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Norman Douglas e la Calabria del primo novecento
di Debora Filice  

17 aprile 2005






Rapporti sociali, usi e costumi



Calabria: appunti di viaggio  - 2

 

Uno dei viaggi più importanti per la conoscenza delle abitudini dei calabresi è quello intrapreso da Norman Douglas. Egli  scrisse Old Calabria, pubblicato per la prima volta nel 1915; questo non solo è uno splendido libro di viaggio, ma è anche, e ancora oggi, un’utile “enciclopedia” sulla Calabria, visitata più volte dall’autore nel corso della prima metà del Novecento. Douglas non lavorò mai tanto per nessun altro libro. È opinione generale che sia il miglior libro scritto su questa regione. Prima di iniziare a raccontare il suo viaggio in Calabria lo scrittore la elogia raccontando che questa regione è una terra di grandi uomini; si possono citare più di duemila celebrità calabresi: atleti, generali, musicisti, inventori, pontefici. Una terra di pensatori, in quanto esiste un elenco di settecento scrittori calabresi.

Il suo viaggio in Calabria comincia da Rossano.

Come sua consuetudine, appena arrivava in un posto per la prima volta, egli cominciava con il fare una visita in farmacia, dove un certo gruppo di cittadini si riuniva a conversare, perché, secondo Douglas, solo così si poteva veramente “tastare il polso” del paese. Questo era il primo centro della classe agiata, la quale, dopo aver fatto conoscenza, procuravano allo straniero una stanza pulita e comoda, a metà del prezzo previsto in albergo.  

Dopo aver descritto il paesaggio e l’accoglienza degli abitanti di questa regione, egli ci descrive chi fosse per lui l’autentico calabrese. Spiega che se si vuol vedere il vero calabrese, si devono osservare i contadini quando tornano la sera dal lavoro dei campi, tra loro si ritrova l’indescrivibile marchio della “razza”; per carattere e lineamenti, essi erano diversi dagli italiani, appartenevano a un tipo spagnolo. Secondo lui, il calabrese era un personaggio di poche ma acconce parole, leale, indifferente ai dolori e alle sofferenze e nella concezione che aveva della vita si coglieva sempre un senso di distacco dalle cose mondane. Douglas lasciò Rossano e si diresse verso la città di Castrovillari. Egli precisa che, seppure in molti gli avessero parlato malissimo di questo luogo, la sua impressione è stata totalmente smentita dall’accoglienza che ha ricevuto nel suo albergo. Egli trovò questo posto molto diverso da Rossano.

Il suo percorso proseguì ed arrivò nella città di Morano.

Racconta che questa era un’antichissima città e, nonostante le dimensioni (sembrò essere più grande della città precedente), non offriva né cibo né ospitalità. Ciò che colpì l’attenzione del nostro viaggiatore fu il costume delle donne di Morano. Esse indossavano delle gonne rosse, di una tintura fabbricata in casa, e nastri di uguale colore tra i capelli. Era un punto di rosso che assomigliava molto a quello degli abiti indossati dalle beduine di Tunisi. Egli spiega che, forse, fu portato qui dai saraceni. Gli stessi che per lui importarono la mania del pepe rosso che era tipico di queste zone, dove veniva usato in ogni maniera, specie dentro un salame insaporito da questo robusto condimento. Tutto il paese portava le tracce dei saraceni. Molto vicino sorgeva il prospero paese di Saracena, famoso fin dai secoli passati per il suo moscato.

Giunse, quindi, a Terranova di Sibari.

Egli narra che questo era un paesetto sporco, dove gli uomini erano tutti in America e le donne erano quasi tutte afflitte. Ciò che colpì il nostro autore fu il sistema calabrese per le porte d’ingresso; spiega che esse erano divise in due orizzontalmente; la parte superiore, che restava di solito aperta affinché potesse entrare aria e luce, e la parte inferiore, chiusa per impedire ai maiali di entrare in casa durante il giorno (di notte ci andavano a dormire). Dopo Terranova egli decise di raggiungere una casa dove abitavano dei pastori, che era distante circa quattro ore di cammino; il percorso risultò molto piacevole, ma la permanenza lì un po’ meno. La notte era molto fredda e il vento gelido penetrava nella stanza, il pavimento di legno su cui giaceva sembrava più duro di molti altri simili. Ripensava con rimpianto alle tiepidi notti di Castrovillari e malediceva la sua follia d’essersi arrampicato in quelle zone artiche.

La mattina seguente lasciò gli ospitali pastori e giunse dopo mezzogiorno alla Madonna di Pollino, lungo remoti sentieri nel bosco.

Qui assistette ad una festa del paese e racconta che in questo posto si incontravano ancora, riuniti insieme, tipi tradizionali, non contaminati dal modernismo e dall’emigrazione. Vi era rappresentato tutto il paese; i contadini arrivavano con la famiglia da trenta o quaranta paesetti di questa zona poco popolosa. In realtà, era un grande picnic in onore della Vergine dove vi si radunavano duemila persone. Un elemento nella festa, che colpì il nostro autore, fu la vivacità dei costumi, tra i quali i più gai erano quelli delle donne provenienti dai sette o otto villaggi albanesi che circondavano questi monti. Alla fine del raduno religioso una carrozzella lo portò a Castrovillari dove, dopo un bagno e un pasto, riuscì, precipitandosi alla stazione, ad acchiappare il treno della notte per Cosenza.

