendere, perché noi abbiamo, per esempio, i consumi che nel mezzogiorno di Italia stanno diminuendo del 15-18% nel food e del 30-35% nel non food, con dei settori, come quello dell’automobile e dell’abbigliamento, che vedono ancora di più i loro dati scendere.

È, quindi, una situazione di crisi che è veramente devastante, proprio da squilibrio sociale e dove ci sono delle responsabilità. Sicuramente, ad esempio, c’è un problema di burocrazia e questioni fiscali non risolte. Però c’è anche da dire che in questi ultimi 12 mesi, il sistema bancario di questo Paese ha avuto, dallo Stato e dall’Europa, delle cifre che sono incredibili: sono circa 500 miliardi di Euro che non sono stati destinati all’aiuto e al sostegno delle start up o comunque della piccola impresa di Italia e del Mezzogiorno, ma sono stati (e lo sono ancora oggi) utilizzati a scopo speculativo. Questo denaro, viene concesso dalla BCE alle banche di questo Paese con un interessse annuo dell’1% per sostenere l’economia ma, anziché migliorare l’accesso al credito, viene reinvestito in titoli di Stato che rendono il 6-7-8%.

Le piccole imprese, che hanno in questo momento grande bisogno (anche perché il primo a non pagare i propri debiti, è lo Stato) si vedono negare anche facilitazioni creditizie di poche migliaia di Euro.

In questo contesto, l’imprenditore è un soggetto molto solo! Noi abbiamo analizzato nel tempo, per esempio, la situazione dell’imprenditore verso il fenomeno estorsivo e abbiamo scoperto che è la solitudine il sentimento che prevale e che porta l’imprenditore a chiudersi in sé stesso. Oggi in questa crisi, il piccolo imprenditore avverte una solitudine non diversa da quella che avverte la vittima dell’estorsione e, alla fine, prova un senso anche di vergogna nell’ammettere a sé stesso e nel confidare anche ai propri familiari e ai propri amici, l’insuccesso della propria impresa: tenta di resistere ma, purtroppo, resistere significa aggravare la propria situazione economica, con la conseguenza di piombare nell’insolvenza, prima, nel protesto, nel fallimento e nell’usura (che è un’altra piaga in grandissima crescita) e, alla fine, una svolta, un epilogo, può essere quello di scegliere di cessare la propria esistenza.

È una sconfitta che non è soltanto di quell’imprenditore, ma diventa una sconfitta sociale. In questo contesto, tuttavia, io sto verificando quotidianamente delle manifestazioni di tensione emotiva positiva straordinaria; per molti piccoli imprenditori spesso è un dramma liberarsi del proprio unico commesso perché si formano rapporti umani, di amicizia e, quindi, per il tentativo di salvaguardarlo, spesso, si priva del necessario pur di garantire ai propri lavoratori il minimo.

Io credo che, il Governo di questo Paese, dovrà trovare una strada diversa da quella attuale; per altro, il Professor Monti è un fautore dell’economia sociale di mercato. Finora, questa parola "sociale" non l’abbiamo vista nelle decisioni di politica economica di questo Governo... probabilmente era necessario fare le cose che sono state fatte perché dovevamo comunque salvare il Paese... io non lo so se siamo riusciti a salvarlo, però, devo dire che se devo "misurare la febbre" dalla piccola impresa, soprattutto di questo territorio, la temperatura è ancora molto alta e, quindi, i pericoli di un ulteriore aggravamento della situazione con il conseguente aumento delle tensioni sociali, è dietro la porta.

Barbara Marchio - Giovanni Serra, in uno scenario come questo, un’impresa come la vostra, che ha un volto profondamente umano, che guarda al recupero del soggetto disagiato, del soggetto che vuole un’opportunità per rivalersi dal punto di vista proprio sociale/occupazionale, come si muove? Questa crisi, può avere degli effetti deleteri su chi, alla fine, guarda al lavoro come ad un’opportunità di riscatto?

Giovanni Serra - Un’impresa sociale, dal punto di vista imprenditoriale, non si differenzia da una qualsiasi altra impresa e soffre le medesime difficoltà. Se è costruita con un’impostazione sana, sfida come tutte le imprese, il mercato. Ed evidentemente, in questa fase, soffre come qualunque altra impresa, delle restrizioni che il mercato esprime a causa della riduzione delle possibilità di acquisto da parte dei cittadini e di tutti gli altri acquirenti.

Per cui, un’impresa sociale in questo momento, così come una cooperativa sociale, ha difficoltà a vendere i propri prodotti o i propri servizi, ha difficoltà ad accedere al credito e vede restringersi gli orizzonti della propria prospettiva di sviluppo ed eventualmente, anche di esistenza e nonostante ciò, continua ad avere all’interno della propria missione, dei propri obiettivi: quello di continuare a fare impresa, per poter garantire le prospettive occupazionali per i soggetti deboli. Questa "strana" missione che mette insieme l’obiettivo imprenditoriale con l’obiettivo sociale che è proprio delle cooperative di inserimento lavorativo, consiste proprio in questo: nel continuare a perseguire la missione imprenditoriale, perché questo può rappresentare uno spazio di professionalizzazione e di inserimento al lavoro di persone che, altrimenti, non avrebbero alcuna possibilità di accedere al mondo del lavoro.

