Tormento o Estasi?
di Giorgio Marchese  ( direttore@lastradaweb.it )

30 dicembre 2013






Pillole di "sellezza"!


Riflessioni

L’essere umano non nasce per soffrire ma confonde, sovente, l’incapacità da carente sviluppo della propria personalità (risolvibilissima, attraverso l’impegno, lo studio e la motivazione) con la fatalistica convinzione che, tutta l’esperienza terrena, debba essere costellata da una sequela di iatture e dispiaceri.

In una pubblicazione scientifica del 1969, il biologo Delgado, riporta i seguenti risultati: "Nella porzione posteriore dell’ipotalamo, sono presenti due gruppi diversi di strutture, le une remunerative e le altre punitive. Un’analisi sistematica delle aree cerebrali del ratto, rivela che il 60% del cervello è neutro, il 35% risulta "remunerativo" e solo il 5% può provocare effetti punitivi".

Considerando che il protocollo scientifico prevede una "sovrapposizione neurofunzionale" fra ratti ed esseri umani, possiamo concludere che il buon Dio, o chi per lui, abbia previsto la necessità di riflettere molto (60% di aree cerebrali neutre) per imparare ad apprezzare i piaceri della vita (35% di aree cerebrali gratificanti) e valutando la capacità di percepire il dolore (5% di aree cerebrali "punitive") solo come campanello d’allarme in presenza di pericoli.

Al contrario, l’essere umano ha imparato ad amplificare la funzionalità delle potenzialità sofferenti (che rappresentano invece, percentualmente, una quota trascurabile) mortificando il resto, per carenza di un sistema educativo adeguato.

Perché molti hanno paura di provare e mostrare la propria gioia?

Come ho già avuto modo di spiegare molte altre volte, questo è un problema che affonda le radici nell’antichità, all’epoca degli antichi greci, i quali avevano paura di mostrarsi felici, contenti, perchè temevano l’invidia degli Dei. In effetti, a quei tempi, si era convinti del fatto che le divinità punissero gli esseri umani per la loro felicità e, quindi, si finiva per mostrarsi tristi, come forma di scaramanzia.

Questa sciagurata convinzione si tramanda ancora oggi!

Molte persone dichiarano di aver paura dei propri momenti felici per timore di doverli "scontare" attraverso molta sofferenza. Questo tipo di convinzione "ellenistica" risente della cultura del tempo: infatti gli Dei venivano umanizzati e "nevrotizzati", schiavi di complessi di inferiorità, permalosi e suscettibili.

RIFLETTIAMO:

se tu non sei felice per paura che poi avrai da rimpiangerlo... nel frattempo soffri comunque! Soffri perché hai paura di essere felice altrimenti soffrirai. Allora, tanto vale godere tutte le volte che si può, altrimenti si "piange" e basta!

Sulla falsariga di quanto appena affermato, alcune frange religiose (cattoliche, islamiche, giudaiche, etc.), sostengono il valore positivo del sacrificio e della sofferenza.

Questo è dovuto, molto spesso alla confusione con la religione pagana che vedeva il sacrificio come offerta (attraverso l’uccisione di animali o persone) per ingraziarsi gli Dei. Oggi, il sacrificio (tranne casi eclatanti di persone particolari) si è tramutato nella proibizione di provare piacere.

Tutto ciò, accade per lo più per ignoranza, perché nessuno al mondo vorrebbe vedere penare altre persone e giudicare, questo, corretto. La problematica trova la sua corretta chiave di lettura sia in termini religiosi che scientifico naturali.

Dal punto di vista religioso, se valutiamo Dio come colui che ci ha generato, arriviamo a concludere che non possa godere del dispiacere dei propri figli, né essere così sadico da impedirci l’uso di strumenti (i sensi) che ci ha fornito, stimolando correttamente i quali, si prova piacere e gusto alla vita.

Dal punto di vista scientifico, non è razionale credere che la Natura impedisca l’evoluzione della specie attraverso la negazione di esperienze che insegnino a migliorare la qualità della propria vita.

Ma allora, come si fa a vivere con saggezza e senso della misura?

