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Strade di Kingston.
di Marco Cappeddu  

21 gennaio 2005






Ska, Reggae e stili ribelli.


 

Kingston roads

Le strade di Kingston sono infuocate. Il sole brucia dall’alto sull’isola più bella dei Caraibi. Agli angoli di una strada polverosa e rovente, un pulmino con dei rudimentali giganteschi cassoni collegati, spara musica a tutto volume. E intorno ragazzi e ragazze di colore, dai capelli cortissimi e con indosso bretelle e vestiti che scimmiottano l’eleganza proletaria degli adulti, ballano in maniera scatenata e sensuale. Il sound-system ritma il movimento di quei giovani con un irrefrenabile e gioioso tempo in levare. Ad un tratto sopraggiunge una sgangherata macchina di fabbricazione britannica, e alcune mani, sempre di colore, forse quelle di una gang rivale, tirano fuori le pistole dal finestrino e cominciano a sparare all’impazzata. Potrebbe essere la scena di una qualsiasi sabato sera nella capitale giamaicana degli anni ’60, appena formalmente uscita dalla dominazione britannica, povera, in cerca di una propria identità, che ritrova solo nei riti popolari e soprattutto nella musica.

L’isola dello ska

Alla fine degli anni ’50, in Giamaica, l’imitazione dei modelli musicali importati dall’America si evolve in uno stile originale che unisce l’elaborazione dei disk jockey dei sound system e l’esperienza del "bluebeat" (dal nome di una delle prime label a promuovere il genere). La struttura è la stessa dei gruppi di bluebeat, formati da sassofoni, trombe, tromboni, pianoforte, batteria e basso, ma con il basso in primo piano a far da conduttore. Il suono che né deriva, a partire dal 1961, è chiamato "Ska". Il nome deriva da "skavoo-vee!", un’esclamazione gergale di quel periodo che serve ad esprimere un’approvazione entusiastica. Altri ancora fanno risalire l’origine del termine all’assonanza simbolica col movimento ritmico suscitato dal tipo di ballo, o all’effetto che si ottiene sfregando i capelli rasati dei rude-boys. Le sue caratteristiche sono il tempo in levare, l’accento spostato sulla seconda e quarta battuta sottolineato dallo skank della chitarra o delle tastiere, e un basso "pieno" e "rotondo" in battere che segue ed esegue la melodia principale, il peso della sezione dei fiati, le armonie vocali derivate dai gruppi neri con uno stile modellato sul particolare inglese parlato nell’isola e il ritmo, definito <<chug-a-lug>>. Laurel Aitken, Prince Buster, Jimmy Cliff sono i pionieri e i primi "grandi" di questa fase storica dello ska "original". La popolarità dello Ska esce dai confini della Giamaica, arriva in Europa e da qui, nel 1964, grazie all’hit "My Boy Lollipop" di Millie Small, sbarca in America. Il genere, sereno e ottimista, si evolve in nuove direzioni, fino ad assumere, nella Giamaica dei primi anni Sessanta, precisi connotati sociali e progressivamente si elettrizza, sostituendo i fiati con le chitarre. In questa nuova struttura il basso rinforza il ruolo di guida e prevale sul resto. Nasce così il "rock steady", il suono delle bande giovanili, l’equivalente giamaicano del beat inglese per i giovani delle grandi città industriali britanniche. L’evoluzione, però, non si ferma lì. Si inizia a spingere ancora di più l’accento sul levare, accelerando il battito e ripescando i fiati. Nasce così il reggae la musica sincopata degli slums urbani dal canto lamentoso che interpreta l’ansia religiosa della tradizione afro. Le percussioni sembrano imitare il cuore umano, mentre il basso guida ormai decisamente la melodia e la chitarra ne ritma le cadenze. L’avvento del reggae favorisce l’introduzione della tecnica del "dub", la sovrapposizione della voce alle tracce registrate sull’esempio dei maestri dei sound system..

Quei ragazzi che ballavano e sparavano sono i rude-boys giamaicani figli della strada, diversissimi dall’immagine pacifica ed esotica, ma edulcorata del giamaicano rasta. Tra quei ragazzi poteva esserci anche un certo Robert Nesta Marley, che qualche anno più tardi diventerà una leggenda.

Un rude-boy di nome Bob Marley

Perché Bob Marley, con gli altri celebri Wailers Bunny Wailer e Peter Tosh, è vero, ad un certo punto sposa la religione rastafari. Quella fede profetica e politica che predica il ritorno al natio continente africano di tutti i neri sparpagliati e oppressi nel mondo da Babilonia (l’impero bianco capitalistico, ndr), fede propagandata da Marcus Garvey, fede che vedrà nell’imperatore etiope Hailè Selassiè I (vero nome: Ras Tafari) l’incarnazione di Dio e il redentore della causa nera. Fede che vede nella marijuana una fonte di conoscenza della Verità. Ma prima di farsi crescere i dread-locks -le lunghe trecce ancor oggi tanto di moda -e divenire icona mondiale del reggae e delle genti del terzo mondo, è stato un giovanissimo rude-boys.

Sarà proprio l’incontro in Inghilterra tra i giovani immigrati giamaicani e i giovani locali figli della classe operaia a far nascere le storiche sottoculture ribelli degli anni ’60, gli stili dei mods prima e degli skinheads poi.

Questione di stili. I Mods...

