LUCI
NEL BUIO
Da
qualche tempo parlare di accoglienza significa rischiare di perdere
il proprio diritto di cittadinanza, scatenare un pandemonio, uno
stillicidio di aggettivi e sostantivi a poco prezzo, giudizi e
condanne a priori, esternazioni che tranciano di netto qualsivoglia
rendicontazione della ragione, ciò che ha necessità di
eccellere è il colpo di maglio dell’indifferenza.
Tutto
il resto è noia. O quasi.
Eppure
non ci trovo niente di buonista nell’accogliere, accompagnare,
formare, rendere una vita nuova a chi vita non ha avuto mai, soltanto
una qualche sopravvivenza. A mio avviso buonismo becero è non
badare ai numeri, alle quantità, alle occupazioni arbitrarie e
alle disoccupazioni intellettuali, mentre accogliere quanti sono in
fin di vita, quanti non ce la fanno proprio più a sopportare i
ceppi dell’ingiustizia, quanti torturati e umiliati piangono
senza più lacrime, quanti sono ridotti a piccole cose, senza
più alcun valore, non ha parentela alcuna con chissà
quale terribile e mal disegnata inondazione dell’essere.
Noi
siamo un paese che non è mai venuto meno al proprio dovere
civile di aiutare chi sta messo peggio di noi, tanto meno ci siamo
mai sottratti alle leggi scritte e fin’anche a quelle non
scritte del mare, della terra e del cielo, men che meno alla propria
coscienza.
I
reati calano, le carceri soccombono al sovraffollamento, i poveri
aumentano ma invece, ci rassicurano, siamo un po’ più
ricchi, gli sbarchi non consegnano più carne umana, eppure le
città e le periferie sono spazi adibiti alla replicanza
inarrestabile dei solitudinarizzati.
Insomma
tutto fa brodo per inscenare qualche speculazione politica, per fare
stare al fondo del barile tutto e il contrario di tutto; a 65 anni
sto comprendendo il significato di accoglienza,
non perché mi sia deciso a ingrossare le fila del buonismo
sociale quanto piuttosto perché, secondo me, accogliere
significa accettare la fatica di una prossimità: non soltanto
tra me e te improvvisamente sulla stessa strada, ma perché il
cuore, la testa, la pancia, stanno connessi, quando di mezzo c’è
la persona, il suo dolore, la sua disperazione, e non soltanto per
rimarcare il confine ultimo della propria coscienza.
Accoglienza
non sottende la prevaricazione dell’altro, neppure il buonismo
che è destinato al botto, bensì significa
riconoscere l’altro, riconoscere chi sta davvero peggio, chi ha
davvero bisogno di aiuto, quella solidarietà costruttiva che
costa fatica e sudore e non solamente il furbesco spreco di denari.
Non
sono accettabili le accoglienze
politiche, tanto meno quelle ideologiche...
Neppure
è accettabile rimanere prigionieri di quanto non condividiamo,
sebbene comprendiamo la sofferenza di donne, bimbi, uomini innocenti,
costretti a rischiare le loro vite per un sogno destinato a morire.
Vincenzo
Andraous - Counselor,
Tutor Comunità "Casa del Giovane" Pavia
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