Ben sapendo, tuttavia, che il tema dell’inserimento nel lavoro è un tema che è essenziale per l’integrazione sociale di ogni persona e il lavoro è proprio un elemento con il quale le persone possono sentirsi parte della Società, perché possano sentirsi significative; non solo perché hanno un reddito (che pure è essenziale per poter vivere la propria vita e compiere le proprie scelte) ma perché avere un lavoro, svolgere una funzione che produce dei risultati, rappresenta un elemento essenziale per sentirsi vivi, partecipi, significativi nel mondo in cui si è.

E tutto questo è, ovviamente, estremamente aggravato nel momento in cui l’impresa all’interno della quale queste persone sono collocate, soffre per le difficoltà di cui soffrono tutte le altre imprese. A me sembra che tutto questo, però, ci dica una cosa: il tema della solitudine dell’imprenditore. Io penso che questo tema della solitudine sia un tema essenziale per capire il tempo che stiamo vivendo, questo tempo della crisi. Penso al giovane studente che, finito il percorso di studi, si trova nell’impossibilità di cercare un lavoro; penso all’imprenditore che è solo, di fronte alla necessità di affrontare le difficoltà della propria impresa, penso al ragazzo che esce da situazioni e condizioni di marginalità sociale e prova a costruirsi un futuro... Ebbene, ciascuna di queste persone, ciascuno di noi, spesso, è in un contesto di solitudine di fronte alle proprie sfide; sente che altri non possono dare una mano; sente che, di fronte alle proprie questioni, non ci sono punti di riferimento; e io ho l’impressione che questo sia davvero un elemento fondamentale della crisi che stiamo vivendo.

Ogni economia affronta periodi crescita e periodi di calo. Ma, affrontare la crisi in un clima di solidarietà o affrontare la crisi in un clima di solitudine e di individualismo può essere profondamente differente. In fondo, la sfida che noi imprese sociali proviamo a perseguire da sempre, è proprio quella che risponde all’esigenza di non affrontare i problemi da soli, del mettersi insieme... e io penso all’esperienza della nostra cooperativa: è una cooperativa che soffre concretamente, in questi anni, le difficoltà del fare impresa, del produrre, del vendere, dell’accedere al credito, del riuscire a dilazionare i pagamenti, come qualsiasi altra impresa. L’essere insieme, l’esercitare collettivamente anche la funzione imprenditoriale, serve anche ad affrontare i momenti di scoramento, di difficoltà e sostenersi reciprocamente. Io penso che questo tema, in qualche modo, ci debba dire molto delle cose di cui parleremo stasera.

Barbara Marchio: State affrontando un percorso con i piccoli, nelle scuole, per educare alla legalità, a fare le cose secondo le regole; anche questo, probabilmente, matura una consapevolezza e una cultura che può essere d’aiuto.

Giovanni Serra - Il tema delle regole è un tema essenziale anche rispetto a questa faccenda della crisi. Si vìolano le regole quando non ci si rende conto che le regole non sono cose astratte: servono a rendere migliore la vita collettiva. Quando io penso solo a me stesso, quando penso a partire solo dalle mie esigenze, dalla mia prospettiva, ogni regola può essere un ostacolo al soddisfacimento dei miei interessi. Invece, la regola serve nel quadro dell’interesse generale. Noi lavoriamo nel campo della produzione editoriale e abbiamo scelto di produrre un gioco di educazione alla legalità che stiamo commercializzando in tutta Italia; devo dire che ci sta dando anche una grossa mano in questa fase difficile della cooperativa, ma è stata una scelta del provare ad invertire la tendenza da questo punto di vista culturale che è veramente, una grossa difficoltà.

Barbara Marchio - Il Dottore Marchese, poi, mi ha aperto una serie di riflessioni fornendomi del materiale nei giorni scorsi cui, per altro, mi sono approfondita. Questo materiale è stato pubblicato su un Web Magazine di cui è direttore e i suoi articoli, devo dire, sono di grande interesse. Ho potuto leggere, tra questi, delle massime che mi hanno invitata a riflettere sulla situazione di alcuni imprenditori che si trovano spesso a fare "il passo più lungo della gamba", probabilmente, ad inseguire aspettative e prospettive che poco si conciliano con le proprie vocazioni, possibilità e capacità. Allora, probabilmente, l’aiuto che voi fornite attraverso i vostri vari "Telefono Amico" messi a disposizione, gratuitamente dalle ONLUS di Neverland ma non solo, è anche quello di instradare le persone a fare le scelte giuste, a percepirsi nel modo giusto e a guardare anche alla famiglia come ad un supporto.

Giorgio Marchese - Quello di cui si è parlato, fino a questo momento, verte su due linee guida:

  1. Chi dovrebbe aiutare fornendo credito, in realtà, pensa ad accaparrarsi quanto più possibile;
  2. Chi ha bisogno, rimane in solitudine.

