PROMESSE ELETTORALI...
di Giuseppe Chiaia  ( peppinochiaia@libero.it )

2 aprile 2006





...e disarmonie economiche.


E’, ormai, scadenzario rituale, quello di legare le promesse elettorali ai problemi economici che interessano i cittadini; e non perché ciò rappresenti una contraddizione in termini; tutt’altro.

Ma la promessa di un benessere futuro che i vari candidati si affannano a spiegare, la prospettiva di una panacea che valga a risolvere disoccupazione, inflazione, incrementi salariali, detassazioni fantasiose, sono, tutti questi, problemi, anzi impegni elettorali che, chi scrive, sente ripetere dal 1952; cioè, fin da quando, liberate le strade dalle macerie della guerra, ci siamo sentiti rassicurati, da destra, da sinistra e dal centro dei partiti politici che, finalmente, per noi italiani sarebbe iniziata un’era di libertà e benessere, di progresso e felicità.

E che cortei di cittadini osannanti, in quegli anni cinquanta, con multicolorate bandiere rosse dorate da falci e martelli, o bianche scudocrociate, o verdi ornate d’edera!!

Tutti, al grido di: " Pane e Lavoro".

Ed in quella speranza, disillusa e svenduta, per qualche voto, alla lotteria di una elezione a deputato e senatore, si sono consumate le aspettative dei nonni, dei padri e degli attuali figli e nipoti. Eppure, tracotante e stentoreamente altisonante, la usata ed abusata formula della promessa di un futuro benessere continua a riempire i discorsi, le conferenze, i dibattiti nei quali si esercitano, con alterna oratoria i...soliti "Proci" della politica.

Ancora, non c’è stato un candidato, un Socrate dell’economia che ci abbia spiegato come mai la disoccupazione aumenti, perché i salari perdono il loro potere d’acquisto, per quale motivo il nostro P.I.L. è cresciuto, nel 2005 di uno 0,01; quantunque si abbia il primato dei telefonini cellulari ed il 65% delle famiglie italiane sia proprietario di un’abitazione!!

La verità - che molti ignorano ( tranne i politici di professione ) - è l’ignoranza che noi cittadini si ha sui fatti economici; e cioè, sui rapporti interpersonali che si instaurano tra persone, tra civiltà diverse, tra popoli, ognuno di questi, teso a conseguire un benessere, una utilità o un piacere: e se queste finalità iniziarono con la violenza delle guerre di conquista, con la sopraffazione di interi popoli, con lo sfruttamento delle ricchezze altrui, col tempo si stemperarono nello scambio di beni sotto forma di baratto, fino a quando il denaro accelerò il commercio che consentì, a chi lo possedeva, di spendere; e a chi s’industriava come procacciarselo, suggerì come guadagnarselo con la propria inventiva, col coraggio del rischio, con la sagacia della propria arte.

E questo bisogno del guadagno ha spinto e spinge ciascuno a procacciarsene sempre più, proprio al fine di godere, il più possibile, dei beni della terra. E quando questo bisogno non si realizza lecitamente, subentra la violenza, la rapina, la mafiosità.

Ma ritorniamo nella considerazione delle leggi economiche.

Come pensate che la dinastia degli Agnelli, o la plutocratica potenza di un Tronchetti-Provera, o la dorata protervia artigianale di un Della Valle, o il bofonchiare sportivo di un Moratti, o il delirio di onnipotenza di un Berlusconi, abbiano potuto conseguire le spropositate ricchezze di cui godono se non usando, attraverso favorevoli e fortunate opportunità, di periodi di crescita operosa dell’Italia?

Ma la crescita economica di uno Stato ha bisogno di due elementi sociali di somma importanza: una struttura amministrativa e governativa che, nelle varie realtà territoriali - dal potere centrale a quello comunale - riesca a tutelate i diritti e i doveri che spettano sia alla collettività e sia al singolo cittadino; ed un’organizzazione dei servizi ( sanità, trasporti, viabilità, ordine pubblico, scuola e giustizia ) che soddisfi i diversi bisogni e garantisca la libera iniziativa di ciascun cittadino.

Purtroppo, ancora oggi, le lotte politiche, gli scontri tra partiti e i loro leaders, le polemiche violente tra giornali e televisioni determinano, ancor di più, lo smarrimento degli elettori.

Con ciò, non si vuol negare quella sana dialettica tra esperti che mira ad illustrare i comportamenti e gli sviluppi economici di cui oggi abbiamo tanto bisogno; ma il confronto deve svolgersi tra quanti hanno dimestichezza e competenza con le dure e severe leggi dell’economia; e chi, meglio degli economisti? Anche fra questi, però, non esiste un’identità di veduta, seppur ognuno ha la propria ricetta per risolvere i problemi economici; infatti, durante la crisi del 1929, quando un’onda di sconforto generale pervase cittadini ed istituzioni statunitensi, molti economisti, ciascuno convinto dell’esattezza dei propri principii, proposero soluzioni estremamente contrastanti tra loro: ad esempio, il grande industriale Morrow invocava la parsimonia dei lavoratori nello spendere i magri salari che percepivano; sperava, in tal modo, di frenare l’inflazione e di affidare la sommatoria dei modesti risparmi al sistema bancario, meglio deputato ad indirizzare e finanziare le attività industriali più proficue; altri economisti, predicavano la drastica riduzione della spesa pubblica.

