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Il mobbing in Italia-mobbing e maternità.
di Erminia Acri  ( erminia.acri@lastradaweb.it )

5 novembre 2007

Mobbing e maternità.



La natalità nel nostro Paese è tra le più basse al mondo. L’apparente incremento positivo degli ultimi due anni sembra dovuto non tanto ad un aumento delle nascite quanto al fatto che si è allungata la durata della vita.

Uno dei motivi che incide di più sulla scarsa natalità è la reale difficoltà delle donne di conciliare maternità, famiglia e lavoro, vista la mancanza di strutture d’ausilio, ma a questo si aggiungono le umiliazioni, le vessazioni, i ricatti, cui le lavoratrici vengono sottoposte nell’ambiente lavorativo. Non è raro, infatti, che venga chiesto alle donne, nei colloqui di lavoro, se hanno intenzione di sposarsi ed avere figli, non è rara la pratica di far firmare alle lavoratrici le cosiddette “dimissioni senza data” pronte per l’uso in caso di gravidanza, non è raro il mobbing diretto ad indurre la lavoratrice all’interruzione della gravidanza per paura di perdere il lavoro o alle dimissioni.

Eppure la normativa italiana a tutela della maternità è reputata la più avanzata a livello europeo: essa tende, da una parte, a tutelare la salute della donna e del bambino e, dall’altra, a garantire alla madre e, da qualche anno, anche al padre, una tutela economica per i periodi di assenza dal lavoro, come di seguito illustrato.

LEGISLAZIONE A TUTELA DELLA MATERNITÀ E DELLA PATERNITÀ:


La legge 30 dicembre 1971 n° 1204 e il relativo regolamento di attuazione DPR 25/11/76 costituiscono il fondamento giuridico di tutela delle lavoratrici madri.

La successiva legge n.53/2000 denominata "Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città" – ha modificato la precedente normativa (legge 1204/71) sulla tutela della maternità, ampliandone ed estendendone le norme anche al padre lavoratore.


MISURE DI TUTELA


DIVIETO DI LICENZIAMENTO

Il divieto di licenziamento opera dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di 1 anno di età del bambino.

Sono escluse da tale norma:

·le colf (la Corte Costituzionale ha negato, più volte, l’illegittimità di quest’esclusione)


Tale divieto non opera nei casi di:

·licenziamento per giusta causa;

·cessazione di attività dell’azienda;

·ultimazione della prestazione a cui era addetta la lavoratrice e di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.


Il divieto di licenziamento non è subordinato alla presentazione del certificato medico, tuttavia si consiglia di presentarlo ugualmente quanto prima.


Il divieto di licenziamento si applica anche al padre, che fruisca dell’astensione obbligatoria, dalla nascita del bambino fino al compimento di un anno di età del medesimo.


DIVIETO DI ADIBIRE LE LAVORATRICI A LAVORI GRAVOSI E INSALUBRI

Le lavoratrici durante il periodo di gestazione e fino a 7 mesi dopo il parto sono esonerate dal trasporto e dal sollevamento di pesi e possono essere spostate ad altre mansioni, conservando la retribuzione e la qualifica originarie, se vengono spostate a mansioni inferiori. Il DPR 1026/76 è il regolamento che indica i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri a cui la lavoratrice non deve essere adibita.


ASTENSIONE OBBLIGATORIA

E’ vietato far lavorare le donne in stato di gravidanza:

· durante i 2 mesi precedenti la data presunta del parto;.

· durante i 3 mesi dopo il parto.

La disposizione è valida anche per le lavoratrici a domicilio e per le colf.

L’astensione obbligatoria post-partum è stata estesa anche al padre lavoratore nel caso in cui l’assistenza della madre al neonato sia diventata impossibile per decesso o grave infermità della madre stessa o nel caso di affidamento esclusivo.


E’ prevista, però, la possibilità di lavorare anche fino ad un mese prima del parto a patto che la gravidanza sia regolare e che le condizioni lavorative non siano rischiose.

Per poter lavorare fino a questo periodo l’interessata dovrà fare una domanda al datore di lavoro e all’Inps allegando la certificazione medica acquisita nel settimo mese di gravidanza da cui risulti che non sono presenti rischi per la salute del bimbo e della mamma.