Allora possiamo concludere che il sistema, che sia lo Stato o che siano i mercati, di sicuro non si comporta come un "buon padre di famiglia" ma porta ad una modalità di selezione per cui: chi è più capace va avanti e gli altri non ce la fanno. È molto brutto ma questo sta accadendo e accade in solitudine. Ma la solitudine perché crea problemi?

Perché ti mette a confronto con chi, in fondo, sei e non hai mai pensato di essere. Immaginiamo di tornare indietro, a quando eravamo ragazzini, magari in quinta elementare, intorno a dieci anni: avevamo creato un buon rapporto con il sistema classe, conoscevamo il nostro maestro, i nostri maestri, e un giorno, il maestro non c’è ... non si sa se si è ritirato, non si sa se è in malattia e viene un supplente ... con un’espressione temperamentale diversa, che non ci tratta affettuosamente come faceva la persona che eravamo invece abituati a osservare tutti i giorni e ci sonda attraverso una piccola interrogazione o, comunque, partendo proprio da "come ti chiami e cosa fanno i tuoi", che è la classica domanda che si usava fare tanto tempo fa.

Tu ti trovi, improvvisamente, da solo e nudo. Perché non hai più la protezione di tipo affettivo, la protezione che era legata al valore che avevi costruito e che ti garantiva un credito. E allora, a queste condizioni cosa si può fare? Accettare l’idea che ogni volta ti trovi di fronte ad un esame; verificare la motivazione per cui dovresti affrontare questo esame... perché tu potresti anche stancarti o non averne voglia. Infatti, perché spingerti verso qualcosa che non sai neanche dove ti porta?

Ma, per continuare a confrontarti con le richieste che ti mettono sotto esame, diventa necessario sapere:

  • Chi sei
  • Quali sono le tue attitudini
  • Su che cosa puoi contare
  • Che cosa ti piacerebbe fare
  • Che cosa, di quello che ti piacerebbe fare, poi, la Società vuole
  • Come farlo sapere alla Società

Ma soprattutto, bisognerebbe domandarsi: dopo che ho capito che in teoria potrei fare ciò che potrebbe piacere, quanto amo tutto ciò?

Mi vengono in mente due aforismi: uno tratto da un’affermazione di Martin Luther King e l’altro è un proverbio africano.

Questo personaggio che ha lasciato sicuramente un segno nella storia, fra le varie cose che sosteneva, ne diceva una abbastanza interessante che dovremmo riapprezzare in questi tempi: "Quale che sia il lavoro che tu voglia fare, per esempio lo spazzino, sarebbe opportuno che tu lo svolgessi nel migliore dei modi e che lo amassi al punto tale che, tutte le creature del Paradiso, passando da quella strada direbbero che lì, sicuramente, è vissuto il migliore, il più bravo spazzino del mondo perché ha tenuto la strada come meglio non si sarebbe potuto!" A quel punto, hai meritato un posto nella Storia.

Invece la storia africana racconta che, durante un incendio nella foresta, mentre tutti gli animali fuggono, un colibrì vola in senso contrario con una goccia d’acqua nel becco. "Cosa credi di fare!" Gli chiede il leone. "Vado a spegnere l’incendio!" Risponde il piccolo volatile. "Con una goccia d’acqua?" Dice il leone con un sogghigno di irrisione. Ed il colibrì, proseguendo il volo, risponde: "Io faccio la mia parte!".

Che cosa significa questo? Quanto ami le cose che devi difendere? Quanto hai le idee chiare? A chi ti puoi rivolgere per migliorare la competenza e la spendibilità di tutto ciò che fai? E, probabilmente, in questo possiamo inserirci, come attività, quella del Telefono Amico che è un telefono amico "anomalo" se vogliamo, dal momento che non sta ad ascoltare solo le richieste di chi ha bisogno, che comunque già è un’opera meritoria, ma va incontro, anche fisicamente, alle esigenze di chi mostra la disponibilità e il coraggio di esporsi, pur sentendosi solo. Non è soltanto un condividere le problematiche, quanto un evidenziare "in che modo" e "perché" continuare a combattere da soli per dimostrare quanto si possa crescere, per poi condividere e, quindi, determinare un insegnamento che valga per tutti, per provare il piacere di condividere e spingersi a crescere per condividere ancora.

Mi viene in mente quello che disse un filosofo pragmatico, che poi era un pilota automobilistico, Ayrton Senna: "Non ha senso vivere su un’isola ricca quando intorno hai un oceano di povertà!". Per cui, decisamente, è necessario capire che meglio vivono gli altri, meglio puoi vivere tu. È una questione egoistica: solo che è egoismo positivo, non è speculativo... magari speculativo nel senso che ti specchi in colui il quale può essere migliore di te e ti stimola a crescere, ma non nel senso negativo.

In fondo, la vita si basa su principi che ti spingono non a diventare il più forte, perché non necessariamente vince il più forte (altrimenti in natura dovrebbero restare i carnivori e non gli erbivori) ma vince chi elabora le strategie più adeguate; e questo ci mette in evidenza che, chi sa adattarsi, chi sa osservare, chi è disponibile, a quel punto, a rischiare, probabilmente merita di farcela; anche se questa, non è un’espressione di solidarietà.

