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Lo Chalet.
di Sabrina Granese  

17 luglio 2015






Tutto bene, Signor Faber?



Sono sempre in viaggio. Ho basato la mia vita sulla periodica organizzazione di un itinerario da seguire. Gli unici momenti in cui resto fermo sono seduto in qualche albergo o in qualche rifugio a guardare le mie mappe e a segnare sul mio taccuino i miei umori, così da scegliere il luogo più consono in cui trovargli dimora. Ho fatto di questa necessità un lavoro, in modo che da esso ne tragga anziché solo un diletto anche una forma di sostentamento. Scrivo articoli che invio mensilmente ad una rivista di viaggi. Descrivo i vari modi di giungere a destinazione: in auto, in treno, per la via più impervia o per quella meno faticosa e, soprattutto, oltre che alle bellezze del luogo e dei posti da visitare descrivo ciò che quei luoghi trasmettono, emanano, suggeriscono. In verità parlo di me.

Ho quarantasei anni e vivo da solo in mezzo al mondo. Nel momento in cui decisi di non mettere radici in nessun luogo stipulai un patto con l’amore, ovvero, che mai avrei legato la mia vita a quella di un altro essere, perché sicuramente non avrei mai potuto condividere nulla, se non la mia assenza. Certo, qualche passione fugace l’ho vissuta anch’io, ma spegnevo il fuoco appena consumato il desiderio. La mattina dopo lasciavo un biglietto sul comodino e l’albergo.

La mia famiglia, i miei genitori e mia sorella, si limitano ad accontentarsi di una cartolina al mese. Quando mi capita di tornare, il luogo in cui sono nato mi appare più estraneo di quello che ho appena lasciato.

Il mio ultimo umore mi ha condotto in questa regione di appena tremiladuecentosessantatre chilometri quadri in mezzo alle Alpi. In questo periodo sentivo forte la necessità, non di sentirmi circondato, ma di essere avvolto da qualcosa che non avesse orizzonte, lontano e in disparte, ad assaporare le stagioni nella loro vera essenza: gli inverni rigidi e le estati fresche, foreste e ghiacciai, valli, piogge, nevicate e il vento che accarezza i larici. Le sue origini celtiche mi hanno chiamato per contemplare la sua pace.

Ho scelto uno chalet immerso nella natura e appositamente vicino a un lago, affinché il mio sguardo non possa spaziare oltre il dovuto, senza perdersi nell’immagine che si specchia troppo a lungo.

Non so mai in anticipo quanto mi fermerò. Mi è capitato, a volte, anche di restare per appena due giorni senza neanche disfare le valigie, se la mia mente mi suggeriva di aver sbagliato a calcolare la destinazione. Un problema, poi, se questo accadeva mentre mi trovavo già in viaggio verso quella prescelta. Allora in quei casi ero costretto a fare un grosso sforzo per metterla a tacere e costringerla a restare il tempo sufficiente per scrivere venti righe.

L’albergo è quasi al completo, ma a me, come sempre, viene rivolta un’attenzione del tutto particolare, visto che dovrò scrivere le mie impressioni sulla mia permanenza. Lo chalet è meravigliosamente incastonato ai piedi del monte Cervino, si affaccia sul Lago Blu e racconta storie e avventure, eco di persone sempre di passaggio. Credo che mi fermerò qualche giorno.

Resto per lo più isolato e mi limito a parlare con il personale dell’albergo e con qualche abitante del luogo per avere le informazioni di cui necessito. Il resto del tempo mi godo il paesaggio seduto in veranda a scrivere, o gironzolando tra gli alberi, o seduto sulla riva del lago.

Durante il giorno cerco di visitare le attrazioni più affascinanti per scrivere il mio articolo, ma lo faccio per lo più perché non amo vivere l’albergo nelle ore in cui è più affollato. Quando la mattina molto presto mi siedo nel ristorante a fare colazione faccio finta di leggere il giornale e con la coda dell’occhio guardo le famiglie che villeggiano qui alzati di buon ora, già pronti per una scampagnata. I bambini tutti assonnati si stropicciano gli occhi e mangiano a stento, mentre la madre li invita a fare in fretta aiutata ben poco dal marito che si limita a consumare la sua colazione e, forse, a pensare che avrebbe fatto volentieri ben altro. Poi coppiette di innamorati, ancora stanchi della notte, ma pronti a godersi ogni singolo giorno per quei soldi messi da parte, mese dopo mese, appositamente per potersi permettere il loro rifugio d’amore.