Lungo il percorso da Castrovillari a Cosenza non scorse anima viva.

Infine, entrò in un paesetto dove trovò una quiete mortale perchè era l’ora del sonnellino pomeridiano. Egli cercava un alloggio e decise, così, di chiedere all’osteria del paese. Trovo il proprietario che era di cattivo umore e gli disse che l’albergo era occupato e non vi si poteva neanche pranzare. Poiché quello era l’unico albergo della città, provò ad insistere, prima con gentilezza, poi con energia, ma tutto fu invano. Entrò disperato nell’unico negozio dove aveva scorto segno di vita, una donna albanese che filava secondo gli usi patriarcali. Racconta che la padrona indossava uno sfarzoso costume e lo salutò con un sorriso e con una cordialità immediata che egli scoprì naturale a tutte queste donne. Essa gli offrì una stanza, dove avrebbe potuto riposare, ed anche del mangiare. Douglas rimase molto colpito da questa donna in quanto era affabile e simpatica e diventarono grandi amici.

Decise di congedarsi dalla gentile signora per dirigersi, con il suo cocchiere, fino a Vaccarizza, sui pendii della greca Sila.

Partì verso le 9,30 e a mezzanotte si trovò nei pressi di Terranova di Sibari; avrebbe voluto vedere alla luce del giorno questi luoghi in quanto ritiene siano molto affascinanti, ma ripartì subito. Durante il tragitto scorse un uomo, che camminava solitario e svelto con la testa china, il cocchiere gli disse che era un “lupo mannaro”. Egli afferma che questa enigmatica creazione della mente umana si trovava spesso in Calabria, ma non se ne parlava volentieri.

Attraversò, quindi, i centri albanesi di Vaccarizza e San Giorgio.

A Vaccarizza egli fu ospite di un ricco possidente del luogo e racconta che fu trattato con vera ospitalità e cordialità albanese. Notò che il resto della popolazione di questo centro era molto povera e che le loro case avevano un aspetto miserevole; inoltre, afferma che, come troppi altri paesi dell’Italia meridionale, questo era quasi privo di popolazione maschile ed era sporco e trascurato. Secondo lui, la prima impressione che avrebbe potuto avere un viaggiatore visitando questo paese era di un abbandono peggiore di quello che si vedeva in Oriente. Non c’era soltanto disordine alla periferia: era un caos deliberato, in quanto erano individui con uno scarso senso della casa e delle sue venerate usanze.  Egli, a questo punto, fa un paragone con l’Inghilterra, dove anche le strade, le pietre stesse documentavano un innato amore per l’ordine, per i sentimenti di buona vicinanza e per le tradizioni santificate dal tempo; mentre qui, secondo lui, mancava il senso della casa come punto di riferimento topografico fisso e preesistente, come gli arabi e i russi, nessuno dei quali possiede un vocabolo che significa l’inglese “home”. Qui, egli continua, il termine più vicino era la famiglia. Gli inglesi, spiega, pensavano a quella casa o a quel paesetto in cui erano nati ed avevano trascorso i giorni più teneri dell’infanzia;mentre qui si considerava la “casa” non come centro geografico, ma sociale, passibile di venir trasferito da un luogo all’altro. Secondo Douglas, qui non esisteva il sentimentalismo, che distingue gli inglesi, verso gli oggetti inanimati.

Douglas narra che su questo versante nord della Sila vi erano sei colonie albanesi, delle quali San Demetrio Corona era la maggiore e fu lì che pernottò e rimase molto contento dell’ospitalità ricevuta.

Qui trascorse qualche breve giorno e cercò di tracciare un ritratto di questi albanesi, in base alle loro consuetudini e a quel tanto della loro letteratura che gli era stato messo a disposizione.  La sua opinione su di loro non mutò, fu quella che già egli aveva formulato quando riposava, in Grecia, nei loro villaggi. Gli rammentavano gli irlandesi. Spiega che entrambe le razze erano sparse nel mondo e sembrava che, fuori del loro paese, prosperassero meglio; esse avevano lo stesso spirito battagliero e la stessa schietta ospitalità, entrambe si perdevano nella bigotteria e nelle liti; e si assomigliavano nell’amore per lo sporco, per il disordine e per le esibizioni; nell’incapacità di autogovernarsi e nella tendenza ad un’ispirata inefficienza. Ed entrambe professavano un’assurda obbedienza a una lingua in disuso che, se fosse stata rigidamente osservata come avrebbero voluto, secondo l’autore, avrebbe posto tra loro e il resto dell’umanità una barriera insormontabile.

