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FIGLI...
di Francesca Posteraro  ( francescaposteraro@lastradaweb.it )

2 marzo 2019





Il mio ruolo di Madre


UNA VITA CONTROVENTO - 5

Kimberly diventò molto più capricciosa e ribelle, nutriva una forte gelosia nei confronti del fratello, sapevo che questo sarebbe potuto accadere, ma quello che più mi preoccupava era che potesse risentire del fatto che Francesco non era il suo vero padre, a differenza di Pietro.

Mio marito d’altro canto mi aveva sempre rassicurato: per lui non c’era alcuna differenza, si sentiva padre di entrambi i bambini, era solo una mia impressione e anche se a volte sgridava Kimberly, era solo perché Pietro era più piccolo e, secondo lui, andava assecondato.

Ma questo scaturì in Kimberly una rabbia incontrollabile:

Ogni comportamento di Francesco era un pretesto per manifestare fastidi sempre maggiori. Ricordo come mi fece dannare nell’occasione del battesimo di Pietro, quando capì che suo fratello era il protagonista di quell’evento e fece di tutto per stare al centro dell’attenzione. Quando Vittorio e Serena (i nostri testimoni che furono anche padrino e madrina di Pietro) diedero la collana, simbolo del battesimo, a Pietro, lei pianse talmente tanto che, per calmarla, gliela facemmo indossare.

Speravo che crescendo si sarebbe calmata, invece venne fuori il suo carattere da ragazzina testarda e determinata. Quando frequentava le scuole primarie non manifestava alcun problema; era una bimba studiosa e laboriosa, molto unita ai compagni, con i quali aveva condiviso la scuola materna e con cui avrebbe proseguito anche alle scuole secondarie.

Essendo, la scuola, ubicata in una struttura piccola, i bambini erano molto seguiti; si era creata una seconda famiglia e le insegnanti divennero delle seconde mamme per loro e, per Kimberly, questo fu molto positivo dato che la sua situazione familiare era diversa da quella degli altri.

Ritengo, comunque che, noi, siamo stati sempre una famiglia unita sia in casa che agli occhi degli altri. Non abbiamo mai fatto sentire Kimberly diversa dagli altri bambini; in qualsiasi occasione scolastica (una recita, una riunione o una festa) andavamo sempre tutti insiemee poteva contare, sempre, sia sulla figura della madre che su quella del padre.

Ma la cosa che destava attenzione e curiosità era il fatto che Kimberly non chiamasse papà Francesco, ma con il diminutivo di “Fra”; in questo modo, per lei, era come se dicesse “papà”.

Di questo me ne faccio una colpa!

Quando era piccolissima e cominciava a parlare, d’istinto una volta lo chiamò papà e purtroppo, io (consigliata da mia madre) le spiegai che doveva chiamarlo per nome. Lo feci in buona fede, non volevo confonderle le idee; frequentava la nonna paterna, andava la domenica a farle visita con mia sorella (visto che era anche la suocera).

Lì, ovviamente, le dicevano la verità, cioè che suo padre era un’altra persona.

Così quando iniziò a capire le spiegai un pò la situazione omettendo delle verità scomode, come il fatto che il suo vero padre era in carcere, ma dicendole che faceva il sevizio militare fuori città, proprio come lo zio Victor. Non volevo turbare la sua infanzia.

Ricordo che, il padre “biologico” la rivide, per la prima volta dopo la sua nascita, quando Kimberly aveva ormai nove anni in occasione del matrimonio tra mia sorella Linda e suo fratello Victor. Fu un momento molto spiacevole per me; anche io non lo vedevo da nove anni e da allora le cose erano molto cambiate: ero sposata con Francesco, non frequentavo più nessuno della sua famiglia e ritrovarci tutti insieme nello stesso ambiente fu a dir poco imbarazzante.

Quando vide Kimberly la chiamò invitandola ad andare verso di sè; io avevo preparato la bambina a questo, così lei andò da lui ma rimase li solo per pochi minuti. Per lei, infatti, era un completo sconosciuto, non chiedeva mai d lui, nonostante sapesse della sua esistenza.

Da quel giorno lo rivide solo un altro paio di volte, poi lui si trasferì a Como; doveva aver iniziato un’altra relazione con una ragazza da cui aspettava un bambino. Per fortuna rimase lontano sia da me che da mia figlia.

Che continuasse a fare la sua vitaccia!

Dopo quell’incontro sparirono anche le mie paure, quelle che avevo maturato negli anni quando, saputo della mia relazione con Francesco, lui mi inviava dal carcere delle lettere minacciose e macabre, sporche di sangue, giurando vendetta e scrivendo che appena fuori dal carcere mi avrebbe uccisa.

Ma io non mi feci intimorire, non ero più quella ragazzina fragile e vulnerabile da poter manipolare a suo piacimento; ero diventata una donna forte e combattiva. Sapevo bene che era un codardo, che appariva forte dietro una lettera e infatti è quello che confermò quando mi vide insieme a Francesco: chinò il capo e rimase al suo posto.

Si fece sentire dopo diverso tempo quando venne a sapere tramite sua madre che Kimberly aveva un serio problema di salute.

All’incirca all’età di 10 anni fu colpita da un batterio alle vie respiratorie. Quello fu un altro momento drammatico della mia vita. Cominciò con una tosse curata inizialmente con uno sciroppo sotto consiglio del pediatra; ma, più i giorni passavano e più la tosse aumentava, persisteva giorno e notte. Decidemmo di fare tutti gli esami per trovare la causa, ma non servì a nulla, non si trovava una diagnosi, così la portammo in ospedale dove rimase ricoverata per circa 15 giorni senza alcun esito, non si riusciva a trovare la causa. Nel frattempo la bimba era stremata, rigurgitava schiuma bianca insieme a tracce di sangue. In ospedale decisero di fare una broncoscopia con anestesia totale, visto la tenera età...