Acquisendo le giuste conoscenze mediante cui concretizzare quegli obiettivi (autonomia economica, amore di sé per sapersi "donare", realizzazione in un lavoro, etc.) che ci consentiranno una solida autostima.

Da qualche mese, è entrata, in casa mia, una simpaticissima barboncina di nome Sally che, fin dall’inizio, mi ha offerto spunti per riflettere sulla più corretta condotta di vita, come ho avuto modo di scrivere nell’editoriale Ordine e disordine: una vita mordace.

Proprio ieri, discutendo con mia figlia Valentina, ho scoperto che, Sally, avendo raggiunto i sette mesi di vita è ormai sua coetanea (14 anni, o giù di lì).

Nel 1996, Francis Ford Coppola dirige una particolare pellicola, Jack, interpretata da Robin Williams e Diane Lane.

Jack nasce dopo solo due mesi di gestazione e presenta una rarissima disfunzione genetica: invecchia quattro volte più velocemente del normale, cosa che riduce di molta la sua aspettativa di vita. A dieci anni ha l’aspetto di un quarantenne, vive isolato dal mondo poiché i suoi genitori, soprattutto la madre, hanno paura che il figlio possa essere preso in giro ed emarginato. Sotto consiglio del suo unico insegnante i genitori decidono di mandarlo per la prima volta a scuola, dopo delle iniziali difficoltà Jack riesce ad integrarsi ed a crearsi un gruppo di amici. A seguito di un malore, la madre decide di "proteggerlo" rinchiudendolo, nuovamente, in casa. Grazie all’intervento dei suoi compagni, alla fine Jack riprende una vita quanto più possibile, normale. Sette anni dopo, con l’aspetto ormai di un vecchio, Jack legge un discorso come studente oratore alla cerimonia di consegna dei diplomi.

Ecco, riflettevo sul fatto che, Sally, seguirà la stessa sorte di Jack, procedendo ad una velocità anagrafica 4 (o pił) volte superiore alla nostra. Non mi sembra che sia particolarmente preoccupata di ciò; quello che noto, invece, è che pare che capisca di non avere tempo da perdere e, quindi, "pretende" di fare tutto ciò che ritiene giusto, utile e, soprattutto, divertente (scavare nei vasi delle piante, buttare giù i contenitori dell’immondizia per giocare con tutto ciò che fa rumore, mangiucchiare le frange dei tappeti, srotolare la carta igienica, giocare a pallone, mangiare panzerotti e dolci alla Nutella, cercare le coccole e, alla fine, accucciarsi felice accanto ad uno di noi).

Un paio di giorni fa, inoltre, le mie figlie (Mariarita e Valentina), hanno stilato una serie di indicazioni, risultate da lunghe osservazioni di Sally, nella quotidianità della sua "vita da cane". Una sorta di "pillole di Sellezza" insomma...

Ve le propongo

  • Quando qualcuno mi pesta una zampina, io non metto il broncio! È inutile portare rancore: impara a perdonare e a goderti la vita.
  • Non mordere la mano di chi ti nutre...
  • Si può imparare tanto, dall’amore di noi animali, che non vogliamo compromessi ma accettiamo o rifiutiamo, per come ci dice il cuore!
  • Ho capito che è molto meglio guadagnarmi i biscottini rispettando le regole, piuttosto che rubarli di nascosto.
  • Ogni tanto bisogna darsi una scrollatina per alleggerirsi la vita ricordandosi, però, che, alcuni problemi sono come le pulci: non basta grattarsi per mandarli via. Bisogna eliminarli alla radice!

Cari lettori, in conclusione...

ricordiamoci che ognuno, di fatto, riceve quotidianamente, 24 gettoni di libertà (uno per ogni ora della giornata) da spendere nelle normali occupazioni (famiglia, lavoro, riposo, etc.): il segreto della felicità consiste nel riuscire a risparmiarne, ogni giorno, qualcuno, per poter coltivare la migliore amicizia del mondo: quella con se stessi.

G. M.

Un grazie sincero a Mariarita, Valentina e, naturalmente, a Sally

 

 

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