Barbara Marchio - Però, purtroppo, una strategia che vince, Dottor Bilotta, è sicuramente quella di fare sistema, di stare uniti anche tra imprenditori... ed è il punto dolente su cui, spesso, si è battuto senza avere i risultati sperati, tant’è che c’è questo mercato globalizzato che non si riesce ad aggredire perché non ci si è neppure preparati, evidentemente.

Domenico Bilotta - Si, questo è sicuramente vero. Bisogna sviluppare la volontà di fare cosa in comune fra gli imprenditori. Devo dire che, per esempio, l’Ente Camerale in questi ultimi anni ha lavorato molto in questa prospettiva: noi abbiamo il settore agroalimentare che è il settore, direi, dell’eccellenza delle produzioni di questa Provincia di Cosenza ma, globalmente, anche della Regione Calabria, dove abbiamo una presenza di molte aziende di dimensioni modeste che non riescono a partecipare alla vendita sui mercati extra-regionali proprio per le loro dimensioni modeste.

Se, viceversa, creiamo delle condizioni di alleanza tra queste imprese e, quindi, sviluppo della volontà di elaborare marchi comuni, per partecipare a iniziative consortili insieme, probabilmente, si riesce anche a spuntarla sui mercati come, ad esempio, quello più d’attualità, che è quello cinese, rispetto al quale con le produzioni (facciamo un esempio) di una nostra cantina media, tu riesci a fare soltanto in un anno la fornitura iniziale all’eventuale catena di ipermercati interessata alla compravendita.

Quindi, fare cose insieme è sicuramente importante, così come poc’anzi si faceva riferimento alle regole e anche lì la partita è una partita importante ne senso che, c’è l’esigenza di meglio tutelare i marchi di produzione italiani: noi abbiamo un fenomeno che è quello del cosiddetto "italian sounding" e, cioè, quello che i consumatori del mondo percepiscono col prodotto italiano che vale sessanta miliardi di Euro sui mercati internazionali ma che italiano non è. Abbiamo una decina di "Parmisan" che vengono fabbricati in giro per il mondo, che vengono spacciati per prodotto italiano; abbiamo una marca di pasta che si chiama "Pansani" che è prodotta in Francia e che viene ritenuta dai consumatori mondiali come una pasta italiana. Poi abbiamo innumerevoli esempi di contraffazione palese che rappresentano un cospicuo danno per la salute. Faccio l’esempio dei 4000 bambini che sono stati intossicati da una fornitura di fragole cinesi in Germania, qualche giorno fa; quindi, vi è un’esigenza di rispetto delle regole da cui non può che trarre giovamento la parte sana dell’economia che è composta da questi piccoli imprenditori che spesso si vedono attaccati sul terreno d non rispetto delle regole e questo aumenta la loro frustrazione.

Barbara Marchio- La parola che è uscita, spesso, ricorrente questa sera è solitudine: la solitudine in cui vengono lasciati i nostri imprenditori. Due giorni fa, all’interno del nostro telegiornale, abbiamo sentito il Direttore di Confindustria Sarino Branda; per chiedergli, fra l’altro, qual è la situazione e se, secondo loro, si uscirà mai da questa crisi e in che modo, in che modo supportano anche psicologicamente, i loro imprenditori. Sentiamo cosa ci ha risposto.

Sarino Branda - è troppo facile dire "noi l’avevamo detto!" ma qualche anno fa avevamo già ragionato su come impattava questa crisi sulla Calabria. Qualcuno si era illuso che noi eravamo toccati di meno rispetto al resto del Paese; in realtà, come sempre capita, economie deboli come le nostre entrano in crisi più tardi ma ne escono molto più tardi. La preoccupazione vera potrebbe essere che il peggio non sia ancora arrivato; quindi, diciamo che la realtà può non essere così drastica se c’è la riscoperta di un nuovo senso del dovere, di un impegno per questa terra, di utilizzo di fondi che altri non hanno ... stando a braccia conserte c’è il rischio di una deriva. Però, ci sono un poco di risorse comunitarie, un poco di risorse liberate dal Governo e recuperate sul vecchio POR: pensiamo soprattutto a degli interventi sui centri storici che sono di un taglio medio piccolo per cui apportato alle nostre aziende ... tutto questo, se le procedure diventano snelle, questo si trasforma in cantiere, nell’arco di pochi mesi questi si trasformano in infrastrutture che, se da un lato servono a mantenere e ammodernare il territorio, dall’altro hanno una ricaduta immediata sul territorio. In realtà credo proprio che ci sia stata una disattenzione, una delocalizzazione dell’attenzione di chi governa per nostro conto in questa regione rispetto a quelle che sono le problematiche legate allo sviluppo.

Barbara Marchio - Stretta fiscale, mancanza di commesse, crediti disattesi ... qual è la causa di questo malessere nella nostra imprenditoria, secondo lei?

