Sono
sempre in viaggio. Ho basato la mia vita sulla periodica
organizzazione di un itinerario da seguire. Gli unici momenti in cui
resto fermo sono seduto in qualche albergo o in qualche rifugio a
guardare le mie mappe e a segnare sul mio taccuino i miei umori, così
da scegliere il luogo più consono in cui trovargli dimora. Ho
fatto di questa necessità un lavoro, in modo che da esso ne
tragga anziché solo un diletto anche una forma di
sostentamento. Scrivo articoli che invio mensilmente ad una rivista
di viaggi. Descrivo i vari modi di giungere a destinazione: in auto,
in treno, per la via più impervia o per quella meno faticosa
e, soprattutto, oltre che alle bellezze del luogo e dei posti da
visitare descrivo ciò che quei luoghi trasmettono, emanano,
suggeriscono. In verità parlo di me.
Ho
quarantasei anni e vivo da solo in mezzo al mondo. Nel momento in cui
decisi di non mettere radici in nessun luogo stipulai un patto con
l’amore, ovvero, che mai avrei legato la mia vita a quella di
un altro essere, perché sicuramente non avrei mai potuto
condividere nulla, se non la mia assenza. Certo, qualche passione
fugace l’ho vissuta anch’io, ma spegnevo il fuoco appena
consumato il desiderio. La mattina dopo lasciavo un biglietto sul
comodino e l’albergo.
La
mia famiglia, i miei genitori e mia sorella, si limitano ad
accontentarsi di una cartolina al mese. Quando mi capita di tornare,
il luogo in cui sono nato mi appare più estraneo di quello che
ho appena lasciato.
Il
mio ultimo umore mi ha condotto in questa regione di appena
tremiladuecentosessantatre chilometri quadri in mezzo alle Alpi. In
questo periodo sentivo forte la necessità, non di sentirmi
circondato, ma di essere avvolto da qualcosa che non avesse
orizzonte, lontano e in disparte, ad assaporare le stagioni nella
loro vera essenza: gli inverni rigidi e le estati fresche, foreste e
ghiacciai, valli, piogge, nevicate e il vento che accarezza i larici.
Le sue origini celtiche mi hanno chiamato per contemplare la sua
pace.
Ho
scelto uno chalet immerso nella natura e appositamente vicino a un
lago, affinché il mio sguardo non possa spaziare oltre il
dovuto, senza perdersi nell’immagine che si specchia troppo a
lungo.
Non
so mai in anticipo quanto mi fermerò. Mi è capitato, a
volte, anche di restare per appena due giorni senza neanche disfare
le valigie, se la mia mente mi suggeriva di aver sbagliato a
calcolare la destinazione. Un problema, poi, se questo accadeva
mentre mi trovavo già in viaggio verso quella prescelta.
Allora in quei casi ero costretto a fare un grosso sforzo per
metterla a tacere e costringerla a restare il tempo sufficiente per
scrivere venti righe.
L’albergo
è quasi al completo, ma a me, come sempre, viene rivolta
un’attenzione del tutto particolare, visto che dovrò
scrivere le mie impressioni sulla mia permanenza. Lo chalet è
meravigliosamente incastonato ai piedi del monte Cervino, si affaccia
sul Lago Blu e racconta storie e avventure, eco di persone sempre di
passaggio. Credo che mi fermerò qualche giorno.
Resto
per lo più isolato e mi limito a parlare con il personale
dell’albergo e con qualche abitante del luogo per avere le
informazioni di cui necessito. Il resto del tempo mi godo il
paesaggio seduto in veranda a scrivere, o gironzolando tra gli
alberi, o seduto sulla riva del lago.
Durante
il giorno cerco di visitare le attrazioni più affascinanti per
scrivere il mio articolo, ma lo faccio per lo più perché
non amo vivere l’albergo nelle ore in cui è più
affollato. Quando la mattina molto presto mi siedo nel ristorante a
fare colazione faccio finta di leggere il giornale e con la coda
dell’occhio guardo le famiglie che villeggiano qui alzati di
buon ora, già pronti per una scampagnata. I bambini tutti
assonnati si stropicciano gli occhi e mangiano a stento, mentre la
madre li invita a fare in fretta aiutata ben poco dal marito che si
limita a consumare la sua colazione e, forse, a pensare che avrebbe
fatto volentieri ben altro. Poi coppiette di innamorati, ancora
stanchi della notte, ma pronti a godersi ogni singolo giorno per quei
soldi messi da parte, mese dopo mese, appositamente per potersi
permettere il loro rifugio d’amore.