Per legge la lavoratrice in congedo deve percepire l’80% dello stipendio, ma quasi tutti i contratti collettivi prevedono però che lo stipendio venga corrisposto interamente, impegnando il datore di lavoro a pagare la differenza.


ASTENSIONE OBBLIGATORIA ANTICIPATA

Il periodo di astensione obbligatoria può essere anticipato:

a) nel caso di gravi complicanze della gestazione o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;

b) quando le condizioni di lavoro o ambientali sono ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
c) quando la lavoratrice che svolga lavori pericolosi, faticosi o insalubri non possa essere spostata ad altre mansioni (l’astensione può protrarsi fino a 7 mesi dopo il parto).


INTERRUZIONE GRAVIDANZA

Per le lavoratrici subordinate, l’interruzione della gravidanza avvenuta dopo il 180° giorno dall’inizio della gestazione è considerata a tutti gli effetti parto mentre l’interruzione avvenuta prima del 180° giorno dall’inizio della gestazione (aborto) è equiparata alla malattia e quindi la lavoratrice non ha diritto all’indennità di maternità, ma, eventualmente, a quella di malattia.


CONGEDI DI PATERNITA’

Il padre lavoratore dipendente può astenersi dal lavoro dopo la nascita del bambino e per un periodo massimo di tre mesi di età del nascituro solo nei seguenti casi:

  • morte o grave infermità della madre,

  • abbandono del bambino da parte della madre,

  • affidamento esclusivo al padre o riconoscimento del figlio da parte di un solo genitore.


In questi casi, al padre sono estesi gli stessi diritti previsti per la lavoratrice madre, quali il diritto alla retribuzione, la commutabilità nell’anzianità di servizio, il divieto di licenziamento entro il primo anno di vita del bambino.


CONGEDI PARENTALI

Il congedo parentale viene definito dalla legge come quel periodo nel quale la lavoratrice o il lavoratore dipendente hanno la facoltà di astenersi dal lavoro, e non l’obbligo.

La madre e il padre hanno diritto al congedo parentale per un periodo di durata massima di sei mesi nei primi otto anni di vita del bambino.

Per le madri che al momento della richiesta sono single, il periodo è esteso a dieci mesi.

I padri single o separati hanno diritto ad un congedo per un periodo massimo di dieci mesi, solo se la madre del bambino è gravemente malata o deceduta, oppure in caso di abbandono o affidamento al padre del bambino.
Madre e padre possono usufruire del congedo parentale anche contemporaneamente, ma la durata massima non può superare i 10 mesi per coppia estendibile fino a 11 mesi se il padre utilizza almeno 3 mesi (es. 5 mesi la madre, 6 mesi il padre).

La domanda deve essere presentata al datore di lavoro e all’INPS con un preavviso di almeno 15 giorni, sempre che non ci siano motivi gravi o sopravvenuti che comportino la necessità di astensione immediata dal lavoro senza preavviso.

Alla domanda, nella quale deve essere precisato il periodo di astensione, devono essere allegati la dichiarazione sostitutiva del certificato di nascita attestante paternità e maternità; la dichiarazione dell’altro genitore da cui risultino eventuali periodi di congedo già fruiti per lo stesso figlio , con indicazione del datore di lavoro; la dichiarazione del genitore che presenta la domanda da cui risultino eventuali periodi di congedo già fruiti per lo stesso figlio; l’impegno di entrambi i genitori a comunicare eventuali variazioni.

Durante il congedo parentale si ha diritto ad una retribuzione pari al 30% dello stipendio per un periodo massimo complessivo di sei mesi entro i primi 3 anni del bambino (entro i primi 8 anni se si percepisce un reddito annuo inferiore a € 11.395).


CASI PARTICOLARI


Adozione o affidamento
I genitori adottivi o affidatari godono degli stessi diritti e della stessa tutela in materia di congedi:

  • il congedo di maternità può essere utilizzato nei primi tre mesi dall’ingresso del bambino nella famiglia e fino al 6° anno di vita;

  • il congedo parentale è previsto fino agli 8 anni di età del bambino con le stesse modalità previste per i genitori naturali;

  • se il bambino ha un’età compresa tra i 6 e i 12 anni, il congedo può essere utilizzato nei primi tre anni dall’ingresso del minore nella famiglia.