Sarino Branda - Partiamo dall’ultima. Già basterebbe che la pubblica amministrazione fosse puntuale nei pagamenti ( in alcuni casi non c’è neanche la certezza dei pagamenti. Noi abbiamo aziende che vantano crediti da ormai più di un anno e quindi diventa complicato). Se la pubblica amministrazione non paga i privati, poi c’è a cascata il privato che non paga il privato, quindi, questo genera difficoltà in una Regione che ha un’economia non con grandi numeri, già asfittica di suo. A questo aggiungiamo il problema del credito: le aziende, per poter svolgere comunque i lavori, nei fatti hanno finanziato la pubblica amministrazione esponendosi con le banche. Le banche da un parte non concedono più credito, da un’altra parte non scontano nemmeno i crediti vantati dalle aziende nei confronti della pubblica amministrazione ma perché non li considerano più crediti certi; per cui, questo sta innescando un circolo vizioso che fa perdere efficacia alle azioni delle aziende e alle loro competitività ma, soprattutto, sta deprimendo la fiducia delle persone. Per cui questo fa sì che, mentre noi, in momenti come questi diciamo che bisogna sostenere la domanda interna, anche chi potrebbe muoversi, ha questa preoccupazione sull’incertezza del futuro e nemmeno movimenta quattrini. Quindi, diciamo che la stretta fiscale è una mannaia che abbiamo tutti sulla testa e che paghiamo per una serie di problematiche connesse alla crisi e allo squilibrio nella gestione del Paese. Però, mancati pagamenti e stretta creditizia credo che siano veramente la morsa che ci sta stringendo, in questo momento, sempre più.

Barbara Marchio - Avete pensato come Confindustria, a qualche strategia per essere vicini alle imprese e, soprattutto, agli imprenditori su cui l’impatto della crisi ha dei risvolti notevoli sotto il profilo psicologico?

Sarino Branda - Quando la crisi ha cominciato a mordere di più sul territorio, noi abbiamo messo in piedi una task force che abbiamo chiamato "salva imprese", proprio per dire alle imprese "qui c’è un team di professionisti, di competenze, ma anche di rappresentanza politica (perché Confindustria oltre alla parte tecnica ha anche la parte della rappresentanza politica che è svolta dai Presidenti delle Associazioni ma anche dei singoli settori) che è qui pronta disponibile ad affiancare le aziende perché questi sono i momenti in cui si fanno le scelte strutturali; spesso alcune aziende hanno necessità di ristrutturare, di modificare il business, di riposizionarsi dal punto di vista del mercato. Quando il mercato va abbastanza bene, uno dice "poi la faccio..." è un po’ come l’immagine della signora delle pulizie che nasconde l’immondizia di tutti i giorni sotto il tappeto, fino a quando non diventano grandi e non lo puoi più fare.. E allora, in questi momenti in cui si devono fare delle scelte strutturali noi ci siamo attrezzati per aiutare le aziende; alcune volte è anche solo dal punto di vista psicologico, per rivedere alcune cose, altre volte, grazie ai confidi e ad altri strumenti che noi comunque usiamo e partecipiamo, diamo una mano a ristrutturare il credito; non c’è una ricetta. Ormai la situazione è talmente segmentata che, per ogni azienda, bisogna fare un abito su misura; questo è quello che noi facciamo quotidianamente, che tutti i collaboratori di Confindustria a Cosenza ma, per la verità, in tutte le parti fanno. Noi abbiamo messo questa task force proprio per dare il senso della interdisciplinarietà, di tante professionalità che lavorano insieme per lo stesso progetto.

Barbara Marchio - Siamo in contemporanea alla diretta dall’Arena di Verona con lo spettacolo di Adriano Celentano. Ma, anche il grande Adriano, ospitando uno dei più grandi economisti, ieri rifletteva sul da farsi per voltare pagina, sennò, di questo passo, si perde il valore del capitale umano.

  1. Investire sulla persona
  2. Investire sull’innovazione tecnologica;
  3. Investire sull’ambiente.

Queste sono state le 3 direttrici che il grande economista ha suggerito per cercare una svolta. Dott. Bilotta, noi a che punto siamo, da questo punto di vista?

Domenico Bilotta - Noi dovremmo convincere le Autorità monetarie Europee ad imitare, emulare, quello che si sta facendo negli Stati Uniti d’America, dove cominciano a vedersi dei segnali di ripartenza. Negli Stati uniti i dati sull’occupazione cominciano a ritornare meno preoccupanti di qualche mese fa, le banche hanno ripreso a prestare denaro alle imprese più meritevoli, ma soprattutto c’è la FED (la Banca Centrale Federale) che ha deciso una manovra "salva Paese" che è quotata per 50 miliardi di dollari al mese, in liquidità, proprio perché tutto il sistema economico possa beneficiarne.

Noi, in Europa, abbiamo sposato la filosofia opposta: abbiamo preferito i vincoli monetari, stiamo facendo una guerra spietata all’inflazione quando non c’è alcun bisogno, perché vi è una situazione di deflazione generata dalla recessione; non c’è un’idea per rilanciare lo sviluppo, mentre Paesi come l’Italia avrebbero, per esempio nel settore dell’edilizia, la necessità di affrontare grandi piani, non per costruire nuovi edifici, ma per mettere in regola quelli che esistono. Noi abbiamo dissesti idrogeologici, abbiamo un patrimonio edilizio pubblico: pensiamo alle scuole, a volte, fatiscenti... quindi, per poter iniziare una ripartenza, si potrebbero trovare, fin da subito, 15-20-25 miliardi di Euro da destinare a queste opere pubbliche.