Ed io riposo gli occhi sul giornale e penso chi, tra me e queste persone, sia più in fuga.

- Tutto bene Signor Faber? Desidera qualcos’altro?

- Sì tutto bene. La ringrazio signora Teresa. Apposto così.

- E oggi dov’è che va? Vuole che le consigli qualcosa?

- No, grazie. Oggi credo che resterò nei paraggi e da domani inizierò a visitare tutto.

- Ah bene! Vedrà che qui si sentirà come in paradiso. Ci sono dei luoghi incantevoli che ti ricongiungono col mondo!

- Ne sono sicuro. Anche se si va in paradiso per non avere più a che fare col mondo.

- Come?

- Lasci stare signora Teresa, - e le rivolsi un gran sorriso.

- Torna per pranzo? Oggi preparo degli chnéfflene che non deve assolutamente perdere!

- Bene, sarà utile per il mio articolo. Allora cercherò di rientrare.

- Mi raccomando! Non si dimentichi! Ci tengo!

- Certo. Glielo prometto.

Presi il giornale e il mio taccuino deciso a godermi un giorno tutto per me. L’albergo cominciava a svegliarsi e tutti erano indaffarati a fare colazione per sbrigarsi e dedicarsi alle attività che la città offriva, mentre io percepivo già l’estasi di chi sta per concedersi una lenta passeggiata. Sì perché non è così facile concedersi serenamente una passeggiata senza contemplare una meta o un qualche scopo da raggiungere. È un’esuberanza particolare quella che si prova quando ci si limita a fare ciò che suggerisce la nostra natura di animali. La necessità di avere una funzione sociale è giunta solo dopo.

Questo bosco di larici ha catturato la mia attenzione appena sono arrivato. Raggiungono la loro massima crescita durante la giovinezza, come se avessero una certa fretta, e amano stare in alto. In autunno si vestono di giallo, e d’inverno, quasi come dei relitti glaciali, restano isolati sommersi dalla neve incurvati e deformati come se la corsa degli anni giovanili li avesse stancati troppo presto. Ma poi rinvigoriscono e pare che ritornino indietro, ma tuttavia vanno avanti, di nuovo verdi, rigogliosi e resistenti. Li invidio. Mi siedo ad osservarne uno che forse è qui da centinaia di anni a godere di questo dono. Chissà, forse per lui, al contrario, è una maledizione. Traccio i suoi contorni sul taccuino come se fosse un amico che non voglio dimenticare: “Tra tutti gli alberi che ci sono ho notato che tu eri quello più distante e isolato. Sono venuto a sedermi per farci un po’ compagnia. Credo che se fra qualche anno tornerò a farti visita mi ritroverai ancora solo come te, ma sicuramente meno vigoroso di oggi”. Data e firma. Strappo la pagina e scavo un po’ di terra. Ripongo il biglietto nella piccola fossa e la ricopro.

Riprendo a passeggiare e il pensiero di dover ritornare allo chalet m’infastidisce, ma l’ho promesso alla signora Teresa. Scorgo da lontano che molte persone sono rientrate per pranzare e mi pento di essere una persona che mantiene le promesse. Un bel sospiro e ci passo attraverso.

- Scusi signore può farci una fotografia?

Blocco i miei passi come se qualcuno mi avesse tirato per la camicia, chiudo gli occhi, mi volto, un bel sorriso, – Certamente. Mi dia pure.

Un cospicuo gruppetto di ragazzi e ragazze ronzavano come api davanti ai miei occhi in cerca della posizione giusta per immortalare questo momento che, e ne sono quasi certo, rivedranno al massimo fra vent’anni, tempo e stato mentale permettendo.

