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Una Donna.
di Valeria de Stefano  ( valeriafrusciante@yahoo.it )

19 novembre 2003

Sibilla Aleramo parla di sé nel libro "Una donna".


 

Parla delle violenze subite, del padre, fascinoso e moderno, della madre, del lisergico ambiente meridionale di fine ‘800. E parla sempre di sé quando ci descrive la seduzione del laudano con parossistici occhi, continua a parlarci in prima persona quando si sfoga in un delirio amoroso e lirico per l’abbandono dell’adorato figlio.

Questa donna straordinaria, bella e decisa è stata non a caso accusata d’egotismo.

Egotismo vuol dire disperazione nelle righe del suo libro. Egotismo è saper scegliere tra maternità ed emancipazione, tra emancipazione ed amore. Egotismo è dolore ...stillicidio. Sibilla Aleramo vive e si dispera, vive PERCHE’ si dispera. La disperazione e la ribellione perenne sono il combustibile della sua vita assurda, raminga, randagia ma senza dubbio GRANDE. Grande perché ha cambiato il modo di vivere e sognare, perché ha trasformato il suo dolore in qualcosa di sublime: in letteratura, in scrittura, quell’olifante prodigioso, quel suo talismano che l’ha resa libera, che le ha restituito la memoria, anche quella che pensava di aver perso per sempre. Sibilla è anzitutto amore, prima ancora d’essere spirito o donna. Ma secondo me questo suo amore non è ancora del tutto novecentesco, perché troppo simile a quello di cui poetavano Rimbaud e Baudelaire. E’ troppo legato alla passione struggente, al mistero terribile, alla morte.

Ma potrebbe anche essere angoscioso, tragico.

Il senso di morte è un altro elemento che permea l’opera, sebbene questo non sia sempre annunciato. E’ morto il dottore, l’amica norvegese e il caro zio di Torino. Questo indescrivibile senso di nefasto e lugubre non mi fa pesare al gotico ma piuttosto all’espressionismo, a Munch con la sua ossessione dell’al dilà ma ancor di più ad Ibsen con i suoi "Spettri". Non mi piace politicizzare i libri, né tanto meno classificarli, ma in questo caso non si può evitare di affermare che siamo di fronte ad un’autentica bibbia del femminismo, di certo non descritto nelle piene del suo attivismo, ma un femminismo preconizzato con la lungimiranza di un vate, perché Sibilla è una femminista ante litteram. E’ comunque un femminismo strano quello di cui ci parla Sibilla perché è espresso con frasi squisitamente ottocentesche, zuccherose, melliflue. Mi piacerebbe immaginare che questa donna sia stata eccezionalmente dolce. Forse un po’ morbosa nell’esercitare il ruolo di madre. Comunque mi ricorda una non nota poetessa dei giorni nostri : la graffiante Patrizia Valduga, una cinquantenne adolescente, disperata saggia ed egocentrica. Entrambe parlano della poesia come dell’anti registro letterario maschile per eccellenza. La loro poesia è un’arma, uno stendardo, un colore che scaturisce dall’allucinazione, dall’inconscio.

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