Ed
io riposo gli occhi sul giornale e penso chi, tra me e queste
persone, sia più in fuga.
-
Tutto bene Signor Faber? Desidera qualcos’altro?
-
Sì tutto bene. La ringrazio signora Teresa. Apposto così.
-
E oggi dov’è che va? Vuole che le consigli qualcosa?
-
No, grazie. Oggi credo che resterò nei paraggi e da domani
inizierò a visitare tutto.
-
Ah bene! Vedrà che qui si sentirà come in paradiso. Ci
sono dei luoghi incantevoli che ti ricongiungono col mondo!
-
Ne sono sicuro. Anche se si va in paradiso per non avere più a
che fare col mondo.
-
Come?
-
Lasci stare signora Teresa, - e le rivolsi un gran sorriso.
-
Torna per pranzo? Oggi preparo degli chnéfflene
che non deve assolutamente perdere!
-
Bene, sarà utile per il mio articolo. Allora cercherò
di rientrare.
-
Mi raccomando! Non si dimentichi! Ci tengo!
-
Certo. Glielo prometto.
Presi
il giornale e il mio taccuino deciso a godermi un giorno tutto per
me. L’albergo cominciava a svegliarsi e tutti erano indaffarati
a fare colazione per sbrigarsi e dedicarsi alle attività che
la città offriva, mentre io percepivo già l’estasi
di chi sta per concedersi una lenta passeggiata. Sì perché
non è così facile concedersi serenamente una
passeggiata senza contemplare una meta o un qualche scopo da
raggiungere. È un’esuberanza particolare quella che si
prova quando ci si limita a fare ciò che suggerisce la nostra
natura di animali. La necessità di avere una funzione sociale
è giunta solo dopo.
Questo
bosco di larici ha catturato la mia attenzione appena sono arrivato.
Raggiungono la loro massima crescita durante la giovinezza, come se
avessero una certa fretta, e amano stare in alto. In autunno si
vestono di giallo, e d’inverno, quasi come dei relitti
glaciali, restano isolati sommersi dalla neve incurvati e deformati
come se la corsa degli anni giovanili li avesse stancati troppo
presto. Ma poi rinvigoriscono e pare che ritornino indietro, ma
tuttavia vanno avanti, di nuovo verdi, rigogliosi e resistenti. Li
invidio. Mi siedo ad osservarne uno che forse è qui da
centinaia di anni a godere di questo dono. Chissà, forse per
lui, al contrario, è una maledizione. Traccio i suoi contorni
sul taccuino come se fosse un amico che non voglio dimenticare: “Tra
tutti gli alberi che ci sono ho notato che tu eri quello più
distante e isolato. Sono venuto a sedermi per farci un po’
compagnia. Credo che se fra qualche anno tornerò a farti
visita mi ritroverai ancora solo come te, ma sicuramente meno
vigoroso di oggi”. Data e firma. Strappo la pagina e scavo
un po’ di terra. Ripongo il biglietto nella piccola fossa e la
ricopro.
Riprendo
a passeggiare e il pensiero di dover ritornare allo chalet
m’infastidisce, ma l’ho promesso alla signora Teresa.
Scorgo da lontano che molte persone sono rientrate per pranzare e mi
pento di essere una persona che mantiene le promesse. Un bel sospiro
e ci passo attraverso.
-
Scusi signore può farci una fotografia?
Blocco
i miei passi come se qualcuno mi avesse tirato per la camicia, chiudo
gli occhi, mi volto, un bel sorriso, – Certamente. Mi dia
pure.
Un
cospicuo gruppetto di ragazzi e ragazze ronzavano come api davanti ai
miei occhi in cerca della posizione giusta per immortalare questo
momento che, e ne sono quasi certo, rivedranno al massimo fra
vent’anni, tempo e stato mentale permettendo.