- Ecco, siamo pronti. Allora mi raccomando ci prenda tutti eh! – mi disse una ragazza sulla trentina con dei bei capelli neri. Credo che fosse l’anima del gruppo, quella che organizza tutto. Senza neanche risponderle mi misi in posizione e, un attimo dopo aver scattato la fotografia, li vidi tutti incorniciati e immaginai ognuno di loro già distanti da questo momento appena passato. Quando scatto una fotografia mi sembrano già passati degli anni come se parlasse già del futuro. In fondo non è forse questo che fa? Certo è un ricordo, ma richiamato dalla persona che sei diventato, e quella foto avrà molto più da dirti sul tuo futuro che non sul passato.

- Grazie signore! È stato davvero gentile! È venuta bene, che dice? – disse la ragazza. - Sì è venuta bene. Ci siete tutti, - avevo risposto svogliato. Lei si fermò a fissarmi da capo a piedi e scrutandomi con tenerezza mista a pietà disse: - Ma lei è qui da solo?

- Sì.

- Tutto solo? E non si è fatto fare neanche una fotografia?

- Sono qui per lavoro. Non mi serve una fotografia di me, ma del luogo e, in generale, non amo farmi fotografare. Lo ricordo senza problemi dove sono stato.

- Ah sì? – insistette lei come se avesse dei problemi a capire che mi stava infastidendo, – E quando sarà molto, molto vecchio e la sua memoria comincerà a fare cilecca come si ricorderà di essere stato qui?

- In quel momento non avrà più importanza ricordarlo. Quando la mente inizia a spegnersi evidentemente c’è un motivo.

La ragazza o, forse ero stato io a farlo, aveva cancellato il suo bel sorriso dalla faccia e mi guardò come per dire “non sarò mai infelice come te”.

- La chiamano signorina. Buona permanenza, - dissi cercando di rivolgerle un’espressione di cortesia.

- Ah… Sì… Arrivederci e grazie per la foto. Buona permanenza anche a lei.

Povera ragazza. Voleva essere solo gentile con me e io, invece, devo essere sempre così scorbutico. Ripensando a ciò che le avevo risposto mi convincevo di essere stato semplicemente sincero. Non capisco perché bisogna sempre falsare gli umori o limitarsi ad elargire formalità, frasi fatte e sorrisi plastici di convenienza. Un giorno quando le andrà via tutto quell’entusiasmo capirà che sono stato più che gentile, onesto.

E poi io non amo le fotografie, anzi, pensandoci bene se volessi fare un mosaico della mia vita, a parte i momenti sotto costrizione, ci sarebbero dei buchi enormi in cui la mia immagine è completamente assente. Che ne so, io a un anno fino ai nove-dieci. Buco. Quindici. Buco. Diciotto. Voragine. Ventisette. Abisso. E così via. Ero sempre quello che le faceva le foto, spesso mi proponevo appositamente per evitare di partecipare.

Qualcuno potrebbe pensare che è una cosa molto triste, ma in realtà io credo, semplicemente, di aver preferito da sempre un’altra prospettiva. Una prospettiva d’insieme capace di catturare tutti i dettagli senza fare mai parte di una cosa o di un momento soltanto, ma osservando tutto pur sembrando di non esserci mai. Non è la mia faccia sorridente a ricordare che c’ero, ma i miei articoli tutti insieme, i miei ricordi, uno dopo l’altro, tracciano il mio percorso a testimonianza che c’ero anch’io.

Immerso in questi pensieri avevo mangiato seduto in disparte nel ristorante. La signora Teresa mi teneva prenotato il tavolo che le avevo indicato al mio arrivo. All’angolo della sala vicino alla finestra. Vidi il riflesso della comitiva di poco prima e con la coda dell’occhio subito riconobbi la lunga coda di capelli neri della ragazza che guardando verso di me parlava con la signora che mi guardava con il solito sorriso gentile con le mani poggiate sui grossi fianchi. Continuai a mangiare ignorandole nella speranza che la ragazza non si avvicinasse. Spostandomi sulla sedia, ora era la mia schiena a trasmettere un messaggio preciso. Mentre sorseggiavo un caffè il più in fretta possibile vista la confusione vidi andare verso il bosco e i monti un ragazzo abbigliato di tutto punto come uno scalatore.

