UNA
VITA CONTROVENTO - 5
Kimberly
diventò molto più capricciosa e ribelle, nutriva una
forte gelosia nei confronti del fratello, sapevo che questo sarebbe
potuto accadere, ma quello che più mi preoccupava era che
potesse risentire del fatto che Francesco non era il suo vero padre,
a differenza di Pietro.
Mio
marito d’altro canto mi aveva sempre rassicurato: per lui non c’era
alcuna differenza, si sentiva padre di entrambi i bambini, era solo
una mia impressione e anche se a volte sgridava Kimberly, era solo
perché Pietro era più piccolo e, secondo lui, andava
assecondato.
Ma
questo scaturì in Kimberly una rabbia incontrollabile:
Ogni
comportamento di Francesco era un pretesto per manifestare fastidi
sempre maggiori. Ricordo come mi fece dannare nell’occasione
del battesimo di Pietro, quando capì che suo fratello era il
protagonista di quell’evento e fece di tutto per stare al
centro dell’attenzione. Quando Vittorio e Serena (i nostri
testimoni che furono anche padrino e madrina di Pietro) diedero la
collana, simbolo del battesimo, a Pietro, lei pianse talmente tanto
che, per calmarla, gliela facemmo indossare.
Speravo
che crescendo si sarebbe calmata, invece venne fuori il suo carattere
da ragazzina testarda e determinata. Quando frequentava le scuole
primarie non manifestava alcun problema; era una bimba studiosa e
laboriosa, molto unita ai compagni, con i quali aveva condiviso la
scuola materna e con cui avrebbe proseguito anche alle scuole
secondarie.
Essendo,
la scuola, ubicata in una struttura piccola, i bambini erano molto
seguiti; si era creata una seconda famiglia e le insegnanti divennero
delle seconde mamme per loro e, per Kimberly, questo fu molto
positivo dato che la sua situazione familiare era diversa da quella
degli altri.
Ritengo,
comunque che, noi, siamo stati sempre una famiglia unita sia in casa
che agli occhi degli altri. Non abbiamo mai fatto sentire Kimberly
diversa dagli altri bambini; in qualsiasi occasione scolastica (una
recita, una riunione o una festa) andavamo sempre tutti insiemee
poteva contare, sempre, sia sulla figura della madre che su quella
del padre.
Ma
la cosa che destava attenzione e curiosità era il fatto che
Kimberly non chiamasse papà Francesco, ma con il diminutivo di
“Fra”; in questo
modo, per lei, era come se dicesse “papà”.
Di
questo me ne faccio una colpa!
Quando
era piccolissima e cominciava a parlare, d’istinto una volta lo
chiamò papà e purtroppo, io (consigliata da mia madre)
le spiegai che doveva chiamarlo per nome. Lo feci in buona fede, non
volevo confonderle le idee; frequentava la nonna paterna, andava la
domenica a farle visita con mia sorella (visto che era anche la
suocera).
Lì,
ovviamente, le dicevano la verità, cioè che suo padre
era un’altra persona.
Così
quando iniziò a capire le spiegai un pò la situazione
omettendo delle verità scomode, come il fatto che il suo vero
padre era in carcere, ma dicendole che faceva il sevizio militare
fuori città, proprio come lo zio Victor. Non volevo turbare la
sua infanzia.
Ricordo
che, il padre “biologico” la rivide, per la prima volta
dopo la sua nascita, quando Kimberly aveva ormai nove anni in
occasione del matrimonio tra mia sorella Linda e suo fratello Victor.
Fu un momento molto spiacevole per me; anche io non lo vedevo da nove
anni e da allora le cose erano molto cambiate: ero sposata con
Francesco, non frequentavo più nessuno della sua famiglia e
ritrovarci tutti insieme nello stesso ambiente fu a dir poco
imbarazzante.