-
Ecco, siamo pronti. Allora mi raccomando ci prenda tutti eh! –
mi disse una ragazza sulla trentina con dei bei capelli neri. Credo
che fosse l’anima del gruppo, quella che organizza tutto. Senza
neanche risponderle mi misi in posizione e, un attimo dopo aver
scattato la fotografia, li vidi tutti incorniciati e immaginai ognuno
di loro già distanti da questo momento appena passato. Quando
scatto una fotografia mi sembrano già passati degli anni come
se parlasse già del futuro. In fondo non è forse questo
che fa? Certo è un ricordo, ma richiamato dalla persona che
sei diventato, e quella foto avrà molto più da dirti
sul tuo futuro che non sul passato.
-
Grazie signore! È stato davvero gentile! È venuta
bene, che dice? – disse la ragazza. - Sì è
venuta bene. Ci siete tutti, - avevo risposto svogliato. Lei si
fermò a fissarmi da capo a piedi e scrutandomi con tenerezza
mista a pietà disse: - Ma lei è qui da solo?
-
Sì.
-
Tutto solo? E non si è fatto fare neanche una fotografia?
-
Sono qui per lavoro. Non mi serve una fotografia di me, ma del luogo
e, in generale, non amo farmi fotografare. Lo ricordo senza problemi
dove sono stato.
-
Ah sì? – insistette lei come se avesse dei
problemi a capire che mi stava infastidendo, – E quando sarà
molto, molto vecchio e la sua memoria comincerà a fare cilecca
come si ricorderà di essere stato qui?
-
In quel momento non avrà più importanza ricordarlo.
Quando la mente inizia a spegnersi evidentemente c’è un
motivo.
La
ragazza o, forse ero stato io a farlo, aveva cancellato il suo bel
sorriso dalla faccia e mi guardò come per dire “non sarò
mai infelice come te”.
-
La chiamano signorina. Buona permanenza, - dissi cercando di
rivolgerle un’espressione di cortesia.
-
Ah… Sì… Arrivederci e grazie per la foto.
Buona permanenza anche a lei.
Povera
ragazza. Voleva essere solo gentile con me e io, invece, devo essere
sempre così scorbutico. Ripensando a ciò che le avevo
risposto mi convincevo di essere stato semplicemente sincero. Non
capisco perché bisogna sempre falsare gli umori o limitarsi ad
elargire formalità, frasi fatte e sorrisi plastici di
convenienza. Un giorno quando le andrà via tutto
quell’entusiasmo capirà che sono stato più che
gentile, onesto.
E
poi io non amo le fotografie, anzi, pensandoci bene se volessi fare
un mosaico della mia vita, a parte i momenti sotto costrizione, ci
sarebbero dei buchi enormi in cui la mia immagine è
completamente assente. Che ne so, io a un anno fino ai nove-dieci.
Buco. Quindici. Buco. Diciotto. Voragine. Ventisette. Abisso. E così
via. Ero sempre quello che le faceva le foto, spesso mi proponevo
appositamente per evitare di partecipare.
Qualcuno
potrebbe pensare che è una cosa molto triste, ma in realtà
io credo, semplicemente, di aver preferito da sempre un’altra
prospettiva. Una prospettiva d’insieme capace di catturare
tutti i dettagli senza fare mai parte di una cosa o di un momento
soltanto, ma osservando tutto pur sembrando di non esserci mai. Non è
la mia faccia sorridente a ricordare che c’ero, ma i miei
articoli tutti insieme, i miei ricordi, uno dopo l’altro,
tracciano il mio percorso a testimonianza che c’ero anch’io.
Immerso
in questi pensieri avevo mangiato seduto in disparte nel ristorante.
La signora Teresa mi teneva prenotato il tavolo che le avevo indicato
al mio arrivo. All’angolo della sala vicino alla finestra. Vidi
il riflesso della comitiva di poco prima e con la coda dell’occhio
subito riconobbi la lunga coda di capelli neri della ragazza che
guardando verso di me parlava con la signora che mi guardava con il
solito sorriso gentile con le mani poggiate sui grossi fianchi.
Continuai a mangiare ignorandole nella speranza che la ragazza non si
avvicinasse. Spostandomi sulla sedia, ora era la mia schiena a
trasmettere un messaggio preciso. Mentre sorseggiavo un caffè
il più in fretta possibile vista la confusione vidi andare
verso il bosco e i monti un ragazzo abbigliato di tutto punto come
uno scalatore.