Lo osservai fino a quando la sua immagine non scomparve tra gli alberi. Che perdita di tempo, pensai. Non capisco, perché mai bisogna sfidare se stessi fino a questo punto o, comunque, in questo modo. In ogni caso quello scalatore catturò la mia curiosità. Dalla sua andatura sembrava tranquillo e baldanzoso, in perfetta conciliazione con i suoi pensieri come se stesse andando a fare una lieta passeggiata, anziché a scalare una montagna.

Nei giorni successivi cominciai a cercarlo con lo sguardo e un pomeriggio al calar del tramonto lo intravidi seduto a bordo del lago incastonato armoniosamente nel paesaggio con lo sguardo verso la montagna. Come se fosse un’amante a cui recitare versi al crepuscolo. Stranamente per me questo ragazzo stava diventando l’attrazione più affascinante. Lo scorgevo sempre in solitudine andare via prima del tramonto e poi al calare della sera. Credo che si fosse accorto che lo osservavo con insistenza, ma non riuscivo ad avvicinarmi per domandargli cosa facesse, anche lui tutto solo, in questa valle.

Avevo terminato il mio articolo e mi accingevo a trascorrere l’ultima notte nello chalet. Prima di addormentarmi, però, aprii le imposte della finestra per vedere se anche quella sera il ragazzo fosse lì a bordo del lago. L’indomani mattina sarei ripartito per Parigi e mi colse un sentimento come di dispiacere. Il mio umore non voleva ancora condurmi in altri luoghi, non era ancora pronto alla frenesia che l’aspettava. A letto non trovavo pace, così decisi di andare in veranda a godermi la fredda brezza della notte e a sorseggiare del whisky. Portai con me il taccuino per annotare i pensieri che non mi lasciavano dormire. Seduto su una sedia di legno accesi una sigaretta mentre senza bere tenevo il bicchiere in mano ondeggiando il liquore e fissando le montagne di cui scorgevo bene i contorni grazie al favore di una notte di luna piena. Non riuscivo a scrivere niente tanto ero immerso in quello splendore, in una pace che non ricordavo di aver mai provato.

- Che notte, eh?

Mi voltai subito spaventato e un brivido, non di freddo, mi salì lungo la schiena. Sgranai gli occhi e vidi il ragazzo della montagna poco lontano da me in piedi a fissare lo stesso quadro con le mani poggiate sulla ringhiera. La sua figura si ergeva alta e esile. Indossava dei calzoncini di quelli che non si usano più, un maglione un po’ vecchiotto e degli scarponi. I ricci sul capo, indisciplinati, andavano dove volevano.

Nascondendo l’imbarazzo che improvvisamente mi colse gli risposi pacato.

- Sì. Una notte stupenda davvero.

Suonava nell’aria una composizione di grilli e le lucciole si aggiravano in disordine nell’aria come stelle che hanno perso la strada. Si sgranchì i muscoli e venne a sedersi alla sedia dall’altra parte del tavolino. Si accasciò sulla sedia con la testa poggiata al muro, le gambe lunghe e dritte e le mani poggiate sulla pancia.

- Lei è di passaggio come tutti?

- Sì. Sono qui da qualche giorno per lavoro. Domani andrò via.

- E dove va?

- Parigi.

- Ah Parigi…- disse sospirando. – Non ho mai visto Parigi, però, mi hanno detto che è veramente stupenda. Non si dice che non si può morire senza aver visto Parigi?

- Sì, mi sembra di sì.

- Beh pazienza.

- Perché pazienza? Puoi sempre andarla a visitare -. Iniziai a dargli del tu senza accorgermene e non gli domandai neanche se gli desse fastidio. Dalla sua espressione non sembrava.

- No, in fondo, non m’interessa. Io ho la mia montagna.

- Ah sì. In effetti ho notato che sul tardo pomeriggio vai sempre verso la montagna.

- Sono anni che cerco di scalarla.

- Che significa? Vuoi dirmi che non ci sei mai riuscito?

- No mai, - rispose sorridendo.