I "modernisti volanti", come qualcuno ama definirli. Immortalati dal film <<Quadrophenia>>. Ragazzi e ragazze inglesi, per lo più adolescenti, figli della working-class o dei ceti più bassi della middle-class, che si contrappongono alla sottocultura rivale dei rockers, ingaggiando con essa veri e propri scontri che originano fenomeni di guerriglia urbana. I mods non amano i giubbotti di pelle e le potenti moto Triumph dei rockers. I mods non amano scimmiottare le mode statunitensi, e non amano gli stili destrorsi. Amano il parca, il completo quattro bottoni, le brogues ai piedi. Non amano nemmeno stare in un ritrovo fisso, ma amano viaggiare, a bordo di quelle Lambrette e di quelle Vespe che rimandano ad un gusto raffinato di derivazione italiana, gusto "usato" dai mods per rivendicare una propria eleganza proletaria e una propria esigenza di modernità da sbattere in faccia ai genitori e alla società adulta e piccolo-borghese in generale. Gli Who diventano il loro gruppo "bianco" preferito dell’epoca beat, poiché loro in realtà, Who e poche altre band a parte, disdegnano la controcultura dei "fricchettoni" e si vanno a cercare suoni lontani e originali, provenienti soprattutto dalla Giamaica. Suoni importati appunto dai giovani immigrati indo-occidentali, i rude-boys. Nei confronti dei quali i "progressisti" mods non hanno alcun pregiudizio razziale. Anzi, spesso si ritroveranno assieme il sabato sera a ballare lo ska, che fa da collante tra le due sottoculture, oltre all’amatissimo soul nero di origine americana (di cui i mods del Regno Unito elaboreranno addirittura una propria versione, il northern-soul). Serate in cui faranno per la prima volta la loro comparsa le magiche "pasticchette colorate", le droghe sintetiche -amfetamine soprattutto- che diverranno endemicamente connesse al ballo giovanile di lì in poi. Ma dall’incontro tra i mods bianchi e i rude-boys neri nascerà anche una nuova sottocultura. Gli skinheads.

...gli Skinheads

Succede che ad un certo punto lo ska rallenta e si dilata, generando il rocksteady prima e, infine, il reggae, o meglio, lo skinhead-reggae, ancora un po’ lontano dal cliché della musica che sarà associata automaticamente ai rasta a partire dai seventies. E’in questa fase -siamo alla fine degli anni ’60- che i mods diventano hard-mods e si trasformano infine negli skinheads. Ancor più fieri della loro figliolanza proletaria e operaia, gli skinheads hanno i capelli cortissimi, come i rude-boys, e i loro vestiti ricordano proprio gli abiti operai, comodi all’occorrenza anche per fare più agevolmente a cazzotti nelle birrerie, per strada o allo stadio. Camice Ben Sherman che non hanno bisogno di essere stirate, comode polo Fred Perry, bretelle, jeans rigirati sotto per mostrare le punte di ferro dei robusti scarponi da lavoro, e poi via il sabato sera con i più eleganti vestiti mods per ballare, divertirsi e soprattutto "rimorchiare" belle ragazze. Rallenta la musica, rallentano anche gli skins, che dalla frenesia modernista tornano ad occupare stabilmente il proprio territorio come cani sciolti pronti ad abbaiare ai randagi forestieri. O contro i fricchettoni. Solo più tardi contro gli immigrati pakistani, assimilati nel proprio immaginario ai nuovi "ebrei" dei moderni slums sub-metropolitani per il loro atteggiamento schivo e chiuso e la loro attitudine ai commerci. Ma siamo fortunatamente ancora ben lontani dallo stereotipo degli skinheads razzisti, i famigerati naziskin - più correttamente "bonheads" per gli addetti ai lavori- che salteranno fuori alla fine degli anni ’70 in virtù della propaganda delle organizzazioni di estrema destra che fa leva sul crescente e sempre più violento disagio giovanile. In un mutato contesto sociale e generazionale in cui già si è rotto il legame con l’identità originaria, che viene ora solo "riprodotta" anacronisticamente dagli appassionati di destra ma anche di sinistra, fino ai giorni nostri. I neo-skins rifaranno furore a cavallo tra i ’70 e gli ’80 grazie alla rivoluzione punk che porterà con sé anche un fortunato ska-revival, uno ska influenzato dall’energia punk, ancor più in levare e veloce, animato da band popolari come gli Specials e i Madness, e ancor più su dal reggae ‘n’ roll dei Police di Sting ( in Italia ricordiamo gli Statuto, Giuliano Palma con i primi Casino Royale, i Persiana Jones, la Banda Bassotti). E, in senso negativo, nei primi anni ’90 con la ripresa dei fermenti xenofobi originati dai cambiamenti epocali e dalla nuova crisi economica in molti paesi europei orfani del comunismo, fenomeno che conoscerà episodi di triste emulazione anche in Italia. Per ritornare nel ghetto del "culto sottoculturale" dove gli stili storici del conflitto giovanile sopravvivono.

Lettura consigliata:

Dare un’occhiata al bellissimo saggio di Riccardo Pedrini "Skinhead. Lo stile della strada" (1996, Castelvecchi editore), con introduzione e apparati a cura di Valerio Marchi e Mariella Grimaldi.

cappeddu@fastwebnet.it

 

Marco Cappeddu

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