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L’ottimismo del Leopardi.
di Laura Trocino  ( leftr@tiscalinet.it )

25 maggio 2003

Vi avevano detto che il Leopardi è un piagnone? Beh, forse non avevano letto questo articolo!


 

Direttamente dal buio della storia della letteratura italiana, ecco a voi Giacomo Leopardi... ometto un po’ malaticcio e curvo, la cui poetica del pessimismo ha turbato i sonni di moltissimi studenti alle prese con gli esami di (presunta) maturità.

Ma è questo il vero volto del Leopardi?

Senza dubbio, il poeta si è ritrovato a vivere una condizione salutare piuttosto precaria, penalizzante e le vicende della sua vita personale hanno contribuito a creare in lui uno stato di frustrazione, quotidianamente alimentato dalla dura consapevolezza di vivere in un paese angusto come quello di Recanati... chiuso, provinciale e senza orizzonti.

Come poteva, un uomo del suo genio, emergere in un contesto simile?

Rimase solo... solo con il suo tesoro interiore, generosamente elargito a chi, nel tempo, ha voluto accostarsi a lui riconoscendogli quell’essere, indubbiamente, "fuori dal comune". La sua poetica, dunque, risente di quell’esistenza, certamente difficile e sofferta.

Ma si può considerare il Leopardi un pessimista solo per questo?

Non è possibile, ancora oggi, fermare l’attenzione esclusivamente su quei tratti della sua filosofia e del suo sentire in cui una "certa" letteratura lo ha "inquadrato".

E’ vero... nei suoi scritti, esistono tematiche come quella della Natura Matrigna ("O natura o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor?"), oppure quella legata alla filosofia del piacere, contenuta nell’opera "Lo Zibaldone", che dipinge l’uomo come un essere infelice per il fatto di rincorrere obiettivi che non lo soddisferanno mai.

Sono manifestazioni di sconforto, momenti di abbattimento?

Non potrebbero essere, invece, i "germi" di una contestazione nei confronti di una situazione oggettivamente difficile che, comunque, nonostante i problemi fisici e psicologici ed una famiglia particolare (forse da "telefono azzurro") non lo abbatte ma lo aiuta a diventare più forte nell’istante in cui riesce a superarli, guardando avanti?

La guerra più terribile è quella che deriva dall’odio rivolto non solo verso lo straniero, ma verso il concittadino, il compagno... e se stessi !

Sono soprattutto affermazioni come questa che consegnano alla storia, quella vera, un personaggio in grado di "contaminare" fatti e non misfatti dell’onda lunga dei reflussi solidaristici che, ancora oggi, ci ammantano di buoni propositi!

Giacomo Leopardi ha dimostrato di saper guardare avanti, perchè mai nessuno come lui si è accostato con sì tanta sensibilità alla contemplazione di quella stessa Natura che egli chiama "Matrigna"; basti pensare all’idillio "Alla luna", definita "graziosa" e "diletta", da cui emerge tutta la sensibilità di un uomo che, nonostante tutto, non cessa mai di abbandonarsi allo stupore e all’illusione.

Una continua propensione all’illusione... è questo l’aspetto che caratterizza grandemente la poetica del Leopardi e fa di lui una persona inevitabilmente positiva nel modo di affrontare la vita, anche, e soprattutto, quando questa gli ha elargito tante amarezze e delusioni.

"I fanciulli trovano tutto nel nulla, gli uomini trovano il nulla nel tutto".

Non è il solito Hermann Hesse o l’onnipresente Alberoni Francesco a dettarci una riflessione che ritroveremo spesso nei testi di filosofia "pret a porter", in vendita nei salotti buoni dei programmi televisivi di tendenza e delle poltrone di "marzulliana" memoria.

E ciò traspare anche dalla sua ultima opera, "La Ginestra" o fiore del deserto, che è un grido alla speranza: speranza che questo fiore, simbolo della vita umana, pur essendo fragile, debba resistere all’aridità che lo circonda... speranza che gli uomini possano unirsi tra loro "nelle angosce della guerra comune...".

Un message in the bottle, insomma!

Essere protagonisti della sofferenza e consapevoli delle brutture della vita, non significa non riuscire ad apprezzare tutto quello che di bello la vita può dare, anche se ciò significa semplicemente avvertire la gioia dell’attesa, come avviene nel canto "Il sabato del villaggio", o il sollievo che nasce dal pericolo scampato, che è la "La quiete dopo la tempesta", o ancora nutrire una flebile illusione, anche solo osservando la persona amata, perdersi nei ricordi, nell’Infinito e poter dire "...il naufragar m’è dolce in questo mare".

Nei versi leopardiani, allora, si insinua tutta la forza positiva che nasce dalla speranza nel futuro e dal ricordo del passato, due elementi che, sicuramente, non possono che costituire il sintomo di un animo in movimento, che va al di là delle continue delusioni e difficoltà che la vita gli pone dinanzi, un animo che non è disposto a chiudersi di fronte alla dura realtà che lo circonda, ma lascia sempre aperto uno spiraglio di luce, e di quello spiraglio riesce a fare un motivo per vivere, diversamente da quel che avviene nell’ambito del realismo verghiano: lì non c’è ricordo del passato né speranza per il futuro... le amare consapevolezze della vita sono destinate inesorabilmente a stagnare, immobili e senza via d’uscita...

Cos’altro aggiungere?

Se si facesse tesoro di questa testimonianza di vita al di là delle fredde antologie da studiare per strappare il voto al "cerbero di Italiano" e si trasfondessero queste "stille" in propaggini rap, nei riccioli rasta non albergherebbero polveri da inalare o "quarzi" da fumare, per sfuggire il peso della vita...

...Grande Giacomo, dunque!

 

 

 

 

 

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