Quando
vide Kimberly la chiamò invitandola ad andare verso di sè;
io avevo preparato la bambina a questo, così lei andò
da lui ma rimase li solo per pochi minuti. Per lei, infatti, era un
completo sconosciuto, non chiedeva mai d lui, nonostante sapesse
della sua esistenza.
Da
quel giorno lo rivide solo un altro paio di volte, poi lui si
trasferì a Como; doveva aver iniziato un’altra relazione
con una ragazza da cui aspettava un bambino. Per fortuna rimase
lontano sia da me che da mia figlia.
Che
continuasse a fare la sua vitaccia!
Dopo
quell’incontro sparirono anche le mie paure, quelle che avevo
maturato negli anni quando, saputo della mia relazione con Francesco,
lui mi inviava dal carcere delle lettere minacciose e macabre,
sporche di sangue, giurando vendetta e scrivendo che appena fuori dal
carcere mi avrebbe uccisa.
Ma
io non mi feci intimorire, non ero più quella ragazzina
fragile e vulnerabile da poter manipolare a suo piacimento; ero
diventata una donna forte e combattiva. Sapevo bene che era un
codardo, che appariva forte dietro una lettera e infatti è
quello che confermò quando mi vide insieme a Francesco: chinò
il capo e rimase al suo posto.
Si
fece sentire dopo diverso tempo quando venne a sapere tramite sua
madre che Kimberly aveva un serio problema di salute.
All’incirca
all’età di 10 anni fu colpita da un batterio alle vie
respiratorie. Quello fu un altro momento drammatico della mia vita.
Cominciò con una tosse curata inizialmente con uno sciroppo
sotto consiglio del pediatra; ma, più i giorni passavano e più
la tosse aumentava, persisteva giorno e notte. Decidemmo di fare
tutti gli esami per trovare la causa, ma non servì a nulla,
non si trovava una diagnosi, così la portammo in ospedale dove
rimase ricoverata per circa 15 giorni senza alcun esito, non si
riusciva a trovare la causa. Nel frattempo la bimba era stremata,
rigurgitava schiuma bianca insieme a tracce di sangue. In ospedale
decisero di fare una broncoscopia con anestesia totale, visto la
tenera età...
...sospettavano
un tumore alla gola.
In
quel momento mi cadde il mondo addosso. Fino a che non terminò
l’esame, non riuscivo a prendere pace. Finalmente uscì
il medico dalla sala operatoria e mi disse: “Signora, è
tutto a posto abbiamo escluso il cancro, il polmone è solo
sotto sforzo a causa della persistente tosse”.
Fu
come se mi avessero detto che era nata per la seconda volta. Decisi
di portarla a Perugia dove mi avevano consigliato un bravo
specialista. E cosi fu! Questo medico riuscì a capire il
problema, era un pericoloso agente infettante che aveva colpito le
vie respiratorie e con un ciclo di antibiotici, da cambiare ogni 15
giorni, guarì.
La
tosse scomparì completamente.
Io
uscii molto stremata da questa situazione, anche perchè ero
ancora provata delle sventure capitate all’altro mio figlio.
All’età di tre anni fu operato, tra la vita e la morte,
di peritonite; erano giorni che stava male, tutto era iniziato con un
rigurgito dopo aver bevuto un succo e da lì, febbre alta.
Pensavamo
fosse una banale influenza viscerale per cui ci consultammo con il
suo pediatra che si limitò a prescrivere una terapia
farmacologica, telefonicamente. Ma col passare dei giorni stava
sempre peggio, non mangiava, non voleva bere e continuava a vomitare
e ad accusare forti dolori all’addome, almeno cosi ci faceva
capire.
Aveva
solo tre anni.
Arrivò
al punto di perdere tutte le forze: non riusciva a stare in piedi e
nemmeno seduto sul letto, parlava appena. Lo portammo di corsa in
ospedale, ma per tre giorni andammo avanti e indietro, per loro si
trattava di un’influenza viscerale. Mi consigliarono di dargli
da mangiare dei gelati perché era disidratato, ma Pietro
rifiutava ogni tipo di cibo e la notte stessa peerse conoscenza.
