Il triello.
di Vincenzo Andraous  ( vincenzo.andraous@cdg.it )

7 aprile 2010

"Nel 1966 Sergio Leone gira: Il buono, il brutto e il cattivo, nel finale c'è un memorabile triello in cui tutti sparano su tutti. Anche oggi accade una cosa del genere, magari con molto meno onore". Un carissimo amico mi ha scritto così, come a volermi incitare a riflettere su quanto sta minando alle fondamenta la nostra società, ma non riusciamo ad accorgercene, peggio, non vogliamo. La politica è un punto dolente per sua esplicita ammissione, infatti non fa più proseliti né sforna nuovi eroi, rimane lì, a barcamenarsi tra spot elettorali e slogan scopiazzati qua e là. Gli uomini al vertice, quelli a metà, gli altri alla base della piramide, sono a disagio nell'agire comune per programmare minimi obiettivi, per cui diventa miraggio la pratica condivisa nell'impegno di una buona vita, molto meglio stare in ordine sparso, in attesa, pronti al balzo. Famosi e sfigati sono strenuamente impegnati nell'abbattimento reciproco in corso d'opera, un piacere frontale nel mettere sotto l'altro, un piacere avvolgente nell'osservare il disfacimento personale del nemico, del rivale, dell'amico non più ritenuto tale. Un microcosmo di gestualità portate di taglio per fare più male, di parole lanciate come fossero cluster bomb per esser certi di conseguire il danno importante... PER LEGGERE TUTTO IL TESTO, CLICCARE SUL TITOLO.




Atteggiamenti che diventano comportamenti quotidiani violenti, per esser primi, per rimanere con i primi, poco conta a quale prezzo stare a galla: persino il conflitto che diviene notte tempo violenza, la stessa droga una sostanza non del tutto malaccio, il valore della persona non più bene primario. I giovanissimi, gli adolescenti, non parlano e così non danno possibilità di parlare, sono lì a osservare, sono carta assorbente per non tralasciare niente di questa dinamica sgangherata del vociare, prendere a botte, gridare aiuto inascoltati. Il tradimento culturale sta nel ribaltare lo stato delle cose, nel cambiare i connotati alla realtà, così i più giovani già per metà professionisti di domani, diventano armi contundenti di un pezzo di futuro che non è mai possibile ipotecare. Una sorta di democratico rinculare nei simboli tribali, soprassedendo alle sacralità ridotte a comparsate maleodoranti, nel belare vittimistico l’equilibrio delle rendicontazioni, tra il giusto avuto e il maltolto, la dignità di un rifiuto e la vergogna di un accordo comprato. Nella società io vinco e tu perdi non si fanno prigionieri, spesso manca il sangue all’intorno è vero, non sempre c’è truculenta la violenza, a volte è celato il dolore, mistificata la sofferenza, il colpo però è dato senza neppure l’ultima volontà di un perdono. In questo botto a perdere del consumo della notizia, dello smercio informatico, della comunicazione istantanea sguaiata, c’è il rischio di interpretare il rumore di sottofondo come un ritmo incalzante, il movimento ondivago di una crociera della mente, dentro il paradosso di un benessere apparentemente diffuso, perché portatore di sprechi incredibili: benessere non certo nei valori raggiunti e condivisi, piuttosto per traguardo economico da aggredire e acquisire. Tutto ciò incide sulle personalità in costruzione? Su quelle più fragili? Sulle altre cosiddette formate? Forse non servono troppe spiegazioni, è sufficiente osservare gli sguardi di una umanità ripetutamente vinta. Per essere portatori di una libertà che educa occorre arrischiare un passo indietro rispetto a ciò che ferocemente attualizziamo, perdendo di vista la sostanza delle cose, l’analisi, gli interventi da azionare senza ulteriori rimandi. Un passo indietro dall’assuefazione a giudicare chi sta al passo e chi no, chi vince e chi perde, chi starà ai piani alti e chi invece nei sottoscala. Forse c’è ancora tempo per procedere sul terreno delle nuove relazioni, nella coerenza generosa della libertà, scegliendo di non rimanere prigionieri delle stive colme di dobloni d’oro, del piccolo schermo eroe in tuta mimetica, chissà se c’è ancora spazio sufficiente per credere in qualcosa di autentico, non mercificabile, un valore che dia ancora senso alle persone, alle cose, persino alle istituzioni: il rispetto come prima forma educativa dell’umanità.

 

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