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Quando l’abito fa... il Monaco!
di Francesca Ferrari  

6 settembre 2003

Esiste una relazione tra alcuni tratti della personalità e la scelta dei vestiti.


 

Un aspetto nient’affatto trasdcurabile della comunicazione non verbale, è rappresentato dall’abbigliamento. Il vestito, infatti, è una specie di seconda pelle che ci accompagna per tutta la vita, basti pensare che uno degli incubi più comuni durante i sogni è quello di ritrovarsi nudi o scarsamente vestiti tra la gente.

La funzione dell’abito non è solo quella di proteggerci dal freddo; esso ne svolge molte altre più importanti: informa gli altri sulla nostra identità sessuale, (o, almeno, dovrebbe informare!) sul nostro status sociale, sull’appartenenza culturale e, perché no, sul nostro umore. Gli abiti, dunque, sono un modo per comunicare, pur se inconsapevole e la maggior parte della gente manda significative informazioni, a chi le sa cogliere, attraverso il proprio aspetto esteriore.

A giudizio di Sissons si può giudicare la classe sociale di una persona in modo relativamente esatto sia da una fotografia del suo guardaroba, sia da una registrazione della sua voce, o da una foto del suo volto.

Goffman ha elaborato la teoria della "presentazione di sé", affermando che le persone possono intenzionalmente manipolare le impressioni che vogliono suscitare sugli altri attraverso un tipo particolare di abbigliamento.

E’ con l’abito che noi esprimiamo la nostra adesione ad un gruppo, il grado di accettazione di determinati modelli di comportamento, il desiderio di piacere. Con l’abito diciamo quanto siamo diversi dagli altri e quanto vogliamo essere come gli altri. Ne sono un esempio i jeans.

Fino all’età di cinque anni i bambini sono scarsamente interessati al linguaggio dell’abito.

Nello stadio cosiddetto "del gioco sociale", cominciano ad interessarsi dell’abbigliamento, scegliendo capi di vestiario che possano identificarli come membri di un determinato gruppo o anche come singoli individui.

Gli adolescenti curano moltissimo il loro aspetto esteriore, forse perché non hanno ancora maturato una precisa immagine di sé e quindi sentono il bisogno di identificarsi con altri membri del loro gruppo, anche attraverso l’abbigliamento.

A volte determinate caratteristiche dell’abbigliamento possono inviare messaggi decodificabili in termini di aggressività. Nella nostra civiltà occidentale gruppi di giovani e di adolescenti utilizzano il vestito per ostentare la propria identità di gruppo, a volte minacciosa, in contrapposizione ad altri gruppi o alla società in generale. Sono i cosiddetti "punk", "metallari", "skin-heads", "ultras", etc. I membri di tali gruppi esibiscono un abbigliamento molto vistoso (stivali, borchie, catene, giubbotti dalle spalle molto larghe ecc.) nonché capigliature variamente scolpite e colorate.

Eibl-Eibesfeldt afferma che gli abiti da guerra danno risalto alle parti del corpo che fanno apparire l’uomo più grande e minaccioso attraverso la sottolineatura dei tratti più virili, in particolare le spalle squadrate. Tali caratteristiche si ritrovano più o meno in tutte le culture anche le più diverse tra loro: gli Indios dell’ Amazzonia, per esempio, usano ornare le spalle con ciuffi di penne quando si preparano alla guerra.

Esistono delle relazioni tra alcuni tratti della personalità e la scelta dei vestiti: persone fortemente motivate al successo indossano più volentieri abiti pratici; quelle poco sicure di sé ed aggressive sono più esibizioniste nella scelta dei loro abiti

L’abbigliamento esercita un effetto anche sul comportamento degli altri. Numerosi studi hanno confermato che una persona vestita in modo convenzionale oppure ordinata riesce ad avere più successo o consensi di un’altra. L’uniforme, poi, esercita un’influenza ancora maggiore.

In definitiva, i segnali non verbali sono molto più potenti di quelli verbali in quanto meno controllabili e, quindi, più autentici.

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