L’Italia ha solo un calo di credibilità. Se agissimo anche sul deficit per far ripartire, in Italia come nel resto d’Europa, i piani di ripartenza delle opere pubbliche, probabilmente una prima risposta si potrebbe dare. Ma poi, del resto, lo ha detto Keynes qualche annetto fa: nei momenti di depressione mettiamo un po’ di gente disoccupata a scavare delle buche e un po’ di gente a riempirle nuovamente. Sembra un’attività inutile, ma in realtà, quel reddito che diamo a quei disoccupati genererà domanda che, a sua volta, genererà altra domanda che, a sua volta, innescherà un effetto virtuoso nell’economia del Paese afflitto da crisi e depressione. Ci vuole coraggio. Io credo che i livelli di deficit siano già tanto elevati, che aggiungerne un pochino non cambierebbe nulla. Stati Uniti docet.

Barbara Marchio - Io vorrei riallacciarmi a quello che ha detto il Dottore Marchese prima, cioè che bisogna far leva sulle proprie capacità e chiedersi "cosa ci piace fare", farlo bene e cercare di renderlo spendibile nel contesto in cui si vive. Però è anche vero che ci sono molte persone da casa, penso alla stragrande maggioranza delle persone che oggi si trovano a dover fare quello per cui non hanno studiato, quindi è difficile dire a queste persone, in un momento di crisi in cui comunque il lavoro difficilmente si trova, di lasciar stare quello che fanno se non sono motivati a farlo. La qualità del lavoro ( e quella della propria vita) sicuramente diminuisce, però si stringe i denti guardando alla fine del mese. E allora, da bravo coach motivazionale quale lei è, Dottor Marchese, cosa dire a tutte queste persone che svolgono un’attività che non è la propria ma che ti permette di andare avanti?

Giorgio Marchese - Soltanto la verità. Io penso che abbiano ragione ad infastidirsi ... penso alle migliaia di ricercatori e di persone che non si vedono riconosciuti i diritti per i quali hanno studiato, ma la realtà è questa: evidentemente non si punta, socialmente parlando, a fare qualcosa per migliorarsi in tal senso. Probabilmente ci siamo accorti, con periodi di crisi come questa, che noi siamo diversi dagli Stati Uniti, che sono un insieme di Stati dalla mentalità più aperta; noi siamo abbastanza conservatori... per quanto, come italiani all’interno dell’Europa noi siamo quelli più inventivi e creativi ma, possibilmente, a basso impatto di impegno e di rischio.

La realtà è che bisognerebbe aiutare chi sceglie il percorso universitario, sicuramente ad andare verso ciò che preferisce, ma senza dimenticare che, se in una Società matura, le varie offerte formative aiutano certamente a crescere; in una Società come la nostra già è difficile pensare in un ottica di prevenzione dagli errori perché si tenta di correre ai ripari, quando il danno si è incancrenito.

E allora, all’interno di questo ambito, bisogna cercare quello che si è disponibili a fare, senza compromessi e senza svilirsi e svendersi, aspettando che qualcosa evolva, ma con il contributo di tutti, altrimenti, da questo punto di vista, è difficile che cambi sul serio.

Rispetto ai potenti, che decidono dei destini del mondo, noi siamo piccoli e, nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa che ci migliora, quantomeno nel comprensorio a noi più vicino, perché è lì che viviamo anche se l’economia è globale: però poi io respiro questa aria, non quella che sta in Cina!

Di conseguenza, come rispondere alle persone che dicono "ma io come faccio ad amare il mio lavoro?" mi viene in mente che personaggi come Albert Einstein si sono mantenuti nella vita insegnando violino o lavorando nell’ufficio brevetti, nell’attesa di imparare tutto quello che serviva per scoprire il modo di rendersi, più idonei, più adatti, a farsi accettare. Perché non basta avere delle buone idee: bisogna vedere quanto sono applicabili, quanto gli altri ci vogliono, sul piano di un corretto ambito economico.

È vero, noi siamo piccoli ingranaggi di un grande sistema. Per intanto, io devo fare la mia parte di ingranaggio, però dovrei sapere dove mi conduce, questo mio agire, in modo tale da sentirmi utile e importante, anche se non indispensabile.

Barbara Marchio - Come dicevamo, la difficoltà di un’impresa sociale è quella che vivono tutte le imprese del tessuto economico attuale. Sicuramente quello che aiuta, è la motivazione di base che guarda, appunto, alla persona e all’uomo. Dott. Serra, come far vivere questo momento di crisi alla stregua di un punto non di fine ma di inizio da cui ripartire con slancio?