...sospettavano un tumore alla gola.

In quel momento mi cadde il mondo addosso. Fino a che non terminò l’esame, non riuscivo a prendere pace. Finalmente uscì il medico dalla sala operatoria e mi disse: “Signora, è tutto a posto abbiamo escluso il cancro, il polmone è solo sotto sforzo a causa della persistente tosse”.

Fu come se mi avessero detto che era nata per la seconda volta. Decisi di portarla a Perugia dove mi avevano consigliato un bravo specialista. E cosi fu! Questo medico riuscì a capire il problema, era un pericoloso agente infettante che aveva colpito le vie respiratorie e con un ciclo di antibiotici, da cambiare ogni 15 giorni, guarì.

La tosse scomparì completamente.

Io uscii molto stremata da questa situazione, anche perchè ero ancora provata delle sventure capitate all’altro mio figlio. All’età di tre anni fu operato, tra la vita e la morte, di peritonite; erano giorni che stava male, tutto era iniziato con un rigurgito dopo aver bevuto un succo e da lì, febbre alta.

Pensavamo fosse una banale influenza viscerale per cui ci consultammo con il suo pediatra che si limitò a prescrivere una terapia farmacologica, telefonicamente. Ma col passare dei giorni stava sempre peggio, non mangiava, non voleva bere e continuava a vomitare e ad accusare forti dolori all’addome, almeno cosi ci faceva capire.

Aveva solo tre anni.

Arrivò al punto di perdere tutte le forze: non riusciva a stare in piedi e nemmeno seduto sul letto, parlava appena. Lo portammo di corsa in ospedale, ma per tre giorni andammo avanti e indietro, per loro si trattava di un’influenza viscerale. Mi consigliarono di dargli da mangiare dei gelati perché era disidratato, ma Pietro rifiutava ogni tipo di cibo e la notte stessa peerse conoscenza.

Infuriata tornai in ospedale pretendendo che si adoperassero almeno per un emocromo.

Trovammo la stessa dottoressa del giorno prima, che con faccia tosta mi disse effettivamente che dal giorno prima il bimbo aveva cambiato colorito, era più giallo. Lo sottoposero ad opportune anailisi del sangue (che, ovviamente, risultarono alterate) e, quindi, una ecografia all’addome... e cominciarono le diagnosi assurde:

...macchie anomale che richiedevano esami più approfonditi!

Sia io che Francesco ci siamo presi un bello spavento. Passata la notte a scongiurare il peggio, al mattino arrivò il primario del reparto di chirurgia pediatrica che visitò Pietro e ci comunicò che doveva essere operato con urgenza per un attacco di peritonite.

Io cominciai a piangere e a disperarmi ma il medico con aria autoritaria mi richiamò, invitandomi a non disperare: dovevo essere forte. Pietro aveva bisogno di me e averlo portato in ospedale era stata la cosa più saggia che avessi potuto fare: se solo fossero passate un altro paio d’ore, il bambino non ce l’avrebbe fatta.

Mi feci forza e accompagnai Pietro in sala operatoria, lo lasciai solo dopo la somministrazione della preanestesia.

Furono ore interminabili, avevo il cuore a mille; l’ansia e la paura si erano impadroniti di me. Mi calmai solo quando vidi mio figlio uscire da quella sala operatoria, sano e salvo. Passarono mesi prima che si riprendesse completamente, aveva perso molto peso e faceva fatica a mangiare.

Ma purtroppo le sue sventure non finirono lì.

Dopo nove mesi dall’intervento cadde nel corridoio di casa, ricordo che era una domenica di maggio e avevo invitato le mie sorelle a pranzo, lui giocava con i cuginetti inseguendoli per casa ma, essendo ancora debole, cadde e si fratturò la clavicola.

Lo ingessarono fino a mezzo busto per almeno 20 giorni. Come se non bastasse, dopo una settimana ebbe la varicella, chiamai subito in ospedale perchè sotto l’ingessatura il prurito era fortissimo. Mi risposero: “Signora non si preoccupi è normale che abbia prurito, anzi il gesso servirà a non farlo grattare....

Io ripetei che mio figlio piangeva di continuo supplicandomi di fargli togliere il gesso, ma loro furono lapidari: “Se non vuole un figlio con una spalla offesa deve tenere l’ingessatura”.

Ma dopo aver passato un’altra notte a vedere Pietro piangere, andai in ospedale e obbligai i medici a togliere quel maledetto gesso: in caso contrario, li avrei denunciati.

Finalmente mi diedero ascolto.

Ricordo una scena raccapricciante, appena levarono il tutto si resero conto che la pelle sotto il gesso era come ustionata, praticamente le bolle della varicella si erano trasformate in piaghe. Un dermatologo si adoperò per delle opportune medicazioni e diede una cura adeguata per risanare la pelle, perchè mio figlio aveva rischiato la setticemia.

Mi prese una rabbia tale che avevo l’impulso di strangolare quei medici con le mie mani, ma poi pensai che il mio istinto materno ancora una volta mi aveva aiutata a salvare la vita di mio figlio.

In quel momento mi sentii imbattibile, ero convinta che tutte queste sofferenze mi avevano fortificata, che qualsiasi situazione mi si presentasse ne sarei uscita comunque vincente.

Ma il tempo mi ha fatto capire che non era cosi, anzi!

CONTINUA...

Francesca Posteraro

Adattamento del testo: Fernanda Annesi


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