Infuriata
tornai in ospedale pretendendo che si adoperassero almeno per un
emocromo.
Trovammo
la stessa dottoressa del giorno prima, che con faccia tosta mi disse
effettivamente che dal giorno prima il bimbo aveva cambiato colorito,
era più giallo. Lo sottoposero ad opportune anailisi del
sangue (che, ovviamente, risultarono alterate) e, quindi, una
ecografia all’addome... e cominciarono le diagnosi assurde:
...macchie
anomale che richiedevano esami più approfonditi!
Sia
io che Francesco ci siamo presi un bello spavento. Passata la notte a
scongiurare il peggio, al mattino arrivò il primario del
reparto di chirurgia pediatrica che visitò Pietro e ci
comunicò che doveva essere operato con urgenza per un attacco
di peritonite.
Io
cominciai a piangere e a disperarmi ma il medico con aria autoritaria
mi richiamò, invitandomi a non disperare: dovevo essere forte.
Pietro aveva bisogno di me e averlo portato in ospedale era stata la
cosa più saggia che avessi potuto fare: se solo fossero
passate un altro paio d’ore, il bambino non ce l’avrebbe
fatta.
Mi
feci forza e accompagnai Pietro in sala operatoria, lo lasciai solo
dopo la somministrazione della preanestesia.
Furono
ore interminabili, avevo il cuore a mille; l’ansia e la paura
si erano impadroniti di me. Mi calmai solo quando vidi mio figlio
uscire da quella sala operatoria, sano e salvo. Passarono mesi prima
che si riprendesse completamente, aveva perso molto peso e faceva
fatica a mangiare.
Ma
purtroppo le sue sventure non finirono lì.
Dopo
nove mesi dall’intervento cadde nel corridoio di casa, ricordo
che era una domenica di maggio e avevo invitato le mie sorelle a
pranzo, lui giocava con i cuginetti inseguendoli per casa ma, essendo
ancora debole, cadde e si fratturò la clavicola.
Lo
ingessarono fino a mezzo busto per almeno 20 giorni. Come se non
bastasse, dopo una settimana ebbe la varicella, chiamai subito in
ospedale perchè sotto l’ingessatura il prurito era
fortissimo. Mi risposero: “Signora non si preoccupi è
normale che abbia prurito, anzi il gesso servirà a non farlo
grattare....
Io
ripetei che mio figlio piangeva di continuo supplicandomi di fargli
togliere il gesso, ma loro furono lapidari: “Se non vuole un
figlio con una spalla offesa deve tenere l’ingessatura”.
Ma
dopo aver passato un’altra notte a vedere Pietro piangere,
andai in ospedale e obbligai i medici a togliere quel maledetto
gesso: in caso contrario, li avrei denunciati.
Finalmente
mi diedero ascolto.
Ricordo
una scena raccapricciante, appena levarono il tutto si resero conto
che la pelle sotto il gesso era come ustionata, praticamente le bolle
della varicella si erano trasformate in piaghe. Un dermatologo si
adoperò per delle opportune medicazioni e diede una cura
adeguata per risanare la pelle, perchè mio figlio aveva
rischiato la setticemia.
Mi
prese una rabbia tale che avevo l’impulso di strangolare quei medici
con le mie mani, ma poi pensai che il mio istinto materno ancora una
volta mi aveva aiutata a salvare la vita di mio figlio.
In
quel momento mi sentii imbattibile, ero convinta che tutte queste
sofferenze mi avevano fortificata, che qualsiasi situazione mi si
presentasse ne sarei uscita comunque vincente.
Ma
il tempo mi ha fatto capire che non era cosi, anzi!
CONTINUA...
Francesca
Posteraro
Adattamento
del testo: Fernanda Annesi
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