Rimasi a fissarlo basito. Rispose da solo alla domanda che gli pose il mio silenzio. – Ogni giorno m’incammino sicuro che sarà la volta buona, che riuscirò a scalarla e a giungere fino alla vetta a guardare Dio dritto negli occhi, ma poi arrivo ai piedi della montagna e mi fermo. Resto lì a pensare se farlo o non farlo e poi ritorno indietro a...

-…a guardarla dal lago – continuai al posto suo.

- , - disse sorridendo, - la guardo da laggiù e mi sembra piccola, raggiungibile, possibile. Tutto il coraggio così s’impossessa nuovamente di me e con un saluto generoso le auguro buona notte.

- Hai paura? Per questo non riesci?

- Paura? No, lei non mi fa paura.

- E allora perché restare in attesa?

Sorrise come si fa quando una bambino ti rivolge una domanda ingenua.

- Perché poi, una volta raggiunta la vetta, dovrei raggiungerne un’altra e un’altra ancora.

La sua risposta mi colpì come un dardo infuocato. Questo ragazzo di circa vent’anni più piccolo di me aveva aperto davanti ai miei occhi l’orizzonte coperto dalle montagne.

Restammo a lungo in silenzio a contemplare le nostre impressioni rimaste sospese ad aleggiare nell’aria.

- Ora devo proprio andare. È quasi l’alba.

Scosso dal torpore in cui ero alzai lo sguardo verso di lui che intanto mi porgeva la mano ferma e decisa. Gli porsi la mia e me la strinse.

- Allora faccia buon viaggio e mi saluti Parigi!

- Certo. Lo farò.

- Sì, però, ritorni e venga a trovarmi. Io sono sempre qui.

Feci un cenno col viso e gli sorrisi, mentre già di spalle mi salutava a mano aperta sparendo all’improvviso.

L’alba mi colse stordito e tornai subito nella mia stanza. Feci le valige, una doccia e scesi a fare colazione. La signora Teresa ancora assonnata mi versò una tazza di caffè bollente.

- Ha dormito bene signor Faber?

- In realtà non ho chiuso occhio stanotte.

- Mi dispiace! Proprio oggi che deve andar via! Sarà molto stanco! Perché non si ferma ancora un altro giorno?

- Grazie signora, ma purtroppo non posso, anche se, in realtà, mi piacerebbe molto. Credo di aver trovato un amico qui.

- Davvero? Ma che bella cosa! Gli amici non ti fanno mai sentire solo, non è vero?

- Sì, infatti.

- E mi scusi chi è questo signore o signora, - disse ammiccando, - con cui ha stretto amicizia?

- In verità è un ragazzo molto giovane. Sulla ventina, credo. Uno scalatore.

A quelle parole la signora perse il suo solito entusiasmo e attonita disse: - Uno scalatore..?

- Sì signora, perché?

- Non le ha detto come si chiama?

- Veramente no. Posso descriverglielo dettagliatamente. Ma scusi a lei non è mai capitato di vederlo? È un ragazzo alto, abbastanza magro con i capelli ricci. La sera è sempre seduto vicino al Lago.

Senza nemmeno rispondermi andò verso la parete nord della stanza dove c’erano diverse fotografie appese. Ne prese una e rivenne verso di me.

- È questo il ragazzo che ha visto?

Mi mostrò una vecchia foto color seppia che immortalava un ragazzo sorridente con un piede poggiato su un grosso sasso, mentre puntava la mano verso la montagna, in una posizione in movimento, anche se ero rimasto fermo all’interno dello scatto.

- Sì! Sì è proprio lui! Lo conosce?

Mi guardò seria e con un sospiro spostò lentamente la sedia per mettersi vicino a me.

- Lei è sicuro che è proprio questo il ragazzo che ha visto?

- Sì! Certissimo! E gli ho anche parlato! Stanotte. Quando le ho detto che non ho dormito è perché ho parlato con questo ragazzo in veranda quasi fino all’alba.

La signora Teresa con una mano si sfregava la bocca e poi la fronte, incredula o, forse, triste.

- Signor Faber questa foto risale al 1949.

- Che cosa?! Al 1949! Ma cosa dice?! Sarà una coincidenza! Una somiglianza!