Lo
osservai fino a quando la sua immagine non scomparve tra gli alberi.
Che perdita di tempo, pensai. Non capisco, perché mai bisogna
sfidare se stessi fino a questo punto o, comunque, in questo modo. In
ogni caso quello scalatore catturò la mia curiosità.
Dalla sua andatura sembrava tranquillo e baldanzoso, in perfetta
conciliazione con i suoi pensieri come se stesse andando a fare una
lieta passeggiata, anziché a scalare una montagna.
Nei
giorni successivi cominciai a cercarlo con lo sguardo e un pomeriggio
al calar del tramonto lo intravidi seduto a bordo del lago
incastonato armoniosamente nel paesaggio con lo sguardo verso la
montagna. Come se fosse un’amante a cui recitare versi al
crepuscolo. Stranamente per me questo ragazzo stava diventando
l’attrazione più affascinante. Lo scorgevo sempre in
solitudine andare via prima del tramonto e poi al calare della sera.
Credo che si fosse accorto che lo osservavo con insistenza, ma non
riuscivo ad avvicinarmi per domandargli cosa facesse, anche lui tutto
solo, in questa valle.
Avevo
terminato il mio articolo e mi accingevo a trascorrere l’ultima
notte nello chalet. Prima di addormentarmi, però, aprii le
imposte della finestra per vedere se anche quella sera il ragazzo
fosse lì a bordo del lago. L’indomani mattina sarei
ripartito per Parigi e mi colse un sentimento come di dispiacere. Il
mio umore non voleva ancora condurmi in altri luoghi, non era ancora
pronto alla frenesia che l’aspettava. A letto non trovavo pace,
così decisi di andare in veranda a godermi la fredda brezza
della notte e a sorseggiare del whisky. Portai con me il taccuino per
annotare i pensieri che non mi lasciavano dormire. Seduto su una
sedia di legno accesi una sigaretta mentre senza bere tenevo il
bicchiere in mano ondeggiando il liquore e fissando le montagne di
cui scorgevo bene i contorni grazie al favore di una notte di luna
piena. Non riuscivo a scrivere niente tanto ero immerso in quello
splendore, in una pace che non ricordavo di aver mai provato.
-
Che notte, eh?
Mi
voltai subito spaventato e un brivido, non di freddo, mi salì
lungo la schiena. Sgranai gli occhi e vidi il ragazzo della montagna
poco lontano da me in piedi a fissare lo stesso quadro con le mani
poggiate sulla ringhiera. La sua figura si ergeva alta e esile.
Indossava dei calzoncini di quelli che non si usano più, un
maglione un po’ vecchiotto e degli scarponi. I ricci sul capo,
indisciplinati, andavano dove volevano.
Nascondendo
l’imbarazzo che improvvisamente mi colse gli risposi pacato.
-
Sì. Una notte stupenda davvero.
Suonava
nell’aria una composizione di grilli e le lucciole si
aggiravano in disordine nell’aria come stelle che hanno perso
la strada. Si sgranchì i muscoli e venne a sedersi alla sedia
dall’altra parte del tavolino. Si accasciò sulla sedia
con la testa poggiata al muro, le gambe lunghe e dritte e le mani
poggiate sulla pancia.
-
Lei è di passaggio come tutti?
-
Sì. Sono qui da qualche giorno per lavoro. Domani andrò
via.
-
E dove va?
-
Parigi.
-
Ah Parigi…- disse sospirando. – Non ho mai visto
Parigi, però, mi hanno detto che è veramente stupenda.
Non si dice che non si può morire senza aver visto Parigi?
-
Sì, mi sembra di sì.
-
Beh pazienza.
-
Perché pazienza? Puoi sempre andarla a visitare -. Iniziai
a dargli del tu senza accorgermene e non gli domandai neanche se gli
desse fastidio. Dalla sua espressione non sembrava.
-
No, in fondo, non m’interessa. Io ho la mia montagna.
-
Ah sì. In effetti ho notato che sul tardo pomeriggio vai
sempre verso la montagna.
-
Sono anni che cerco di scalarla.
-
Che significa? Vuoi dirmi che non ci sei mai riuscito?
-
No mai, - rispose sorridendo.