Era, insomma, la consacrazione del risparmio, grazie al quale è possibile, dopo aver limitato i consumi privati, stimolato i depositi bancari, eliminate le spese pubbliche superflue e dispendiose, determinare la ripresa economica.

Altri economisti - e, fra questi, il Keynes - si provò a confutare, e con successo, la virtù del risparmio che tanta devozione riscuote tra i ceti medio e basso borghesi, invogliando, propugnando e, quasi, minacciando la necessità di spendere fino all’ultimo "cent ", per cui indicò ai responsabili pubblici l’opportunità di aprire cantieri dovunque; magari scavando inutili gallerie o riempendo di terra assolate pianure, in tal modo, metteva in circolazione quei pochi spiccioli che ognuno teneva gelosamente custoditi nei reggiseni delle proprie mogli ( si legga quel meraviglioso romanzo di Steynbeck "Furore"), ed accanto a questi cantieri inventati cominciò a ruotare un’economia che andava dall’albergo di quart’ordine alla piccola officina motoristica, dallo "store" dai mille articoli, al maleodorante "saloon" dove c’era possibilità di guadagno anche per qualche allegra donnina che ripigliava a vivere senza l’assistenza dei pubblici refettori.

Insomma, fu una rivoluzione economica così travolgente che informò, di sé, tutto il futuro economico degli U.S.A.; da allora, l’economia statunitense non ha più conosciuto la ciclica pestilenza delle crisi economiche.

Con ciò, si vuole dire che diverse sono le teorie economiche; che nessuna di esse è assoluta e perfetta; che ognuna di essa è valida nella sua teorizzazione; che la positività di ciascuna è collegata alle condizioni storiche e sociali in cui opera; che Adam Smith, propugnatore della potestà della borghesia, fu profeta del capitalismo, che ripose nell’ "impresa" il motore del benessere di una nazione, ma il liberalismo che ne derivò non tenne conto del libero scambio delle merci tra nazioni; che il tribuno del proletariato, Carlo Marx, fu il tenace oppositore del capitalismo smithiano, ma il suo sistema si è inceppato in quelle forme di rigida pianificazione industriale, il cui dispotismo si è frantumato con le macerie del muro di Berlino.

Oggi, l’economia si è globalizzata attraverso le grandi Holding, vere e proprie corporazioni di stampo medievali, che, pur impegnando enormi capitali e centinaia di migliaia di dipendenti, sono le vere depositarie di un potere incommensurabile al punto da determinare il vivere della popolazione mondiale, riuscendo, persino ad imporre un’infinità di prodotti, i relativi prezzi, da determinare nuovi stili di vita, impegnandosi nell’imporre un continuo rinnovamento di merci e servizi; ogni giorno, grazie alla robotica, nascono automobili avveniristiche, computers da fantascienza, sofisticazioni e conservazioni di cibarie già preparate per venire incontro al convulso svolgersi della vita di relazione ; mentre, masse di disperati premono dai desertici ed assolati confini del sud del mondo.

E’ necessario rivedere tutto questo convulso mondo della "new economy", umanizzare i rapporti interpersonali, affidare le nostre fortune ad uomini capaci affinché il nostro vivere riacquisti quell’umanizzazione che ci vide protagonisti della civiltà europea del 1400.

E se in Italia riprovassimo a mettere in atto il coraggio delle idee del Keynes? ma, non dipende da noi cittadini, questo è compito della cultura specifica, delle cattedre universitarie di economia, dell’onestà intellettuale di governanti che abbiano la tempra di un De Gasperi, o di un Adhenauer, o di uno Spaack, di un Pertini, di un Einaudi e non certamente di quella pletora di periti agrari ed industriali che affollano i banchi che, da Montecitorio, degradano fin nei consessi regionali, provinciali e comunali delle nostre contrade; e non perché i periti industriali o agrari siano persone di seconda categoria, ma perché alcuni di loro hanno la protervia di svolgere responsabilità sociali di gran lunga superiori alle loro manualità.

Chi non ricorda l’aneddoto di Prassitele - il grande scultore dell’antica Grecia - che, avendo accettato i rilievi circa una scarpa che allacciava il piede di una statua esposta, dall’artista, nell’agorà di Atene da un ciabattino, che, insuperbito dall’accoglimento del suo rilievo fatto sulla scarpa, cominciò a tranciare critiche sul resto della scultura al che Prassitele lo apostrofò aspramente con la famosa frase " Calzolaio, non oltre la scarpa...!"

Conseguentemente, è il caso di rammentare a moltissimi politici che non è più sopportabile non solo il parassitismo delle loro costanti riconferme, ma la loro incapacità ed ignoranza politica e culturale, in genere, che suona offesa alla cultura e, quel che è peggio, alle fortune della nostra Italia.

Giuseppe Chiaia (preside)

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