Giovanni Serra - Innanzitutto bisogna dire che è dura. Questo ce lo diciamo a scanso di equivoci: non ci sono supereroi nel mondo dell’impresa sociale, come non ci sono nella vita normale. Ciascuno di noi che lavora in questo ambiente è una persona come tutte le altre benché ha, per varie vicissitudini della propria vita, incontrato una possibilità e l’ha trovata bella, interessante, motivante, e quindi si è giocato in questa ipotesi. Il tema della motivazione è essenziale perché è evidente che la difficoltà ordinale, la difficoltà aggiuntiva che deriva dal fatto di provare a fare produzione valorizzando il lavoro di persone che per loro natura sono a bassa produttività, è evidente che rende più complicate le cose. E ciò richiede una motivazione maggiore che significa anche tempo che va al di là del normale tempo di lavoro, che ha a che fare con la possibilità di attrarre anche tanto impegno volontario da parte di amici, di persone che vogliono coinvolgersi in un’impresa che diventa impresa collettiva. In questo senso, però, la motivazione fonda anche una sorta di utopia: con un po’ di pretenziosità noi immaginiamo di essere anche un po’ uno stimolo ad un modo diverso di vedere l’attività imprenditoriale, di vederla in quella dimensione che noi pensiamo essere la dimensione ordinaria dell’impresa; l’impresa è tale nella misura in cui è un’impresa che lavora sodo per il profitto individuale dell’imprenditore ma che si pone responsabilmente nel contesto sociale, come elemento di un’economia civile, un’economia sociale, di un’economia che partecipa alla costruzione di un interesse generale, del bene comune. In questo senso io penso che sia un po’ un’utopia perché rappresenta una provocazione rispetto ad un’idea diversa dello sviluppo. Si diceva prima, dello sviluppo che non riparte, dell’attesa di una crescita che, in qualche modo, rappresenti il contrappeso rispetto ai sacrifici che sono stati fatti in questi anni e che ancora stiamo facendo imposti, in qualche modo, anche dalla condizione internazionale. La mia visione è che noi abbiamo proprio bisogno di un’idea diversa di sviluppo perché io sono convinto (non so se dico qualcosa di poco condivisibile) che questa crisi, così come noi la conosciamo, non è destinata a finire nel breve periodo; noi viviamo una situazione nella quale, grandi Paesi nel mondo si stanno sviluppando a ritmi vertiginosi e stanno andando ad acquisire, ad utilizzare per il loro sviluppo, risorse non rinnovabili: le materie prime. L’acciaio, l’energia, ecc., sono tutte cose che l’India, il Brasile, la Cina, la Russia e grandi Paesi in sviluppo, con il 42% della popolazione mondiale, stanno andando ad utilizzare e li sottraggono a noi. E allora la prospettiva nostra è immaginare uno sviluppo che è meno impattante sulle risorse naturali.

Interessantissima la prospettiva che diceva il Dottore Bilotta: l’edilizia non può continuare ad immaginare di lavorare sulla nuova costruzione! Non se ne può più dell’occupazione di suolo che va a sfasciare il territorio precario che noi abbiamo bisogno di recuperare. Questa idea del recupero, del riutilizzo, della possibilità di lavorare senza distruggere risorse ma, invece, riuscendo a ricollocare, riutilizzare risorse esistenti, è un’idea che, mutuata nei diversi ambiti, può voler dire, per esempio, anche, il provare a riutilizzare risorse scartate dalla Società, quali sono le persone che incrociano l’esperienza della tossicodipendenza, l’esperienza del crimine e, quindi, del carcere, che impattano con le disabilità fisiche o psicologiche.

Si tratta di immaginare una Società nella quale ci si fa carico della valorizzazione di tutto quello che c’è. Io penso che noi, come Paese Italia (e la Calabria in questo senso può essere, nella sua debolezza, un emblema di ciò che può avvenire) possiamo giocarci una partita straordinaria, di un modo diverso di intendere lo sviluppo e la felicità: non è detto che si debba essere felici solo consumando tante risorse; probabilmente c’è la possibilità di essere felici anche in una condizione di minore ricchezza.

Barbara Marchio - Nella popolazione, c’è la percezione di una classe politica inadeguata: la crisi è da ricondurre ad un’azione di Governo (sia esso del Paese, Regionale, Prvionciale, etc.) inadeguata a quelle che sono le necessità dei cittadini.

Domenico Bilotta - Si. Io non vorrei che questo si trasformi in una vulgata nel senso che, alla fine, "si getti via il bambino insieme con l’acqua sporca". Sicuramente un problema di ricambio della classe dirigente e politica di questo Paese c’è, però questa crisi economica è un problema che abbiamo importato non da errori compiuti in Italia: tutto è nato nel biennio 2007-2008 da un paio di scandali Nord- Americani legati a fenomeni speculativi che poi, alla fine, hanno contaminato e appestato l’economia monetaria del mondo.

Ancora oggi circolano, nel pianeta, titoli di debito pari a 10 volte il PIL di tutto il Mondo: è come se una famiglia fosse indebitata per 10 volte dello stipendio annuo del proprio capofamiglia o un’azienda fosse indebitata per 10 volte il proprio volume d’affari. Sono cifre rispetto alle quali le prospettive di soluzione sono davvero limitate.

