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Allontanandomi stoicamente...
di Sabrina Granese  

7 novembre 2011






Passato, presente. Futuro.


 

Allontanandomi stoicamente dalla pavida concezione di scandire in tre tempi la nostra esistenza indubbiamente ho compreso di essere ovunque

 

Questa notte una voce mi ha chiamato. Destato dal mio sonno mi ha condotto verso la stanza in cui ripongo ciò che mi serve quando un altro viaggio mi conduce altrove. Una vita in fuga. Ho preso la valigia più grande, perché questa volta sapevo che avrei dovuto raccogliere gli oggetti smarriti lungo percorsi abbandonati. L’ho presa e la sua leggerezza mi ha concesso un’ultima sensazione di libertà.

Le mete del mio viaggio m’erano ben chiare; disegnate con tratti definiti erano luoghi che non conducevano a nessun tesoro. C’era stato un momento della mia vita in cui avevo rifiutato di scorgere quella via impervia che tanto mi aveva trattenuto in una condizione che mi aveva impedito di vivere la vita così come viene. Mi stordivano i suoi richiami e il mio corpo perdeva la sua sanità ad ogni mio tentennamento. La rassegnazione di non avere nessuna salvezza né per me, né per nessun altro, mi ha convinto che oggi finalmente è giunto il momento di andare. La mia mente e i miei pensieri hanno abbandonato il loro trono per lasciar posto alle rovine del tempo. Ebbene sono pronto per partire. Vuoto come questa valigia sarò il contenitore di ciò che costituisce la mia vita. Di questa cosa dinanzi a cui tutti fuggono in preda alla follia; le mani alla testa a correre verso luoghi sicuri nel futuro in questa bramosia di essere migliori. Pare una camicia di forza il tempo. Quante parole e massime scolpite nel marmo hanno decantato di rifuggire dal passato, per vivere il presente ed essere migliori nel futuro che è soltanto un palliativo, un espediente per ripetersi che c’è ancora tempo per cambiare, per fare ammenda, per essere più saggi. Ho smesso di credere a questi dettami triti e ritriti. Per quanto mi riguarda noi non siamo che una vita sola talmente semplice e complessa da non potersi scandire in tre tempi. Un flusso continuo, una parabola discendente, conclusa e conclusiva ed il significato, al fine, sarà soltanto uno. Un aggettivo è più che sufficiente. Non ho mai letto su nessuna lapide ‘ha vissuto nel passato’, né tanto meno ‘ha vissuto attendendo il futuro’ o, ancora, ‘ha vissuto ogni giorno il suo presente’. Direi che questi stati sono pari merito limitanti. Ognuno esclude l’altro e ci sarebbe sempre qualcuno pronto a smentire, a secondo della giustificazione alle sue paure più recondite, una condizione anziché l’altra. Sono giunto ad una consapevolezza: si vive, a parer mio, in ogni tempo e in uno solo, non siamo che l’agglomerato di un eterno divenire e la composizione della nostra esistenza è fatta da tali andamenti che nessuna orchestra potrebbe definirne i tempi d’esecuzione.

Prima di partire, però, voglio conoscere bene come gli uomini hanno definito questa legge divina. Dovrei avere ancora quel vecchio dizionario dei tempi del liceo. Tutto impolverato; chissà quali altre evoluzioni linguistiche ci saranno state: sempre peggio, sempre meglio, quella necessaria al presente.

 Passato: il passato identifica l’insieme degli eventi già accaduti o conosciuti, ovvero, quella dimensione del mio tempo cronologico che riguarda gli intervalli temporali già trascorsi. Esso si contrappone al futuro e si distingue dal presente. Teorie fantascientifiche ipotizzano che esso possa essere modificato, o che si possa tornare indietro viaggiando, quindi, nel tempo, ma la conoscenza attuale ritiene che il passato è ciò che è stato e che mai più sarà; esso non è ripetibile né modificabile. Di esso si può avere una visione mnemonica tramite i ricordi.

 Direi che è tutto è ben chiaro. Non si può certo cadere in fraintendimenti.

Ma non mi basta.

 Le scene della nostra vita sono come rozzi mosaici. Guardate da vicino non producono nessun effetto, non ci si può vedere niente di bello finché non si guardano da lontano. (Arthur Schopenhauer)

