Ci
sono due parti di noi. Una che spetta di diritto al passato e l’altra
al futuro. Ma ce n’è anche una terza, o meglio, una
prima. Quella che attende al varco del presente che ti si apre ogni
giorno come una nuova scoperta che sa già di qualcosa che
verrà. Dinanzi al cospetto di te stesso e degli eventi ti
scruti come fossi un mosaico scomposto e intanto il tempo incalza e
ti indica già la direzione.
Ma
tu volti lo sguardo, non sono pronto, gli urli una volta e una volta
ancora, fino a quando il suono della tua voce diventa più
flebile, fino a diventare un sibilo, un sussurro spaventato dalla
paura che non ti riconoscerai come te stesso ad uno specchio abituato
ad avere una sola e certa immagine. Un’immagine a cui sei
affezionato nonostante tutto.
Che
ti protegge.
Ma
l’abitudine non sempre è qualcosa che conforta. E’
una certezza che spesso inganna. Nel cambiamento è insita la
rinuncia. La rinuncia ad un modo di essere che per quanto sia fonte
di sicurezza, come uno scoglio a cui appigliarsi quando tutto è
incerto, fa parte di azioni ripetute che spesso si sono rilevata
dannose. Il te stesso dell’errore, il te stesso spaventato, il
te stesso che fuggiva, il te stesso arrabbiato. Il te stesso odiato.
Troppo
lontano dall’idea che ti eri fatto di te e del futuro.
Questo
luogo sicuro, allora, diviene il vero luogo da cui fuggire, il luogo
da abbandonare, che ci tiene incatenati a una non crescita, a un non
vivere. Molte volte si cadrà lungo il percorso e la sofferenza
ci spingerà a tornare indietro perché, se pure una
gabbia era quel modo di essere, almeno ci teneva al sicuro. Non è
facile andare via da quella casa. Dopotutto l’abbiamo costruita
con tanta cura, per anni. Ad ogni sofferenza, dolore, diniego,
giudizio, dovere o obbligo innalzavamo una striscia di mattoni e
nessuno poteva oltrepassare quel muro di orgoglio.
Nessuno…
Neanche noi.
E
allora se c’è qualcosa da salvare, se c’è
una parte di noi seduta lì a guardarci nel momento in cui
stiamo per andare via, basta abbassarsi, farle una carezza, portarla
con sé e lasciare lì a morire l’odio e la paura
di sogni e desideri infranti. Tenerla tra le braccia e cullarla come
qualcuno che ritorna dopo un brutto viaggio. Quell’abbraccio
liberatorio in cui abbandonarsi, in cui far cadere tutte le difese,
perché finalmente adesso va tutto bene.
E’
finita.
Si
è riusciti ad andare oltre. E’ il cambiamento che si sta
abbracciando. La luce è accecante e stordisce i sensi, gli
occhi devono abituarsi a vedere cose che volutamente prima
s’ignoravano. Non è trasfigurazione, ma trasformazione.
Metamorfosi di noi stessi. Un’evoluzione naturale per
sopravvivere agli eventi della vita che intorno cambiano e ti
cambiano.
Se
questo non avviene, le giustificazioni della nostra inadempienza
rischieranno di soffocarci in un domani già scritto, già
visto. E tutto sarà sempre uguale, immutato, immobile.
Cosa
manca e perché alla nostra essenza affinché possa
sentirsi in pace? E cosa ci impedisce di farle dono di ciò che
insistentemente chiede? Qual è la voce malsana che sovrasta
queste richieste?
La
consapevolezza, forse, della non accettazione dei nostri lati più
oscuri, di cui noi stessi abbiamo timore e non guardiamo in faccia.
Li lasciamo fare indisturbati con la mera giustificazione che
dopotutto chi ci ha fatto soffrire se lo merita. Il mondo, la vita,
gli altri.
Che
importa. Cosa resta? Obblighi e doveri.
E
allora ci cibiamo di piaceri come gli affamati e, sazi di godurie
effimere, ci sdraiamo oziosi su un letto che ci aspetta ogni sera. E
per non sentire il suo rimprovero ci addormentiamo esausti, convinti
di aver vissuto un altro giorno, perché tanto un altro verrà
e non ci sarà niente da fare di nuovo perché tanto
l’immagine sarà la stessa. Lo spettacolo continua come
deve continuare. Ma allora che senso ha una vita se non si può
annoverare il ricordo di qualcosa che fa vibrare il cuore e l’anima?
"Anche
un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno".
E’
forse questo il modo di scandire il nostro tempo? E si rimanda tutto
a domani con la testa tra le mani sapendo perfettamente che sarà
uguale a ieri.
Dovremmo
essere l’archeologo di noi stessi. Camminare sulle tracce di un
lontano passato, seguire gli indizi come molliche di pane sul terreno
e scavare, riportare alla luce i nostri tesori. Ricostruire pezzo
dopo pezzo i vasi andati in frantumi delle nostre intenzioni.
Raccogliere i frammenti delle emozioni nascoste, taciute, azzittite,
che un giorno in preda alla rabbia abbiamo scagliato a terra, perché
era troppo difficile tenerle in mano. Avrebbero potuto farci morire.
Dovevamo sopravvivere e le emozioni, i sogni a volte uccidono, fanno
perdere lucidità ed equilibrio. In viaggio non puoi portare
tutto. Il peso ti schiaccia, devi lasciare qualcosa. Ma quando sei
finalmente in salvo puoi andare a riprendere quello per cui hai
pianto perché sei stato costretto ad abbandonare. Ti accorgi
allora che quello che ti serviva ieri per sopravvivere non ti serve
più. Sei inevitabilmente cambiato. Il mondo intorno a te è
inevitabilmente cambiato. Non ti soddisfa più ciò che
sei e cosa fai. Puoi respirare con calma adesso. Non puoi più
mantenere un modo di essere che dovevi portare avanti in una
determinata situazione, se quella situazione non è più,
ormai appartiene al passato e non puoi più difenderti ai tuoi
occhi con la solita scusa. Ciò che prima appagava, adesso lo
percepisci come qualcosa d’ingombrante, di cui doversi
sbarazzare.
Eccolo
il cambiamento che bussa alla tua porta, e forse stai andando ad
aprire…
Sarà
un cammino lungo e difficile, e molte volte ti perderai e ti sentirai
perso. Ma ne vale la pena per dirsi davvero vivi.
Ogni
scelta è una rinuncia. Ma non è una parte di noi da
dimenticare, ma da accettare senza accontentarsi, perché se si
è fatta una scelta con determinazione e consapevolezza, forse,
forse, non potevamo essere diversi da quello che siamo. La domanda è,
possiamo essere diversi da quello che potremmo essere nonostante
queste verità? Può ancora esserci scelta?
Sabrina Granese 21 febbraio 2016.
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