- No, non è una coincidenza. Questo ragazzo si chiama Albert Weiss e lei non è il primo che lo vede aggirarsi intorno allo chalet.

La fissai con occhi sbalorditi e il mio respiro sembrava impazzito, ma lei cercando di non farci caso riprese a parlare.

- Questo ragazzo era il figlio di uno dei primi proprietari dell’albergo. Faceva lo scalatore, appunto. Purtroppo morì prematuramente.

D’un tratto sentì gli occhi riempirsi di lacrime.

- Un giorno decise di andare a scalare la montagna, nonostante il dissenso del padre. Non fece più ritorno. Naturalmente dopo anni dalla sua scomparsa pensarono che il ragazzo fosse perito nella scalata.

Posò la sua mano sulla mia come per rincuorarmi e per allontanare da me la paura. – Io credo che lui si riveli solo alle persone che hanno bisogno di vederlo. Mi dispiace. Spero che non sia molto scosso e che questo non offuschi il ricordo che serberà di questa valle. Se ha bisogno di qualcosa mi chiami, io sono in cucina a preparare la colazione. Ormai saranno tutti svegli.

Rimasi a fissare la finestra così come mi aveva lasciato la signora Teresa. Sentivo le lacrime rigarmi il viso e un calore creare un solco dentro di me.

All’arrivo delle persone in sala mi ridestai e salì lentamente le scale verso la mia stanza. Presi la valigia e andai a salutare. Fermo sulla soglia della grande porta d’ingresso, non ancora pronto per partire, guardai verso la montagna come nella mia visione notturna.

Dopo Parigi rientrai a casa spinto da un senso di nostalgia profonda. Mia madre mi accolse invasa da una gioia infinita. Mi strinse forte e mi riempiva di domande mentre mi conduceva verso la mia vecchia stanza. Un’intera parete era tappezzata con tutte le cartoline che le avevo inviato da ogni mio singolo viaggio e lei fiera me la mostrava, come a farmi intendere che non ero mai andato via. C’era la mappa di tutta la mia vita. Piansi. Lei non ne capiva il motivo e l’abbracciai forte senza dire niente.

Qualcosa cambiò. Il mio umore mi suggerì che era tempo di fermarmi. Andai alla sede della rivista e chiesi al mio capo se per qualche tempo mi sarei potuto occupare d’altro. Ero certo che avrei ripreso a viaggiare, prima o poi, ma ora necessitavo di restare fermo.

Fece qualche storia, ma alla fine acconsentì.

Dopo qualche tempo decisi di tornare allo chalet. Portai con me la mia famiglia e la mia nipotina. Mia sorella nella mia assenza aveva partorito una splendida femminuccia, Greta. Ora era una bellissima bambina di circa cinque anni. La signora Teresa mi accolse entusiasta. Non credeva di rivedermi mai più e, sinceramente, neanche io di rivedere lei. Andai a trovare con la mia nipotina quel larice isolato a cui avevo fatto visita qualche anno prima. Gli sorrisi. Era di nuovo vigoroso come l’avevo lasciato. Mentre io cominciavo a vestirmi di giallo. Lei giocava con le foglie cadute e i primi fiori della primavera, rideva inconsapevolmente felice. Scavai ai piedi dell’albero e ritrovai il biglietto che avevo riposto quando credevo di essere solo e isolato come quest’albero, senza accorgermi, però, che lui era comunque immerso in una foresta.

Tornai allo chalet tenendo in braccio Greta, consapevolmente felice. La mia famiglia era lì che mi aspettava. Mia sorella volle fare una foto e quando presi la macchina me la tolse dalle mani. – No! Giacomo! Stavolta chiediamo a qualcuno!

Le sorrisi e chiesi ad una signore di scattarci una foto. Iniziai a colmare un vuoto.

Al crepuscolo mi affacciai dalla veranda. Sul tavolino il mio taccuino, le sigarette e il mio whisky. Lo vidi. Era lì che fissava la sua montagna. Si voltò, con la sua grande mano aperta, col suo bel sorriso mi salutò. S’incamminò verso il bosco e lì, senza esitare, scomparve. Non lo vidi mai più.


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