Rimasi
a fissarlo basito. Rispose da solo alla domanda che gli pose il mio
silenzio. – Ogni giorno m’incammino sicuro che sarà
la volta buona, che riuscirò a scalarla e a giungere fino alla
vetta a guardare Dio dritto negli occhi, ma poi arrivo ai piedi della
montagna e mi fermo. Resto lì a pensare se farlo o non farlo e
poi ritorno indietro a...
-…a
guardarla dal lago – continuai al posto suo.
-
Sì, - disse sorridendo, - la guardo da laggiù
e mi sembra piccola, raggiungibile, possibile. Tutto il coraggio così
s’impossessa nuovamente di me e con un saluto generoso le
auguro buona notte.
-
Hai paura? Per questo non riesci?
-
Paura? No, lei non mi fa paura.
-
E allora perché restare in attesa?
Sorrise
come si fa quando una bambino ti rivolge una domanda ingenua.
-
Perché poi, una volta raggiunta la vetta, dovrei
raggiungerne un’altra e un’altra ancora.
La
sua risposta mi colpì come un dardo infuocato. Questo ragazzo
di circa vent’anni più piccolo di me aveva aperto
davanti ai miei occhi l’orizzonte coperto dalle montagne.
Restammo
a lungo in silenzio a contemplare le nostre impressioni rimaste
sospese ad aleggiare nell’aria.
-
Ora devo proprio andare. È quasi l’alba.
Scosso
dal torpore in cui ero alzai lo sguardo verso di lui che intanto mi
porgeva la mano ferma e decisa. Gli porsi la mia e me la strinse.
-
Allora faccia buon viaggio e mi saluti Parigi!
-
Certo. Lo farò.
-
Sì, però, ritorni e venga a trovarmi. Io sono sempre
qui.
Feci
un cenno col viso e gli sorrisi, mentre già di spalle mi
salutava a mano aperta sparendo all’improvviso.
L’alba
mi colse stordito e tornai subito nella mia stanza. Feci le valige,
una doccia e scesi a fare colazione. La signora Teresa ancora
assonnata mi versò una tazza di caffè bollente.
-
Ha dormito bene signor Faber?
-
In realtà non ho chiuso occhio stanotte.
-
Mi dispiace! Proprio oggi che deve andar via! Sarà molto
stanco! Perché non si ferma ancora un altro giorno?
-
Grazie signora, ma purtroppo non posso, anche se, in realtà,
mi piacerebbe molto. Credo di aver trovato un amico qui.
-
Davvero? Ma che bella cosa! Gli amici non ti fanno mai sentire solo,
non è vero?
-
Sì, infatti.
-
E mi scusi chi è questo signore o signora, - disse
ammiccando, - con cui ha stretto amicizia?
-
In verità è un ragazzo molto giovane. Sulla ventina,
credo. Uno scalatore.
A
quelle parole la signora perse il suo solito entusiasmo e attonita
disse: - Uno scalatore..?
-
Sì signora, perché?
-
Non le ha detto come si chiama?
-
Veramente no. Posso descriverglielo dettagliatamente. Ma scusi a lei
non è mai capitato di vederlo? È un ragazzo alto,
abbastanza magro con i capelli ricci. La sera è sempre seduto
vicino al Lago.
Senza
nemmeno rispondermi andò verso la parete nord della stanza
dove c’erano diverse fotografie appese. Ne prese una e rivenne
verso di me.
-
È questo il ragazzo che ha visto?
Mi
mostrò una vecchia foto color seppia che immortalava un
ragazzo sorridente con un piede poggiato su un grosso sasso, mentre
puntava la mano verso la montagna, in una posizione in movimento,
anche se ero rimasto fermo all’interno dello scatto.
-
Sì! Sì è proprio lui! Lo conosce?
Mi
guardò seria e con un sospiro spostò lentamente la
sedia per mettersi vicino a me.
-
Lei è sicuro che è proprio questo il ragazzo che ha
visto?
-
Sì! Certissimo! E gli ho anche parlato! Stanotte. Quando le ho
detto che non ho dormito è perché ho parlato con questo
ragazzo in veranda quasi fino all’alba.
La
signora Teresa con una mano si sfregava la bocca e poi la fronte,
incredula o, forse, triste.
-
Signor Faber questa foto risale al 1949.
-
Che cosa?! Al 1949! Ma cosa dice?! Sarà una coincidenza! Una
somiglianza!
