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La pervasività televisiva
di Maria Teresa Bello  

6 settembre 2003

Può, la Televisione, considerarsi come "metafora" della fine dell'intimità?



"Parlare della TV è uno sport nazionale, ma significa anche parlare di noi stessi. Essa è il nostro Tempo e la nostra Casa. Luogo di prodigi, fantasmi, imbonitori, santi e tiranni. Paradiso artificiale e teatro di guerre. Oscena e segreta... condizione di ogni atto, territorio dell’esperienza e fuga dalla realtà. Sempre esposta all’occhio ingordo dell’opinione pubblica, che vi si ritrae inorridita e vi si perde". (Alberto Abbruzzese)

In questi ultimi anni il dibattito sulla Televisione si è amplificato enormemente. E’ la stessa TV che parla di sé, del proprio ruolo, del potere che ha. Così facendo invita il pubblico a consumarla, in quanto la sua autocelebrazione ne attira l’attenzione. L’inciso di Abbruzzese su citato stigmatizza la pervasività della televisione, cioè la sua diffusione capillare.

Per meglio definire il concetto di pervasività, ricorriamo ad una metafora fantascientifica, ovvero quella che Fausto Colombo individua nella sequenza iniziale del video - movie "Max Headroom" (Inghilterra 1985 regia Morton/Jankel). In tale video l’occhio della telecamera è ovunque e, così facendo, l’immagine doppia il mondo nell’immagine elettronica. Ma, se l’immagine è attorno e dentro di noi, l’esperienza del pubblico non è più totalmente autentica, non possiamo più pensare ad un esperienza totalmente immediata rispetto alla sua rappresentazione televisiva. Ormai è un dato di fatto che nella nostra Società, l’immagine elettronica (quella televisiva in particolare) giochi un ruolo essenziale tanto nel processo di informazione di massa, quanto nella costituzione di un nuovo immaginario, cui contribuiscono sia i contenuti delle rappresentazioni collettive, sia le modalità di percezione della realtà.

La novità di questa società postindustriale è che la produzione dell’immaginario e di comunicazione è diventata centrale rispetto ad ogni tipo di processo produttivo. E ancora, visto che la cultura di massa che viene fuori da un tipo di produzione è finalizzata e distribuita secondo le forme di targettizzazione e distribuzione industriale, ciò segna la centralità di un nuovo tipo di merce: la merce - informazione.
Tale situazione ha attribuito un rilevantissimo valore sociale ai mezzi di comunicazione di massa. L’ipotesi che si vuole dimostrare è come le immagini televisive stiano acquisendo lo statuto di cose, trasformando la nostra concezione del reale: perché, se è indubbio che i media subiscono una pressione da parte del sistema sociale, è vero anche, d’altronde, che sono tra i maggiori responsabili del suo cambiamento.

È importante, pertanto, rendere evidente, con l’analisi dell’attuale scenario televisivo e di quello futuro prospettato dalle innovazioni tecnologiche, l’urgenza di un paradigma etico da applicare alle produzioni televisive. Un tale impegno ecologico indirizzato al medium televisivo diventa logica risposta ad un’era postindustriale caratterizzata dal primato della comunicazione su quello del messaggio da comunicare (fattore questo che sovverte tutte le teorie comunicative).

Infatti, in una Società irretita dai satelliti, la macchina informativa per planetizzarsi, necessita di canali sempre aperti ed ecco la soluzione della saturazione spettacolare. Questo perché la realtà (ovvero quella quota di mondo che si oppone ai media ed insieme ne fonda il significato in una relazione biunivoca), non potendo creare sempre eventi così rilevanti da dover essere comunicati, non basta come serbatoio di spunti per la creazione di oggetti comunicativi. La conclusione a cui si giunge sulla base di tali premesse, è che va riconosciuta ai media la capacità di creare una neo-realtà extra-mediale fatta di pura comunicabilità.

La televisione, infatti, ha ormai creato un mondo speculare e mimetico, che avvolge quello vero. (F. Colombo)


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