Rozzi mosaici... l’immagine evocata da queste parole mi spinge violentemente a considerare l’immaturità della mia percezione delle cose. Se adesso, ormai distante, mi volgo indietro riesco a scorgere l’interezza del quadro distratto che andavo componendo. Calato al suo interno, tra le viscere degli accadimenti ogni tassello si posizionava disordinato nella mia mente e il disegno, in effetti, m’appariva sconosciuto. Follemente confuso non riuscivo a comprendere in che misura fossi io il fautore delle scene della mia vita. Credevo ingenuamente che ogni singolo pezzo si depositasse per una strana forza che agiva in modo autonomo. Mi sentivo, dunque, fantoccio e burattino manovrato dalle mani svelte e furbe degli eventi. La rassegnazione mi rendeva inerme o, forse, troppo vigliacco. Questo enorme mosaico che si staglia adesso dinanzi ai miei occhi svuotati pronti a fargli posto mi passa attraverso e scuote le mie viscere buttandomi a terra sfinito. Lo spettacolo è mostruoso e la mia mente vacilla. Mi rendo conto di aver amato il mio dolore mai ridestato dall’eterna, logorante, condizione dell’attesa che mi ero inflitto. Forse non era attesa, ma solo ciò che avevo già compreso senza averlo ancora percepito. Era la prospettiva sbagliata. Soltanto ora che contemplo questa mia mostruosità e il mio trionfo insieme, scorgo un elemento unico incastonato disordinatamente in queste scene apparentemente senza alcuna congiunzione tra loro. Come un’artista che ha terminato la sua opera osservo criticamente insoddisfatto ciò che il suo ingegno ha creato e, a me pare, che quest’opera mia sia qualcosa che supera qualsiasi esperienza artistica, poiché si erge caotica e ordinata, le sfumature e i colori si perdono e si riaccendono, più vivi e più cupi, delineano migliaia di volti e d’immagini con altrettanti colori e sfumature. Tutto questo appare nella sua disarmante verità, perché è la verità l’unico pennello che vi ha dato forma e contenuto. Tutti e tutto compreso io appaiono meravigliosamente ritratti, diversi da come mi sembrava quando ero immerso nel flusso degli eventi. Basta solo voltarsi un momento dopo per vedere le vere sembianze di ognuno di noi. Ci si stanca a mantenere una certa espressione e postura per lungo tempo e, come in un gioco per bambini, appena il protagonista del gioco volta le spalle, le posizioni cambiano, un respiro profondo e ci si lascia andare al riposo, alla vera espressione che vorremmo avere, alla stanchezza che vorremmo esprimere, senza che nessuno possa giudicare l’inadempimento del nostro compito. Solo uno sguardo benevolo non ci punirebbe ad arretrare indietro, in fondo, a ricominciare da capo, perché non siamo stati tanto bravi da resistere abbastanza. Insomma ‘tutti giù per terra’.

Non attesa ma divenire. Il fatto di essere inconsapevole non significa che attendevo la falsa speranza nel futuro come medicinale per espiare le mie incongruenze, il mio essere monco nell’anima. Non rinnego, si badi bene, il potere farmacologico dell’esperienza, dico solo che per me evoluzione non significa specificatamente futuro, ma solo fine. Mi osservo all’interno del mosaico e non vedo alcuna porta intorno a me, immerso in un eterno divenire percorro la parabola discendente della mia esistenza.

 Spesso ci indebitiamo con il futuro per pagare i debiti con il passato. (Kahlil Gibran)

Ebbene non è il mio caso. E questo mi rincuora profondamente. Io non ho da pagare nessun debito dal momento che non ne ho contratto alcuno. Nessun debito ma la mediocrità o la grandezza di ciò che si è stati e, dunque, si è. Ciò che è stato fatto ci appartiene e ci definisce nei tratti. Si unisce in quel mosaico a ciò che saremo quando giungeremo alla fine. Io non ero e non sarò, ma sono. Rieccoci dinanzi alle tenaglie del debito! Ciò che è fatto è fatto e tale resterà! Dei debiti ci si può liberare, ma non dalle azioni che siamo stati capaci di compiere! Quale senso avrebbe la vita se ci potessimo sbarazzare con un pagamento veloce delle nostre azioni. Non è forse più veritiero ammettere che ne siamo stati capaci e, dunque, noi siamo anche ciò che abbiamo commesso in opere e pensieri? Nessuna concezione liberatoria, né tanto meno sacrificale e compromissoria al prosieguo degli eventi, al nostro divenire! Che mosaico potremmo mai comporre? L’immagine ultima ci vedrebbe su ginocchia sanguinanti ad elemosinare un perdono che ci scoprirebbe condannati prima del tempo.

 L’avvenire ci tormenta, il passato ci trattiene, il presente ci sfugge. (Gustave Flaubert)

Una camicia di forza che toglie il fiato. Se non fossi giunto a questa consapevolezza questo sarebbe stato il mio epitaffio! Tale era il mio pensiero negli anni giovanili! La spavalderia del mio corpo mi faceva credere che la mia mente potesse essere colpita da una così atroce agonia! Il terrore di non essere migliore di ciò che ero stato, l’angoscia di rivelarmi mediocre al cospetto dei miei intenti e delle mie e altrui aspettative, per poi rendermi conto d’essere rapito da me stesso. Immobilizzato come un mentecatto incapace di sbaragliare le barriere della mia prigione. Come raffigurati nel quadro di Utrillo ci ritroveremmo in ginocchio vinti e sconfitti col volto fatto di ombre e funi che c’imprigionano e feriscono il nostro corpo ad ogni movimento. Poiché vivere nella paura significa indossare una divisa armati di tutto punto con il volto già vecchio.