L’Italia non ha partecipato a questa sbornia speculativa e, men che meno, vi ha partecipato la nostra Regione; per la verità, io avevo elementi di ottimismo quando partì la crisi mondiale ... dicevo "tutto sommato per Regioni che vivono di settori tradizionali come la Calabria che vive di agroalimentare, di turismo, ecc., forse si aprono prospettive concrete perché non siamo contaminati".

Purtroppo, il prezzo lo abbiamo pagato anche noi perché, come ho detto nel precedente intervento, il sistema bancario è stato salvato non per salvare l’economia reale ma per salvare gli equilibri del debito pubblico. Resta comunque il fatto che, un problema di ricambio della classe politica, c’è. Non vorrei che questo fosse, poi, la panacea, la soluzione di tutti i mali perché comunque i problemi fondamentali restano e, quindi, abbiamo un periodo lungo, di sacrificio ... questa è una crisi che è destinata a durare molti anni e probabilmente, alla fine di questo, il mondo sarà diverso rispetto a quello che era all’inizio di questo ciclo, perché c’è un problema di distribuzione mondiale delle risorse.

Barbara Marchio - Dottor Marchese, riallacciandoci a coloro i quali sostengono che "non bisogna perdere la speranza", io citerei, a questo punto, Roosvelt "La più grande crisi che dobbiamo affrontare è la paura di non farcela!"

Giorgio Marchese - Un certo Signor Albert Einstein, a proposito della crisi, sosteneva che il problema maggiore è la crisi dell’incompetenza. Probabilmente, a differenza dei due esperti che stanno intervenendo insieme a me, questa sera, ho qualche libertà in più, nel senso che, da medico psicoterapeuta e con un’ottica da Counselor, incontro delle persone che, accanto alle difficoltà che solitamente un professionista che si occupa di problematiche come le mie incontra (come ansia e depressione), ormai impattano con dei disturbi derivanti dalla paura del presente che tirandosi dietro problematiche del passato, non garantiscono alcun tipo di futuro.

Dice qualcuno che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità! Probabilmente siamo come quei ragazzi liceali che, vuoi docenti particolarmente accondiscendenti, vuoi qualche aiuto esterno che, forse, sarebbe stato meglio non avere, scoprono che, in realtà, hanno una preparazione che non va oltre la terza media. E va bene, niente drammi, ricominciamo da là!

Esisterà sempre, nella Società, una domanda e un’offerta: non sarà quella di prima; come diceva Domenico: "sarà diverso il Mondo!" Probabilmente sarà più vaccinato, sarà più maturo, sarà più ristretto dal punto di vista delle voluttà, sarà molto più ambizioso dal punto di vista delle possibilità. E allora, che cosa poter "significare" in termini di ottimismo? L’ottimismo è qualcosa che ti porta a ipotizzare che il futuro andrà meglio. Probabilmente bisognerebbe partire da una dose di sano realismo:

  • Cosa ho?
  • Su cosa posso contare?
  • Dove posso arrivare?

Forse non ci saranno più tanti soldi, per un bel po’ di tempo ... non dico che si tornerà al baratto, ma non dimentichiamo che, comunque, il denaro è un mezzo per raggiungere quello che ti serve. Ma cosa ti serve? Se non riusciamo a capirlo, ci guastiamo l’esistenza perché abbiamo poco "mezzo" da scambiare senza sapere verso dove, in cosa e perché!

Come aiutare ad andare oltre, questa coltre di polvere? Soprattutto aiutando a capire che, un sistema, di fatto, non muore.... infatti, non possiamo scomparire, non possiamo estinguerci; possono cambiare i gusti, orientandosi su quello che è veramente un bisogno. Da lì ripartire, magari con più cognizione di causa.

Barbara Marchio - Chiudiamo con Giovanni Serra: ottimismo ma, anche, una buona dose di realismo servono per dire, a questi imprenditori, che fare impresa è bellissimo e bisogna ovviamente prefissarsi l’obiettivo di farla andar bene anche per il bene di chi ci lavora; ma gli esiti di questo andar bene non appartengono a noi soltanto; così come, il buon lavoro che abbiamo svolto, non ce lo toglie nessuno, nella buona e nella cattiva sorte.

Giovanni Serra - Indubbiamente la responsabilità di fare bene, ognuno, le proprie cose, resta essenziale. Nessuna paura del futuro può togliere all’oggi la responsabilità di far bene. Noi ce la faremo, come Paese, nella misura in cui non lasceremo solo nessuno, cioè, nella misura in cui riusciremo a costruire un sistema di solidarietà che consenta, anche, di compiere delle scelte difficili come quella di prendere una strada diversa nel proprio percorso di studio o di lavoro, piuttosto che lasciare il business che si stava facendo per provare ad immaginare una strada differente nella propria vita.

Ma, questo, è possibile nella misura in cui nessuno di noi si sente solo. Perché di fronte alla solitudine sarà più difficile compiere delle scelte di cambiamento. Io penso che questa sia la grande strada che noi possiamo aprirci: "regalarci" reciprocamente, se vogliamo costruirci un futuro possibile.

Si ringrazia Emanuela Governi per il preziosissimo aiuto nella trascrizione della trasmissione.

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