Genitori di figli disabili

I genitori di figli minori disabili hanno diritto all’estensione del periodo di congedo parentale fino al compimento dei tre anni di vita del bambino, con retribuzione pari al 30% della retribuzione convenzionale, oppure possono usufruire ogni giorno di due ore di riposo retribuite (se l’orario di lavoro è inferiore a sei ore il riposo è di un’ora).

Se il minore ha un’età compresa tra i tre e i diciotto anni i genitori possono usufruire mensilmente di tre giorni di permesso retribuito ma questo periodo deve essere ripartito tra i due genitori se entrambi dipendenti.

In presenza di figli disabili maggiorenni si ha diritto allo stesso periodo di permessi mensili solo se il genitore che vuole usufruire di tali permessi convive con il figlio o comunque lo assiste in maniera continua.

La legge prevede un congedo straordinario per l’assistenza di figli handicappati per i quali è stata accertata, da almeno cinque anni, la situazione di gravità. Il congedo, in questa ipotesi, ha la durata massima di due anni, nell’arco della vita lavorativa, e può essere frazionato (a giorni, settimane, mesi, ecc.). Il congedo viene retribuito con un’indennità pari all’ultima retribuzione percepita.


La domanda di richiesta di congedo deve essere presentata all’INPS in duplice copia. Una di esse viene restituita dall’INPS per ricevuta e va presentata dall’interessato al datore di lavoro per fruire del congedo. Alla domanda deve essere allegata anche la documentazione della ASL dalla quale risulti la gravità dell’handicap accertata da almeno cinque anni.


RIPOSI GIORNALIERI

Durante il primo anno di vita del bambino i genitori lavoratori dipendenti possono usufruire di riposi giornalieri: la legge prevede due ore al giorno per un orario di lavoro pari o superiore a 6 ore, un’ora al giorno per un orario di lavoro inferiore a 6 ore.

Il padre lavoratore può usufruire dei riposi giornalieri solo nel caso in cui vi rinunci la madre, in caso di grave malattia o morte di questa, in caso di affidamento del figlio al padre, oppure se la madre non può usufruire dei riposi giornalieri perché non ne ha diritto (se lavoratrice autonoma, libera professionista. ecc.).

In presenza di parto gemellare le ore di riposo giornaliere sono raddoppiate e possono essere utilizzate anche contemporaneamente da tutti e due i genitori.

La domanda di riposi orari della madre va presentata al datore di lavoro, quella del padre va presentata all’INPS e al datore di lavoro.


ASSENZE PER MALATTIA DEL BAMBINO

Ogni genitore, alternativamente, anche se ha esaurito i congedi, può assentarsi dal lavoro in caso di malattia del figlio. Per i primi 3 anni di vita del bambino sono concessi 30 giorni all’anno frazionabili, mentre dai 3 agli 8 anni del bambino sono concessi 5 giorni all’anno per ciascun genitore.

Molte volte nei contratti collettivi è previsto che le assenze siano retribuite solo per i primi tre anni del bambino.
La domanda deve essere presentata al datore di lavoro allegando il certificato medico di un pediatra dell’Asl o convenzionato con il Servizio sanitario nazionale che attesti la malattia del bimbo.




E’ evidente che la legge è idonea a proteggere la lavoratrice madre e proprio per questo, da parte di qualche datore di lavoro, si cerca di aggirarla con vari sistemi scorretti, innanzitutto il mobbing, che subiscono anche gli uomini, talora, quando chiedono di usufruire dei congedi parentali.

Mobbing “perinatale” è il termine con cui si individua l’insieme delle pressioni sociali e lavorative che inducono la lavoratrice a vivere la sua gravidanza con notevole stress e stanchezza: uno stato che, purtroppo, non potrà non incidere anche sul nascituro.

I casi di donne che subiscono mobbing in occasione della gravidanza non sono pochi, ma, se fino a poco tempo addietro non se ne parlava per timore da parte delle stesse interessate, oggi sono sempre di più le lavoratrici che decidono di denunciare pubblicamente le vessazioni subite e di tutelarsi giudizialmente, come, ad esempio, l’operaia di Settimo Torinese - di cui si è occupata la stampa la scorsa estate -, che, tornata al lavoro dopo aver avuto una bimba, si è sentita assegnare l’incarico di stare seduta su una sedia, senza fare nulla, sviluppando così disturbi classificati come sindrome ansioso-depressiva reattiva.




Erminia Acri-Avvocato

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