Nella città di San Demetrio egli preferì cercar ristoro in una piccola trattoria, dove l’ostessa gli cucinò un ottimo pasto; racconta che le donne di questa zona, nelle classi superiori, erano in genere più intelligenti e civilizzate di quelle della provincia napoletana. Egli avrebbe voluto trascorrere più tempo in questo posto, sconosciuto dalla maggioranza degli italiani, ma il caldo e la cattiva cucina avevano incominciato ad incidere sfavorevolmente sul suo fisico. 

Di Acri narra che era una grossa borgata, la cui aria di prosperità contrastava con l’indolente decadenza di San Demetrio e l’emigrazione in America era molto intensa.

Raggiunse, quindi, Longobucco. Durante la sua permanenza nel paese notò che le strade erano pulite e ordinate; non vi erano albanesi e non esistevano costumi tradizionali di alcun genere. Visitò i quartieri più poveri che erano tutti decentemente illuminati elettricamente.

Lasciata Longobucco, egli giunse a San Giovanni in Fiore.

Per quanto riguarda l’ospitalità della gente di questo paese, afferma che si sentì subito a suo agio fra quella brava gente che lo accolse cordialmente come un vecchio amico. Egli racconta che non ci volle molto per scoprire che, a San Giovanni, l’oggetto di maggior interesse era costituito dalle donne. Molti villaggi calabresi possedevano ancora i loro costumi caratteristici, ma dice che sarebbe stato difficile trovare altrove tante belle donne in uno spazio così ristretto. Spiega che nei tempi antichi era pericoloso avvicinare queste attraenti creature, poiché venivano gelosamente sorvegliate da fratelli e mariti. Ma in quel periodo essi erano in America ed era quindi possibile fare amicizia con loro. Per vedere le donne nel pieno folgore, bisognava scegliere una domenica o un giorno festivo; inoltre, le loro grazie naturali erano messe in rilievo dagli elaborati ornamenti di finissimo gusto e dalle graziose acconciature di effetto irresistibilmente seducente. Inoltre, dice che esse avevano un portamento aggraziato e improntato a una rara distinzione. Per quanto riguarda l’igiene pubblica di San Giovanni egli fa una lunga critica; infatti narra che questo paese era sporco in un modo assurdo; secondo l’autore esso conteneva la sporcizia accumulata tipica di una città orientale. Il suo sudiciume, spiega, era dovuto in gran parte al fumo che, uscendo da tutte le finestre, anneriva i muri delle case dentro e fuori, dato che i calabresi si rifiutavano di abbandonare la preistorica usanza di cucinare sul pavimento. I muri privi d’intonaco e le numerose finestre cieche conferivano alle case un’aria nuda e desolata, e i maiali neri che si rotolavano sulle soglie contribuivano alla sciatteria dell’ambiente. L’autore nota che non si faceva nulla per l’igiene pubblica; le donne lavavano i panni in acque di fogna, non esisteva illuminazione stradale; nel paese era acceso un unico lampione che ai primi venti cadde e non fu più rimpiazzato.  Del suo ultimo soggiorno qui, lo scrittore racconta che uscì su un giornale un articolo sull’igiene pubblica, ispirato al rapporto di due medici inviati dalle autorità sanitarie provinciali per rendersi conto delle condizioni locali. Questi rimasero scandalizzati dal sudiciume, dal fango e dalle immondizie che ingombravano le strade, emanando col caldo un fetore pestilenziale. Douglas afferma che il luogo era malsano, l’approvvigionamento dell’acqua non era quello che avrebbe dovuto essere e alcuni generi di prima necessità erano piuttosto cari. Per quanto riguarda gli abitanti di questo paese egli dice che essi si distinguevano dai paesi che si trovavano lungo la costa dell’Italia meridionale, per il modo col quale venivano trattate le donne; nei paesi lungo la costa, spiega che era ancora possibile trovare donne che altro non erano se non bestie da soma, sciatte e primitive: in queste zone il maschio era il solo portatore della cultura. Situazioni del genere non si trovavano nei paesi della Sila: le donne, dotate di maggior bellezza degli uomini e meglio vestite, erano spesso intelligenti quanto loro.

Nei tempi in cui l’autore visitò l’Italia meridionale si rese conto che c’erano molte usanze e superstizioni che proclamavano chiaramente la superiorità dell’uomo anche se gran parte dei maschi allora si trovavano in America. A proposito di questa emigrazione  in America, Douglas notò che nonostante portasse molto denaro al paese e molte idee nuove, gli abitanti non avevano ancora imparato a usare della nuova agiatezza e a godere di un più moderno livello di vita.

Nel paese di Bova, presso il litorale ionico, l’autore si trovò in ottimi rapporti con le autorità di questa cittadina che egli definì piuttosto squallida. Egli credeva che Bova fosse ancora una miniera inesplorata di notizie da sfruttare; la popolazione era bilingue, la città mantenne i riti religiosi greci fino alla seconda metà del secolo XVI e nel popolo sopravvivevano numerosi cognomi greci.

Le osservazioni effettuate da Norman Douglas durante i suoi viaggi in Calabria restano fondamentali nell’approfondimento della conoscenza degli usi e costumi di gran parte della popolazione calabrese.

 

...CONTINUA

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