 Il futuro influenza il presente tanto quanto il passato. (Friedrich Nietzsche)

Una sequenza cronologica geniale. Se il futuro è ciò che fin dalla nascita attendiamo, nel momento stesso in cui cominciamo ad averne timore esso non fa che influenzare la nostra intera esistenza. Il nostro sguardo posto in lontananza modella le scene che si susseguono e si può essere più clementi e pietosi di noi stessi o, ancora, inclementi e punitori. Senza considerare l’accettazione. Le nostre aspettative ci perseguitano prima che giunga il momento rivelatore e accecati da ciò che vogliamo essere in preda allo spettro del fallimento distanziamo l’orizzonte a nostro piacimento. Un accanimento impietoso su noi stessi in nome di ciò che ancora non esiste. Molto più semplice e proficuo sarebbe far fluire la vita all’interno e al di fuori di noi consapevoli di quanto è in nostro potere fare per esserci in quanto attori protagonisti e non, a seconda del momento. Tutto il resto è l’impossibile, l’inaspettato, ciò su cui, per fortuna, non può agire il nostro controllo, ciò che suggerisce i nostri limiti, materia che ci manipola e che non possiamo manipolare. Definiti i limiti del nostro essere si confonderanno con l’infinito circostante e noi diverremo l’impossibile, l’inaspettato e il tutto, il possibile, un’ unica essenza in armonia con i movimenti della vita.

 Nessun uomo è abbastanza ricco da poter riscattare il proprio passato. (Oscar Wilde)

Non esiste, infatti, ricchezza alcuna in grado di mutare gli eventi e ciò che inevitabilmente ci appartiene. La disperazione sarebbe l’unica moneta per riscattare ciò che è stato. L’oblio la sola condizione in cui potremmo sopravvivere. Quante persone ho visto essere corrose dal tarlo del riscatto da se stessi, dalla vita, dai dolori e dai torti subìti, lì al banco dei pegni ad elemosinare ancora un altro ricordo da poter cancellare e distruggere o da riporre nello scantinato aperta una botola nascosta sotto il letto che pulsa ogni notte e non ti fa dormire. Se solo si capisse che ciò significa vivere nella mediocrità quel fardello gravoso che comunemente così viene etichettato è, invece, tutto ciò che abbiamo. Ci odiamo così tanto da non avere neanche compassione di noi stessi, talmente avidi e corrotti dalle tentazioni anche per chi non crede nel peccato, siamo incapaci d’avere il coraggio di vivere nella barbarie, ma siamo anche incapaci di vivere liberi. Qualche catena, insomma, è necessaria affinché ci si possa giustificare per le nostre inadempienze. Il timore non è non piacere agli altri, ma a noi stessi. Il mestiere di vivere è un lavoro precario. Non comprendo coloro che si comportano come non sono o danno soltanto l’impressione di ciò che sono, per poi rivelarsi schiavi incapaci di vivere emozioni e passioni, la leggerezza profonda della vita. Coloro che non godono neanche di se stessi e che sono incapaci di ammirare il Mosaico, poiché non ne sarebbero raffigurati. La perdita al gioco, lì a ripetersi ‘maledetta sfortuna’. Coloro che sono consapevoli di non volersi fare capire, ingannando mettono alla prova per poi aver ragione di sentirsi ingiustamente infelici e inappagati, spaventati da loro stessi.

 L’amore uccide ciò che siamo stati perché si possa diventare ciò che non eravamo. (Sant’Agostino)

Il tempo non esiste. Esiste l’individuo e il racconto perpetuo della sua storia fatta banalmente di sconfitte e vittorie, d’infinite morti e rinascite, di scelte e di conseguenze fedeli a ciò che si è nel bene e nel male. La liberazione consiste nel guardarsi stoicamente e nel medesimo istante con passione struggente così come questo cielo di oggi in un unico scorcio la luce del sole ancora luminosa, ma che si avvia al sonno tra le nubi che si addensano e poi si separano come momenti disgiunti che sfumano in un cielo improvvisamente sereno e poco più in là lo spazio infinito dello sconosciuto e dell’inesplorato.

Mi accetto, dunque, per ciò che sono, per espandere la mia anima e giungere dove voglio nella consapevolezza d’essere ovunque. Né padrone, né schiavo, né colpevole o innocente, libero dalla costrizione del tempo e del riscatto, mi staglio dinanzi a me senza rimpianti, poiché tutto è possibile se io divengo l’impossibile contemplando i colori della mia anima.

 Danzando intorno alla statua di Kronos dio del tempo, figlio di Urano, il cielo, e di Gea la madre Terra generati da Caos.

 

 

S.G.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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