-
No, non è una coincidenza. Questo ragazzo si chiama Albert
Weiss e lei non è il primo che lo vede aggirarsi intorno allo
chalet.
La
fissai con occhi sbalorditi e il mio respiro sembrava impazzito, ma
lei cercando di non farci caso riprese a parlare.
-
Questo ragazzo era il figlio di uno dei primi proprietari
dell’albergo. Faceva lo scalatore, appunto. Purtroppo morì
prematuramente.
D’un
tratto sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
-
Un giorno decise di andare a scalare la montagna, nonostante il
dissenso del padre. Non fece più ritorno. Naturalmente dopo
anni dalla sua scomparsa pensarono che il ragazzo fosse perito nella
scalata.
Posò
la sua mano sulla mia come per rincuorarmi e per allontanare da me la
paura. – Io credo che lui si riveli solo alle persone che hanno
bisogno di vederlo. Mi dispiace. Spero che non sia molto scosso e che
questo non offuschi il ricordo che serberà di questa valle. Se
ha bisogno di qualcosa mi chiami, io sono in cucina a preparare la
colazione. Ormai saranno tutti svegli.
Rimasi
a fissare la finestra così come mi aveva lasciato la signora
Teresa. Sentivo le lacrime rigarmi il viso e un calore creare un
solco dentro di me.
All’arrivo
delle persone in sala mi ridestai e salì lentamente le scale
verso la mia stanza. Presi la valigia e andai a salutare. Fermo sulla
soglia della grande porta d’ingresso, non ancora pronto per
partire, guardai verso la montagna come nella mia visione notturna.
Dopo
Parigi rientrai a casa spinto da un senso di nostalgia profonda. Mia
madre mi accolse invasa da una gioia infinita. Mi strinse forte e mi
riempiva di domande mentre mi conduceva verso la mia vecchia stanza.
Un’intera parete era tappezzata con tutte le cartoline che le
avevo inviato da ogni mio singolo viaggio e lei fiera me la mostrava,
come a farmi intendere che non ero mai andato via. C’era la
mappa di tutta la mia vita. Piansi. Lei non ne capiva il motivo e
l’abbracciai forte senza dire niente.
Qualcosa
cambiò. Il mio umore mi suggerì che era tempo di
fermarmi. Andai alla sede della rivista e chiesi al mio capo se per
qualche tempo mi sarei potuto occupare d’altro. Ero certo che
avrei ripreso a viaggiare, prima o poi, ma ora necessitavo di
restare fermo.
Fece
qualche storia, ma alla fine acconsentì.
Dopo
qualche tempo decisi di tornare allo chalet. Portai con me la mia
famiglia e la mia nipotina. Mia sorella nella mia assenza aveva
partorito una splendida femminuccia, Greta. Ora era una bellissima
bambina di circa cinque anni. La signora Teresa mi accolse
entusiasta. Non credeva di rivedermi mai più e, sinceramente,
neanche io di rivedere lei. Andai a trovare con la mia nipotina quel
larice isolato a cui avevo fatto visita qualche anno prima. Gli
sorrisi. Era di nuovo vigoroso come l’avevo lasciato. Mentre io
cominciavo a vestirmi di giallo. Lei giocava con le foglie cadute e i
primi fiori della primavera, rideva inconsapevolmente felice. Scavai
ai piedi dell’albero e ritrovai il biglietto che avevo riposto
quando credevo di essere solo e isolato come quest’albero,
senza accorgermi, però, che lui era comunque immerso in una
foresta.
Tornai
allo chalet tenendo in braccio Greta, consapevolmente felice. La mia
famiglia era lì che mi aspettava. Mia sorella volle fare una
foto e quando presi la macchina me la tolse dalle mani. – No!
Giacomo! Stavolta chiediamo a qualcuno!
Le
sorrisi e chiesi ad una signore di scattarci una foto. Iniziai a
colmare un vuoto.
Al
crepuscolo mi affacciai dalla veranda. Sul tavolino il mio taccuino,
le sigarette e il mio whisky. Lo vidi. Era lì che fissava la
sua montagna. Si voltò, con la sua grande mano aperta, col suo
bel sorriso mi salutò. S’incamminò verso il bosco
e lì, senza esitare, scomparve. Non lo vidi mai più.
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